In pochi giorni, i miliziani di vari gruppi di opposizione al regime di Bashar al-Assad, tra cui spicca Hay’at Tahrir al-Sham, hanno conquistato ampie porzioni di territorio con l’ambizione di instaurare un emirato

Ultimo aggiornamento: 04/12/2024 15:29:36

La conquista di Aleppo del 30 novembre 2024 ha rotto i fragili equilibri della guerra civile siriana e sancito il ritorno della principale forza d’opposizione al regime di Bashar al-Assad, Hay’at Tahrir al-Sham. Fondato nel 2012 con il nome di Jabhat al-Nusra da Abu Muhammad al-Jawlani, questo movimento ha saputo adattarsi alle mutevoli dinamiche del conflitto, aggiornare la sua ideologia e stabilire un’entità para-statuale nel nordovest del Paese. Negli ultimi anni l’organizzazione ha consolidato la sua ala civile, il Governo di Salvezza Nazionale, attraverso cui ha sviluppato un modello di governance islamista che potrebbe essere esteso ai nuovi territori occupati. Per comprendere questa traiettoria occorre ripercorrerla dall’inizio.

 

Gli esordi: da Jabhat al-Nusra a Tahrir al-Sham

 

L’ascesa del movimento fu resa possibile dallo scoppio della guerra civile siriana a seguito del fallimento delle proteste pacifiche della Primavera Araba del marzo 2011. Il vuoto politico e istituzionale creato dal conflitto permise ai jihadisti siriani e iracheni di formare gruppi di combattenti appartenenti formalmente alle milizie dell’opposizione note come Esercito Siriano Libero (FSA). Abu Bakr al-Baghdadi, leader dello Stato Islamico in Iraq (ISI) approfittò dei disordini e alla fine del 2011 incaricò due suoi commilitoni, Abu Muhammad al-Jawlani e Abu Maria al-Qahtani, di trasferirsi in Siria per fondare un movimento affiliato allo Stato Islamico: il 23 gennaio 2012 venne ufficialmente istituito il “Fronte del Sostegno al popolo levantino” (Jabhat al-Nusra li-Ahl al-Sham). Al-Nusra cominciò dapprima a incorporare altri gruppi jihadisti; successivamente si infiltrò all’interno del FSA, che dopo alcuni successi era entrato in una fase di crisi.

 

I miliziani si richiamavano a una ideologia e a un’agenda politica ben definite: creare in Siria un “emirato” autenticamente islamico-sunnita in sostituzione del fallimentare Stato laico-alawita di Assad. Riprendevano inoltre la (di)visione di Abu Mus‘ab al-Zarqawi, leader di al-Qaida in Iraq e fondatore dell’organizzazione dello Stato Islamico: il jihad armato era rivolto sia contro il “nemico lontano”, gli Stati Uniti e l’Occidente, sia contro quello “interno”, rappresentato dai dittatori laici e i “miscredenti” cristiani, sciiti ed ebrei. L’ideologia del movimento si inseriva all’interno della più ampia corrente del salafismo jihadista, che intende instaurare attraverso la lotta armata uno Stato Islamico utopico, modellato sulla originaria comunità islamica del profeta Muhammad e dei primi califfi.    

 

I fattori che permisero ad al-Nusra di assumere il controllo dell’Esercito Libero, riformulando gli obiettivi della “rivoluzione” siriana in ottica salafita-jihadista, furono l’esperienza maturata da molti dei suoi miliziani nei campi di addestramento in Afghanistan e nell’Iraq post-Saddam, unita ai cospicui finanziamenti garantiti dal network di ISI e al-Qaida e alla debolezza dei ribelli moderati. Ma il successo della formazione non era frutto soltanto della sua forza militare. Fin dall’inizio al-Jawlani attenuò la dimensione globale del jihad reindirizzando l’azione del movimento in chiave locale, tesa ad abbattere il regime di Assad e il suo establishment alawita “apostata”. Per ottenere il consenso della popolazione, egli stabilì un vero e proprio patto sociale: al-Nusra si sarebbe fatta carico dell’erogazione dei servizi un tempo garantiti dallo Stato, dal sistema giudiziario a quello educativo. L’amministrazione civile si sarebbe basata sui principi shariatici, anche se al-Jawlani specificò che il processo di “islamizzazione” sarebbe dovuto avvenire in maniera graduale, tenendo conto delle particolarità del territorio. Dal punto di vista comunicativo, il movimento adottò una politica di “basso profilo” e, per ridurre l’attenzione della stampa internazionale e dell’Occidente, evitò di dichiarare le sue affiliazioni con ISI e al-Qaida.

