Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 26/07/2024 17:42:46

Come leggere la dichiarazione di unità nazionale firmata dalle organizzazioni palestinesi a Pechino? La stampa araba è divisa in due: una parte, quella di area (filo)emiratina, che celebra a tutto tondo l’iniziativa e un’altra, di area (filo)qatariota, che si mostra molto più prudente. Toni entusiastici quelli del quotidiano panarabo al-‘Arab, che loda il consolidamento della partnership tra Paesi arabi e il gigante cinese. Quest’ultimo ha infatti «dimostrato di essere pronto, sul piano politico, a comprendere le crisi regionali presenti in Medio Oriente e a risolverle. È un passaggio che rappresenta un profondo cambiamento della politica estera cinese verso la regione araba, tenendo conto del fatto che in precedenza le sue politiche erano basate sul non interventismo». Anche se l’approccio della politica estera cinese in Medio Oriente sta dimostrando una certa efficacia, come dimostrato già dall’accordo tra Arabia Saudita e Iran nel 2023, la prudenza degli arabi, aggiunge al-‘Arab, non è mai troppa: vi è infatti ancora un «bisogno urgente di maggiore coordinamento tra la parte araba e quella cinese per permettere a Pechino di svolgere il suo ruolo di mediatore di pace. Soprattutto, è importante rendersi conto che la Cina non ambisce a prendere il ruolo dell’Occidente nella regione». Certe ferite, infatti, non si sono ancora del tutto rimarginate: il mondo arabo «oggi è cauto nello stringere cooperazioni con le potenze estere e non vuole ripetere gli errori del passato, quando permise all’Occidente di intromettersi profondamente nei suoi affari geopolitici e securitari. Gli eventi della Primavera Araba e le ultime vicissitudini legate alla stabilità regionale hanno dimostrato che l’approccio delle grandi potenze alle crisi mediorientali ha provocato un prolungato vuoto di potere, con effetti collaterali deleteri». Non sarebbe questo, però, il caso della Cina, anch’essa molto cauta nel maneggiare i dossier esteri, in modo da «evitare di venire associata all’imperialismo e all’egemonia occidentale». Letteralmente in visibilio la testata emiratina al-‘Ayn al-Ikhbariyya, che scrive: «la realizzazione dell’accordo nazionale porterà speranza e futuro ai palestinesi e rappresenta un passo importante nella risoluzione della Questione e nel raggiungimento della pace e della stabilità».

 

L’emittente saudita Al Arabiya ha discusso l’argomento nella sua rubrica televisiva “ora di dialogo”. La giornalista Hanan El Masri, che ha lavorato come corrispondente di Al Arabiya da Gaza, si mostra fiduciosa sulla dichiarazione di Pechino: «guardando alle condizioni della Palestina, ogni volta [che ci sono accordi come questi] penso che, certo, possa essere quello buono. Sono ottimista» anche perché la Cina, al pari della Russia, «ha un forte interesse e desiderio nel raggiungere l’intesa». Le relazioni intra-palestinesi, prosegue El Masri, devono essere ripensate dopo gli eventi del 7 Ottobre, in quanto l’unità politica è una precondizione per la cessazione delle ostilità nella Striscia. Opposto il parere di un altro ospite in studio, il giornalista Muhammad Zahid Gul: «forse è vero che si sta tornando indietro» alla situazione precedente al conflitto tra Hamas e Fatah del 2007, anche se «in realtà l’attuale frattura palestinese è più profonda e antica». Senza contare che «le diverse fazioni non sono interessate» a ricomporre l’unità nazionale. Questo disaccordo, però, sta portando «a poco a poco alla loro dissoluzione».

 

Toni moderati e votati alla cautela da parte delle testate di proprietà qatariota. «Per amore di verità storica e delle esperienze passate – commenta disincantata la testata al-Quds al-‘Arabi – occorre sottolineare che l’“Annuncio di Pechino” non è una cosa del tutto nuova. Le indiscrezioni che trapelano da tre giorni sulle discussioni tra i gruppi hanno messo in evidenza l’aria di tempesta in merito a divergenze tra Fatah e Hamas su certe questioni fondamentali. Non è una novità ricordare che gli incontri precedenti tra le due fazioni, in passato organizzati sotto la supervisione di Egitto, Algeria, Qatar, Turchia e Russia avevano già messo in mostra un’aspra diatriba tra Ramallah e Gaza sulla spartizione del potere», sulla regolamentazione delle armi e sulla revisione degli accordi tra l’OLP e lo Stato ebraico. Perché allora questi tentativi di mediazione falliscono ripetutamente? La risposta per il giornale è ovvia: «le “grandi linee” che tracciano i percorsi dell’azione nazionale palestinese sono vaghe». In questa definizione rientra anche l’Annuncio di Pechino, un «passo certamente positivo, ma comunque piccolo», se inquadrato nel «lungo cammino verso la difficile nascita dell’unità nazionale palestinese». Molto simile il punto di vista del quotidiano al-‘Arabi al-Jadid: tutto sommato, organizzare un evento come quello di Pechino non è poi così difficile: «non richiede molta precisione nella definizione dell’appuntamento; basta andare a un incontro al Cairo, ad Algeri o in qualunque altro posto con le due presenze simboliche cinese e araba». Ma questa concordia viene a cadere miseramente di fronte alla disunione dei palestinesi, incapaci di formare un governo di coalizione che sappia appianare le divergenze esistenti e cercare un compromesso politico. Ancora più esplicito il quotidiano libanese al-Akhbar, molto vicino a Hezbollah e all’Asse della Resistenza: «è ancora troppo presto per mostrare ottimismo su questo accordo. Non solo perché il “diavolo sta nei dettagli”, ma anche perché manca una rete araba di sicurezza che garantisca la buona riuscita della dichiarazione. Dei numerosi governi arabi che nel 2002 a Beirut posero come condizione per la normalizzazione [con Israele] il riconoscimento dello Stato palestinese, pochi l’hanno rispettata, concludendo degli accordi che non la contenevano, anzi sembra che non siano intenzionati a tornare sui loro passi o a rivedere le loro posizioni in merito».

