Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:41:18
Il 25 settembre un ordigno è esploso poco dopo la fine della funzione domenicale all’ingresso della chiesa protestante Bethel di Surakarta, sull’isola di Java, causando la morte dell’attentatore suicida e ferendo circa 30 persone. La polizia ha velocemente scoperto che l’attentatore era legato a un gruppo terroristico chiamato T
awhîd al-Jihâd, che solo poche settimane prima aveva attaccato la moschea di una stazione di polizia a Cirebon. Alcuni giorni più tardi sono state rinvenute due bombe a basso potenziale vicino ad un'altra chiesa.
Se gli attentati esplosivi contro le chiese, infatti, sono inusuali per l’Indonesia, gli attacchi contro di esse si verificano regolarmente. Per i primi nove mesi del 2011 il Jakarta Forum for Christian Communications ha contato 31 casi di interventi armati in chiese cristiane mentre nel 2010 si sono contati 47 incidenti. Questo suscita domande serie: quali sono le cause di una tale violenza contro le chiese cristiane? Si tratta di attacchi organizzati? E quali sono le prospettive per il futuro?
In realtà, gli attacchi contro le chiese sono stati rari durante i primi 45 anni di vita della Repubblica d’Indonesia. Essi hanno invece iniziato ad aumentare in maniera significativa dopo la “svolta islamica” di Suharto, attorno al 1990, culminando in 5 pogrom, in cui, contemporaneamente, più di 70 chiese furono sistematicamente attaccate e, nella maggior parte dei casi, incendiate e distrutte. Nel 1999, per via di un retroterra molto complesso, nelle Molucche e al centro di Sulawesi scoppiò una guerra tra cristiani e musulmani, causando più di 8000 morti.
Mentre la guerra nelle Molucche terminò nel 2002, a Sulawesi vi furono infiltrazioni di gruppi terroristici internazionali e solo nel 2007 fu ristabilita la pace. Perciò, quando lo scorso 11 settembre sono scoppiati nuovi scontri tra cristiani e musulmani nel capoluogo delle Molucche, Ambon, causando due morti e case bruciate, la nazione ha trattenuto il respiro. Ma il rapido intervento della polizia e dell’esercito ha ristabilito la quiete dopo due giorni di tumulti.
L’incidente, provocato da alcune voci tendenziose, mostra quanto sia ancora precaria la situazione. Nel complesso, più di mille chiese sono state attaccate dal 1990, se non si tiene conto delle circa 200 che sono state distrutte durante la guerra civile.
Sorge dunque la questione di cosa stia accadendo in Indonesia, lo Stato con il maggior numero di musulmani e dimora di 20 milioni di cristiani, il 9 % della popolazione. Le crescenti difficoltà che i cristiani incontrano in Indonesia sono, da una parte, la conseguenza del complesso sviluppo del Paese, e dall’altra del rafforzamento globale – che si avverte anche qui - di tendenze islamiche fondamentaliste, intolleranti e propense al terrorismo, sviluppatesi a partire dalla Rivoluzione Iraniana.
Un fattore è già stato menzionato: la svolta islamica di Suharto. Alcuni musulmani ritengono i cristiani responsabili della loro stessa esclusione durante i primi vent’anni del Nuovo Ordine promosso dal presidente. In nome della proporzionalità molti cristiani furono infatti rimossi dai ranghi del partito dominante, il Golkar, dall’esercito e dall’amministrazione. Inoltre in Indonesia c’è sempre stata un’ala islamica radicale repressa col pugno di ferro sotto i due presidenti autoritari Sukarno e Suharto. Le aperture democratiche successive alla caduta di Sukarno e di Suharto nel maggio 1998 le permisero di venire allo scoperto.
I sentimenti anti-cristiani divennero in quel momento liberi di esprimersi. L’apice di questo sviluppo fu l’attentato della vigilia di Natale del 2000, al culmine della guerra civile tra cristiani e musulmani in Indonesia Orientale, quando 30 ordigni esplosero contemporaneamente dentro e nelle vicinanze di chiese a Batam, Sumatra, Java, Lombok, uccidento 17 persone e ferendone più di 100.
Quest’azione terroristica, organizzata in modo estremamente efficiente, non è mai stata seriamente oggetto di indagine da parte della polizia, probabilmente perché vi era coinvolto l’esercito, l’unica organizzazione in grado di lanciare un’operazione logistica di questo tipo.