 

L’adozione dell’approccio pragmatico e “nazionalista” permise al Fronte di Supporto di diventare uno dei principali attori della guerra civile. Il gruppo colse un importante successo nel marzo 2013, quando si mise a capo di un’ampia coalizione – composta da Stato Islamico, Ahrar al-Sham, Fronte di Liberazione Islamica e Fronte Islamico Siriano – capace di sconfiggere l’esercito governativo e di conquistare la città di Raqqa, primo capoluogo siriano a cadere sotto il controllo dei ribelli. Con la dissoluzione dell’opposizione moderata e la ritirata delle truppe di Assad, al-Nusra cercò di stabilire un’egemonia all’interno della coalizione jihadista, entrando inevitabilmente in competizione con lo Stato Islamico. Nella primavera del 2013 avvenne la rottura: al-Baghdadi, dopo aver annunciato l’ingresso dell’ISI – ridenominato Stato Islamico di Iraq e Levante (ISIS) – nella guerra civile siriana, tentò di ripristinare il controllo su al-Nusra chiedendo ad al-Jawlani di riconoscere la sua autorità. Al-Jawlani rifiutò la richiesta e confermò la sua lealtà ad al-Qaida, provocando la definitiva frammentazione del blocco salafita-jihadista. Le due organizzazioni cessarono di cooperare e si spartirono i territori conquistati: la valle dell’Eufrate e il nord-est del Paese divennero il nucleo di ISIS; i governatorati di Idlib, Hama, Homs, Aleppo, Laodicea andarono ad al-Nusra.

 

La nascita di Tahrir al-Sham

 

Anche dopo la fine dell’alleanza con l’ISIS, il Fronte del Soccorso proseguì con successo la sua campagna militare nel nord-ovest del Paese e nell’aprile 2015 il gruppo cinse d’assedio e conquistò la città di Idlib, che da allora divenne di fatto la capitale dell’“emirato”. Nel tentativo di rendere il movimento autenticamente siriano e gradito alla popolazione locale, nel 2016 al-Jawlani rinominò il movimento in “Fronte della Conquista del Levante” (Jabha Fath al-Sham) e prese ufficialmente le distanze da al-Qaida.

 

Lo scenario geopolitico siriano stava però mutando: il regime di Assad, grazie all’intervento dei suoi alleati (il movimento libanese Hezbollah, i pasdaran iraniani e la Russia) aveva accresciuto le sue capacità militari ed era passato alla controffensiva invadendo il territorio meridionale dell’“emirato”. A ciò si aggiunse il ruolo della Turchia, il cui esercito invase nell’agosto del 2016 i territori settentrionali limitrofi, finanziando una serie di gruppi d’opposizione ostili a Fath al-Sham, tra cui Ahrar al-Sham. Lo stesso leader di al-Qaida, Ayman al-Zawahiri, diffuse un messaggio audio in cui criticava apertamente al-Nusra, non solo per via del suo rebranding e per la fine del “patto di lealtà” ad al-Qaida, ma anche perché l’approccio “nazionalista” di al-Jawlani era in aperta contraddizione con il concetto del jihad globale.   

