La testimonianza di un parroco filippino in missione nel Golfo. Intervista a cura di Luca Fiore

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:43:27

«Il parroco in Oman? È l’ultima cosa che pensavo di fare nella vita». Padre Raul Ramos è un cappuccino di 55 anni, viene dalle filippine e dal 2007 è parroco della chiesa di San Pietro e Paolo a Ruwi, uno dei quartieri di Muscat, la capitale del Sultanato dell’Oman. Dal tetto della casa parrocchiale, tra antenne satellitari e condizionatori d’aria ci mostra la cupola bianca della chiesa. «È bella vero? Sembra quella di una moschea ». Ride. Siamo al tramonto e il cielo sopra Muscat si tinge di un rosa delicato che sembra addolcire persino le austere montagne rocciose che fanno da corona alla città che si affaccia sull’Oceano indiano. Dal tetto si vedono anche le chiese delle altri confessioni cristiane, il campo di pallacanestro e un piccolo cimitero con le lapidi dei soldati, non solo i cattolici, dell’esercito inglese che nell’800 persero la vita in Oman. La Chiesa di San Pietro e Paolo di Ruwi è una delle quattro chiese che sorgono nel Paese. Un’altra è sempre nei pressi Muscat, la Chiesa del Santo Spirito a Ghala, la terza è più al Nord a Sohar, la chiesa di Sant’Antonio, e la quarta è al Sud a Salalah, la parrocchia di San Francesco Saverio. Tutti i terreni dove sorgono le chiese sono stati donati dal Sultano Qaboos Bin Said Al Said e le parrocchie appartengono al Vicariato della Penisola araba. I fedeli delle chiese omanite sono tutti stranieri arrivati per motivi di lavoro: in Oman, infatti, un terzo della popolazione è immigrata per ragioni professionali. Padre Raul, quanti sono e dove vengono i fedeli della sua parrocchia? Secondo una stima molto approssimativa sono 20mila, ma francamente penso siano almeno 23-24 mila. Abbiamo 1500 tra bambini e ragazzi che seguono il catechismo. I fedeli provengono per la stragrande maggioranza dall’India e dalle Filippine, ma ci sono anche molti pakistani, nepalesi, cittadini del Bangladesh e dello Sri Lanka come pure cristiani di lingua araba provenienti dal Libano e dintorni. Poi abbiamo anche alcuni africani ed europei. E le celebrazioni in che lingua sono? La lingua principale è l’inglese. Ma abbiamo celebrazioni ogni due settimane o una volta al mese in malayalam (Kerala), konkani (Goa), filippino e urdu. Si dice che venendo nel Paesi del Golfo a lavorare le persone riscoprano la fede. È vero anche a Muscat ? Assolutamente di sì. Le persone arrivano qui e trovano una situazione completamente diversa. Vengono in Oman per lavorare e non possono coltivare la propria fede come facevano a casa loro. La fatica del lavoro, la lontananza da casa e la solitudine. Da qui nasce in loro l’esigenza di un significato più profondo, il bisogno di un compimento che non avevano mai percepito così acuto. Così il loro coinvolgimento con la comunità cristiana diventa molto più grande. Di questo si può farne esperienza durante le nostre celebrazioni: una disciplina, un silenzio, un impegno davvero impressionanti. Molti di loro lavorano in zone isolate e devono fare parecchi chilometri per arrivare alla Chiesa, quella più vicina a qui è a 25km, quella dopo a 250km e quella dopo ancora a 1200km. Tanti di loro devono fare un vero e proprio viaggio per venire a messa. Ma lo fanno, perché per loro è un po’ come tornare a casa. Come raggiungono la parrocchia dalle zone più lontane ? In auto chi ce l’ha, se no in taxi o in tanti casi sono le aziende stesse che organizzano i pullman per la messa festiva del venerdì. Delle piccole odissee… Sì, le distanze sono davvero un problema. Le persone che lavorano nell’interno, nelle zone desertiche dove ci sono i pozzi di petrolio, sono davvero difficili da raggiungere. Andarli a trovare è un problema per noi. Anche perché non abbiamo il permesso di radunarci per pregare al di fuori dei luoghi autorizzati, che sono le nostre quattro chiese. Qualcuno lo fa, ma in piccoli gruppi e con grandissima discrezione. Quali sono le altre difficoltà dei suoi parrocchiani? Innanzi tutto le persone che vengono qui lo fanno perché, di solito, hanno già dei problemi in patria. Moltissimi si affidano ad agenzie che promettono loro un impiego all’estero per un salario alto. Molti di loro accettano perché sono poverissimi e tante volte non trovano quello che gli è stato promesso. Alcuni riescono ad arrivare qui legalmente, altri invece arrivano illegalmente. Questi ultimi vivono le difficoltà dei clandestini : la paura e l’incertezza. L’altra grande difficoltà è la solitudine. Vengono in un Paese straniero e non fanno altro che lavorare : casa-lavoro, lavoro-casa, lavoro-casa-chiesa. Null’altro. Solitudine e tristezza. Capita di stare qui a lavorare per venti anni e poter tornare a casa solo un mese ogni due anni. Come sono i rapporti tra questi immigrati e la popolazione locale? Il grande problema è la lingua. L’arabo è una lingua bellissima, ma difficile da imparare. La lingua franca è l’inglese, che si usa nei rapidi contatti tra immigrati e popolazione locale soprattutto negli uffici pubblici, quindi i rapporti restano superficiali, è difficile andare rapporti più profondi. Ci sono persone che si convertono al cattolicesimo? Sì, c’è qualcuno che si converte tra i non musulmani. Ma chiediamo a queste persone che vadano a farsi battezzare nei loro Paesi di origine. Di solito avviene durante i periodi di vacanza. Tornano a casa in India o nelle Filippine, lì vengono battezzati, poi tornano qui e cominciano a partecipare alla vita della comunità. È una forma di prudenza e di rispetto verso la libertà di culto che ci è concessa dai nostri fratelli musulmani. Come accade che si convertono? Succede che i cristiani indiani o filippini lavorano qui in Oman fianco a fianco con loro concittadini di altre religioni. Sul lavoro capita che si parli e molti cristiani danno testimonianza concreta e quotidiana della loro fede. E qualcuno resta colpito e si converte. Io chiedo loro: «Che cosa ti porta qui? ». E mi rispondono: «L’esperienza fatta accanto a quest’uomo o questa donna mi ha portato qui. Mi ha convinto il vedere come vivono, come lavorano, come praticano la loro fede». Qual è il caso che l’ha più colpita ? Rimango molto sorpreso quando scopro che personaggi pubblici di altre religioni credono in Gesù. Credono nella fede cristiana. Sono musulmani, indù. Sono molto sorpreso. Qualche volta si avvicinano e chiedono. Ma noi non possiamo fare granché. Capita anche che gente locale venga e mi chieda di pregare per loro. Perché secondo lei? Perché sono colpiti da come vive la nostra gente.