L’intolleranza alla base è dunque in crescita. Ciò significa che la costruzione di nuove chiese è diventata poco a poco sempre più difficile (il regolamento governativo prevede che le minoranze debbano ottenere almeno 60 firme di appartenenti alla maggioranza religiosa circostante come condizione per procurarsi un’autorizzazione all’edificazione di un luogo di culto). Nello stesso tempo le chiese che non hanno un permesso ufficiale sono soggette a minacce e chiusure forzate.
Vi sono tuttavia anche sviluppi positivi. I più importanti: durante gli ultimi 15 anni le relazioni tra i cristiani e i musulmani tradizionali sono continuamente migliorate. Mentre 30 o 40 anni fa i cristiani tendevano a rivolgersi all’esercito nazionalistico per ottenere protezione, ora essi hanno stretto nuove relazioni con i leader musulmani tradizionali, soprattutto con il Nahdlatul Ulama e con la Muhammadiyah, le due grandi organizzazioni islamiche indonesiane.
Ciò è avvenuto non solamente ai livelli più alti – i nostri Vescovi nelle aree a maggioranza musulmana generalmente hanno ora relazioni personali strette con i loro equivalenti di parte musulmana – ma anche a livello delle comunità parrocchiali.
I seminaristi vivono nei pesantrens (collegi islamici tradizionali) e durante le notti di Natale e di Pasqua, in alcuni luoghi, le milizie del Nahdlatul Ulama proteggono ora le chiese.
Gli atti di violenza non possono oscurare il fatto che il 95% delle comunità cristiane vive e pratica il proprio culto in mezzo ad una maggioranza musulmana libero dal timore di interferenze. C’è perciò libertà di credo, ma anche di cambiare religione. In realtà quella che è attualmente in corso è una battaglia sull’essenza stessa dell’Islam indonesiano. I giovani musulmani cadranno sempre di più sotto l’influenza dei wahabiti e dei salafiti oppure il Nahdlatul Ulama e la Muhammadiyah, con il loro atteggiamento moderato, che combina l’Islam con il nazionalismo indonesiano e la tradizionale tolleranza, riusciranno a prevalere?
Il vero problema dell’Indonesia risiede nella debolezza dello Stato. Nonostante il considerevole successo nella lotta al terrorismo, lo Stato pare riluttante ad agire qualora le minoranze siano minacciate. Così le esortazioni contro l’uso della violenza non sono sostenute da azioni corrispondenti. Un caso estremo di questa inazione si è verificato lo scorso febbraio, quando una folla di più di mille musulmani ha attaccato una piccola comunità della Achmadiyah a Cikeusik, nell’ovest di Java, uccidendo tre suoi membri sotto gli occhi della polizia. Dodici aggressori sono stati in seguito condannati dai tre ai sette mesi di prigione, ma non per omicidio bensì per possesso d’armi.
Un altro caso riguarda la comunità presbiteriana Yasmin nella città di Bogor. Dal luglio 2010, a causa della chiusura dell’edificio da parte del sindaco della città, i suoi membri celebrano la messa domenicale sul marciapiede di fronte alla loro chiesa, protetti dalla polizia e spesso importunati da gruppi musulmani, e benché l’alta corte indonesiana abbia dichiarato illegale la chiusura, la chiesa è ancora chiusa.
Dietro la riluttanza dell’apparato legislativo, esecutivo e giudiziario dello Stato a prendere iniziative che potrebbero essere impopolari per parti della maggioranza musulmana si celano codardia, opportunismo e ristrettezza di vedute.
Cosa ci riserverà dunque il futuro? Le difficoltà attuali con ogni probabilità continueranno ad accompagnarci. L’Indonesia diventerà sempre più islamica; per i cristiani, dunque, la situazione rischia di diventare più difficile. Ma questo non dovrebbe oscurare il fatto che i cristiani sono ora accettati dai musulmani comuni come mai è stato in passato. Se la democrazia indonesiana si stabilizzerà – la sua più grande minaccia è la corruzione della classe politica ‒ la libertà religiosa che è radicata nella cultura indonesiana e sostanzialmente rispettata dai musulmani comuni non verrà meno. Il solido sviluppo delle relazioni tra cristiani e musulmani durante gli ultimi 15 anni è probabilmente il capitale più consistente del Paese.