 

È in questo clima che al-Jawlani pianificò un’ambiziosa campagna militare per occupare Aleppo, centro dall’alto valore strategico e simbolico tanto per i jihadisti quanto per Assad. La città, la più popolosa e ricca del Paese prima dell’inizio delle ostilità, era contesa fin dal 2012 tra le forze governative, presenti nel centro storico e nei quartieri nord-occidentali, e le armate ribelli che avevano occupato i rioni orientali. La sua conquista avrebbe aumentato la profondità strategica dell’“emirato” e rafforzato la coesione interna del Fronte. Nonostante la grande mobilitazione di mezzi e uomini, Fath al-Sham fu alla fine sconfitta dall’esercito siriano che, coadiuvato dall’aviazione russa e dalle milizie sciite, accerchiò Aleppo e, dopo un estenuante assedio durato quattro mesi, la conquistò nel dicembre del 2016.

 

La débâcle produsse conseguenze molto gravi per la coalizione salafita, al cui interno emersero nuove divergenze e scissioni: la più importante riguardava quella di Ahrar al-Sham, che era fuoriuscita dalla coalizione ancora prima della caduta di Aleppo. Per ridare compattezza al blocco islamista, al-Jawlani decise di trasformare Fath al-Sham in un vero e proprio movimento politico-militare (a cui si aggiunsero altre formazioni minori), che il 28 gennaio 2017 prese il nome di “Comitato per la Liberazione del Levante” (Hay’at Tahrir al-Sham, HTS). In realtà questa ridenominazione fu un’operazione “cosmetica” che non produsse sostanziali modifiche; piuttosto, essa ambiva a centralizzare il comando militare in modo da arrestare l’avanzata dell’esercito regolare e, soprattutto, ingaggiare uno scontro con l’ex alleato Ahrar al-Sham. Il confronto intra-salafita, acuitosi nell’estate del 2017, volse a favore di Tahrir al-Sham, ma indebolì ulteriormente l’“emirato”, destabilizzato dalla guerriglia. Il sensibile peggioramento delle condizioni di vita spinse la popolazione a contestare apertamente l’autorità di HTS, che faticava a garantire la sicurezza sociale.

 

Il Governo di Salvezza Nazionale e la fase “post-jihadista”

 

Per far fronte all’emergenza, al-Jawlani ricorse a un nuovo riassetto politico e nel novembre 2017 istituì il Governo di Salvezza Nazionale (SSG), un’autorità civile incaricata di occuparsi degli affari interni dei territori controllati da Tahrir al-Sham e, in particolar modo, di ridurre l’escalation di violenza tra le varie fazioni militari. L’ente, che serviva anche a legittimare HTS a livello regionale e internazionale, presentava una struttura ibrida, in cui cariche laiche come presidenza e ministeri venivano supervisionate da un organo di controllo religioso, il Consiglio Generale della Shura.

 

Grazie al nuovo assetto, il governo civile accentrò numerose competenze in materia di affari interni e riuscì a migliorare parzialmente l’erogazione dei servizi sociali. Tuttavia, due ordini di problemi rimasero irrisolti. Il primo riguardava l’incapacità del SSG di esercitare piena sovranità sull’intero territorio di Idlib a causa delle fazioni concorrenti. Il secondo era legato all’andamento delle operazioni belliche: tra il dicembre 2019 e il marzo del 2020 l’esercito del regime, sostenuto dalle milizie filoiraniane e dall’aviazione russa, occupò la parte orientale dell’emirato, giungendo a pochi chilometri da Idlib.  

 

Nonostante la situazione precaria, Tahrir al-Sham continuò a consolidare il Governo di Salvezza Nazionale. Negli affari interni al-Jawlani elaborò una sorta di governance post-jihadista che, pur rifacendosi ai precetti islamici, si proponeva come una forza conservatrice appartenente all’opposizione moderata anti-Assad. Questa agenda divenne esplicita a inizio del 2021, quando al-Jawlani concesse per la prima volta un’intervista a un giornalista americano, Martin Smith, in cui mostrava il nuovo volto della formazione. Nel tentativo di riabilitarsi di fronte alle cancellerie occidentali, il leader affermò di aver concepito il conflitto siriano come una lotta di liberazione contro il regime priva di connotazioni settarie. Egli confermò la sua distanza, ideologica e politica, dal Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, uomo che descrisse come incapace e poco esperto degli affari interni del Paese. Soprattutto, al-Jawlani sottolineò i progressi compiuti dalla sua amministrazione civile mostrando a Smith durante un tour in automobile la “nuova” Idlib, città che stava cercando di ritornare faticosamente alla normalità dopo le distruzioni della guerra.

 

Più controverso il rapporto con le minoranze religiose, in particolar modo con i cristiani e le comunità sciite. Dopo aver commesso una lunga serie di soprusi e atti di violenza, come la conversione forzata all’Islam, le persecuzioni e la distruzione dei luoghi di culto, al-Jawlani cominciò a fare alcune concessioni, restituendo abitazioni e terreni confiscati in precedenza dai jihadisti; inoltre, nel dicembre del 2021 i cristiani di Idlib poterono celebrare pubblicamente il Natale per la prima volta dalla Primavera Araba. Infine, il 19 luglio 2022 il leader, incontrando la piccola comunità cristiana della cittadina di Jisr el-Shughur, sottolineò l’interesse di HTS nel proteggere i siti storici del Paese, tra cui le chiese, e nel rispettare la minoranza religiosa: voi «cristiani siete presenti qui da più di un millennio. Questa è la vostra terra». Tuttavia, gli analisti sono concordi nel sottolineare la natura propagandistica di queste iniziative, dimostrando che i pochi cristiani e drusi rimasti nei territori dell’emirato vivevano ancora in una condizione di subalternità rispetto alla maggioranza sunnita.   

 

In merito alle questioni militari, al-Jawlani negò la natura violenta di Tahrir al-Sham, respingendo in particolar modo l’accusa di aver commesso atti di tortura ai danni dei prigionieri politici. Giustificò tuttavia gli attacchi suicidi compiuti in passato, sostenendo che tali pratiche rappresentavano l’unico metodo di lotta a disposizione del gruppo per contrastare l’esercito di Assad, dotato di mezzi e risorse di gran lunga superiori a quelle delle opposizioni. Dal punto di vista ideologico, al-Jawlani non sconfessò apertamente il salafismo-jihadista, ma ribadì la fine dei rapporti con al-Qaeda. Più eloquente il commento che Abu Maria al-Qahtani rilasciò al giornalista di France 24 Wassim Nasr: «la scelta del jihad globale è stato un errore che ha portato solo distruzione e desolazione alle popolazioni che volevamo difendere. È giunta l’ora di costruire e consolidare le conquiste della rivoluzione». A tal proposito, le operazioni di “antiterrorismo” volte a eliminare le ultime cellule dello Stato Islamico, le formazioni jihadiste minori (Jund al-Sham) o i gruppi affiliati ad al-Qaida (Hurras al-Din) avevano un triplice obiettivo: confermare la “via mediana” intrapresa da HTS, contrastare le organizzazioni locali che potevano rappresentare una minaccia per il movimento, migliorare la cooperazione (o convivenza) con l’esercito turco e i gruppi ad esso affiliati.

 

In realtà, i riferimenti al jihadismo non furono eliminati del tutto, piuttosto rimasero confinati al dibattito interno e alla formazione ideologica dei membri. Ad ogni modo, “Liberazione del Levante” spostò definitivamente il proprio focus del jihad dall’originaria dimensione globale a quella locale: come ammesso dal suo leader, l’ex gruppo al-Nusra aveva rinunciato a combattere le truppe statunitensi per concentrarsi sulla lotta contro il regime di Damasco. L’aggiornamento dell’apparato teorico fu dettato anche dagli sviluppi geopolitici che stavano interessando il mondo arabo-islamico, tra cui spiccava il ritorno dei Talebani in Afghanistan. Il 15 settembre 2021, pochi giorni dopo la ricostituzione dell’Emirato afghano, il capo del Consiglio della Fatwa di HTS ‘Abd al-Rahim al-Atun tenne a Idlib una lezione dal titolo “Il jihad e la resistenza nel mondo islamico” in cui sottolineava i punti in comune tra il governo di Tahrir al-Sham e le altre esperienze islamiste. Secondo al-Atun, il jihad costituiva ancora un concetto importante per il movimento, ma andava accostato ad altri due termini chiave: rivoluzione (thawra) e resistenza (muqāwama): «in Siria, la classica e tipica rivoluzione contro il regime locale è cambiata radicalmente, trasformandosi in un movimento di resistenza contro le numerose potenze occupanti», ossia le milizie iraniane, Hezbollah e le truppe russe. Al-Atun legittimò il governo di Tahrir al-Sham paragonandolo alla lotta di liberazione di Hamas contro Israele e, soprattutto, alla resistenza dei Talebani contro la presenza americana. L’Afghanistan divenne quindi il modello di governance post-salafita che i miliziani siriani avrebbero dovuto imitare: uno Stato islamico (e all’occorrenza jihadista) negli affari interni, ma al contempo pragmatico e “moderato” in politica estera, capace di stringere relazioni diplomatiche ed economiche con i Paesi confinanti e con le potenze regionali.

 

Dalla lotta interna alla conquista di Aleppo

 

Nello stesso tempo in cui si consolidava il governo post-salafita a Idlib, Tahrir al-Sham approfittò dell’entrata in vigore della tregua russo-turca del marzo 2020 – che congelò i fronti di battaglia e instaurò uno status quo nel Paese – per proseguire le operazioni militari nel nord e rafforzare il suo esercito, allo scopo di affermarsi come organizzazione egemone dell’opposizione. Per raggiungere questo obiettivo il movimento prese contatti con l’intelligence turca, che nel corso del conflitto aveva finanziato e addestrato l’Esercito Nazionale Siriano (SNA), di orientamento islamista ma ostile a HTS. Questo processo, che procedette di pari passo con l’evoluzione ideologica del governo “post-salafita”, portò nel giugno del 2022 gli uomini di al-Jawlani a entrare per la prima volta nel cantone di Afrin, territorio amministrato dalle milizie filo-turche. Contemporaneamente, emissari del movimento incontrarono esponenti del SNA per discutere la possibilità di stringere collaborazioni militari. La relazione tra turchi e Tahrir al-Sham fu però ambigua: da una parte Ankara riconobbe la sovranità dell’organizzazione sull’ex governatorato di Idlib; dall’altra HTS continuò a scontrarsi con gruppi affiliati all’Esercito Siriano Nazionale, come Faylaq al-Sham e Sultan Murad, provocando talvolta attriti anche a livello sociale. Il malcontento non proveniva però solo dal basso: una parte della stessa organizzazione – ossia l’ala guidata dal cofondatore di al-Nusra, Abu Maria al-Qahtani – iniziò a contestare la leadership di al-Jawlani, accusato di aver governato in maniera autocratica e senza condividere il potere con il resto dell’establishment. La tensione si acuì nell’estate del 2023, quando al-Jawlani ordinò l’arresto di al-Qahtani, ma a causa delle numerose proteste popolari fu costretto a rimetterlo in libertà nel marzo 2024. Poche settimane più tardi al-Qahtani fu assassinato nella sua residenza di Sarmada.  

 

Risolta la faida interna e consolidata la propria autorità sul territorio, il 27 novembre HTS e il SNA hanno dato avvio a due operazioni militari congiunte e su vasta scala – “Deterrenza contro l’Aggressione” il primo, “Alba della Libertà” il secondo – che hanno colto completamente di sorpresa l’esercito di Assad, costretto a ritirarsi dalla Siria settentrionale. In pochi giorni i ribelli sono riusciti a conquistare la città di Aleppo e a minacciare persino Hama, quasi triplicando l’estensione dell’“emirato”. Si tratta del più importante e clamoroso successo militare ottenuto dalle forze di opposizione in quattrodici anni di guerra. L’operazione è significativa anche perché, oltre a rappresentare la prima avanzata della coalizione islamista dopo anni di sconfitte e dissidi interni, rompe la tregua entrata in vigore nel marzo del 2020 con l’accordo turco-russo che aveva congelato la situazione sul campo e diviso il Paese in tre sfere di influenza. Il successo è il risultato di una serie di fattori: l’intrinseca fragilità dell’esercito governativo, il parziale disimpegno di truppe russe e iraniane dal Paese – Mosca è alle prese con la guerra in Ucraina, l’Iran nel sostenere i suoi proxy dell’Asse della Resistenza a Gaza e in Libano – la distruzione della catena di comando di Hezbollah da parte di Israele. Soprattutto, l’esercito islamista ha migliorato significativamente le sue capacità belliche dimostrando di aver fatto tesoro della sconfitta nell’assedio di Aleppo del 2016. Come ha sottolineato Charles Lister, direttore del Syrian program presso il Middle East Institute, negli anni della tregua l’organizzazione è riuscita ad accrescere il numero dei miliziani e nel corso di “Deterrenza contro l’Aggressione” ha impiegato una serie di armamenti inediti e sofisticati  – la cui provenienza non è ancora chiara – come droni e missili da crociera. Inoltre, i ribelli hanno migliorato sia la tattica che la strategia militare, coordinando in maniera efficace i vari reparti, avvalendosi di cellule dormienti nei territori del regime e scegliendo con cura la tempistica degli attacchi. Non bisogna infine trascurare il ruolo di Ankara, che potrebbe aver offerto sostegno più o meno diretto al SNA in modo da aumentare la sua influenza nel Paese, marginalizzare le milizie curde e ricollocare i milioni di profughi siriani che attualmente si trovano in Turchia.  

 

L’operazione militare potrebbe in questo modo dare ulteriore slancio al progetto islamista di Tahrir al-Sham, esportando il “modello” Idlib anche ad Aleppo. L’obiettivo consiste nello spostare il focus della politica di HTS dal warfare a un welfare di ispirazione islamista, indispensabile per il mantenimento dell’ordine sociale e per il consenso popolare dopo anni di guerra. Tra i primi provvedimenti dell’amministrazione di HTS, infatti, vi sono la riparazione delle strade e l’erogazione della corrente elettrica, ottenuta interrompendo le forniture per uso industriale, mentre la Commissione Generale della Zakat ha provveduto a distribuire agli aleppini pacchi di viveri alimentari. Nel frattempo, il gruppo ha avviato il processo di transizione dal governo militare a quello civile del Governo di Salvezza. La leadership di HTS si è presentata come una forza moderata, promettendo inclusività e rispetto per tutti i cittadini, ma ciò non ha convinto una parte delle minoranze cristiane e curde, che nel corso della guerra civile sono state perseguitate da Jabhat al-Nusra e da altre sigle salafite-jihadiste, a rimanere ad Aleppo. 

 

In definitiva, l’esperienza di Tahrir al-Sham rappresenta un significativo aggiornamento della politica islamista che, in maniera simile al governo dei Talebani afghani, ha apparentemente avviato una svolta moderata al fine di accrescere la propria rilevanza nel Paese e ottenere un qualche grado di riconoscimento a livello internazionale. Rimangono tuttavia numerose riserve sul suo operato in un territorio abitato da minoranze etnico-religiose e da un alto numero di profughi e sfollati. Infine, resta da valutare la capacità di tenuta dell’emirato di fronte al proseguimento del conflitto, con la possibile reazione del fonte pro-Assad, o alla competizione delle milizie filo-turche.

 

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