 

L’Oman nel mirino dell’ISIS [a cura di Chiara Pellegrino]

 

L’attentato avvenuto la scorsa settimana in Oman contro una moschea sciita a Muscat ha destato molta sorpresa e preoccupazione sulla stampa araba. L’attacco, rivendicato dall’ISIS, ha causato nove morti e una trentina di feriti. Considerato «un’oasi sicura» fino a pochi giorni fa, l’Oman ha saputo «limitare l’estremismo e la violenza a livello culturale e sociale, e costruire un approccio che unisce gli ibaditi, i sunniti e gli sciiti in un ambiente non confessionale», a differenza della maggior parte dei Paesi arabi caratterizzati da un forte pluralismo etnico e confessionale, scrive l’ex ministro della Cultura giordano Muhammad Abu Rumman su al-‘Arabi al-Jadid. L’Oman non conosceva episodi di terrorismo dalla rivolta del Dhofar (la guerra civile combattuta tra il 1962 e il 1976 tra le milizie indipendentiste della provincia del Dhofar e il sultanato dell’Oman) e soprattutto, fino a una settimana fa, non sono mai comparsi nomi di omaniti tra i jihadisti. La priorità ora, prosegue l’editorialista, è capire se l’episodio sia isolato o se invece si sia creato un contesto di radicalizzazione favorito dalla guerra a Gaza o dal posizionamento strategico-diplomatico del Sultanato rispetto alle questioni regionali, in particolare le buone relazioni con l’Iran. La tesi dell’ex ministro è che il conflitto israelo-palestinese alimenti i movimenti jihadisti. Questi ultimi «lavorano per sfruttare i sentimenti di rabbia di un’ampia fetta di giovani arabi e musulmani non solo nei confronti della posizione occidentale e americana, generalmente complice dell’aggressore, ma anche nei confronti della posizione ufficiale araba che, ai loro occhi, ha dato prova di tradimento, cospirazione, debolezza e complicità».

 

Il tema della sicurezza viene sollevato anche dal politologo sudanese Abd al-Mohimmat, che dagli Emirati, dove vive, teme la presenza in Oman di cellule dormienti che potrebbero destabilizzare ulteriormente la regione meridionale del Golfo. Nella sua analisi dei fatti l’attentato potrebbe essere collegato alla politica estera attuata dal governo omanita dopo la morte di Sultan Qaboos nel 2020. Se prima il sultanato era noto per la sua neutralità, con l’ascesa di Sultan Haytham Muscat ha mostrato una «netta inclinazione verso l’Iran e i suoi alleati, sollevando critiche a livello locale e regionale». Anche la questione confessionale, tuttavia, potrebbe aver giocato un ruolo importante nell’attentato, spiega Mohimmat. A fine giugno si erano infatti verificati alcuni scontri tra la componente sunnita, concentrata perlopiù nel governatorato del Dhofar, nel sud del Paese, e le forze dell’ordine, dopo che il governo aveva fissato la Festa del Sacrificio (celebrata ogni anno nel mese del Pellegrinaggio in ricordo del sacrificio di Abramo) in una data diversa rispetto all’Arabia Saudita. La decisione dei sunniti omaniti di seguire il calendario saudita anziché le indicazioni del loro governo ha innescato la reazione delle autorità omanite, che hanno risposto con una campagna di arresti. I fermi hanno coinvolto diverse personalità di primo piano della tribù al-Mashaani al-Hakli, da cui discendeva la madre di Sultan Qaboos e per questo storica sostenitrice di quest’ultimo. Con l’ascesa di Sultan Haytham, questa tribù si è sentita emarginata, perciò l’ondata di arresti ha finito per assumere una dimensione anche politica, spiega l’editorialista e «può essere letta come una sorta di confronto simbolico tra una tribù e il governo». Inoltre, spiega Mohimmat, i sunniti del Dhofar «si sentono emarginati e indeboliti dal punto di vista confessionale, e pensano che l’emissione di fatwe e le questioni dottrinali siano spesso regolate in accordo con la confessione ibadita».

 

«La sorpresa più grande è che gli autori dell’attacco fossero cittadini omaniti appartenenti alla stessa famiglia», commenta il giornalista iracheno Muthanna ‘Abdallah su al-Quds al-‘Arabi. E concorda con Mohimmat sulla connotazione geopolitica dell’attentato, risultato «delle numerose mediazioni condotte da Muscat tra i Paesi arabi e l’Iran». «Creare uno scompiglio confessionale all’interno della società omanita porterà le autorità omanite a ripiegarsi sull’interno, una strategia sovversiva messa in atto dallo Stato Islamico per rovinare il lavoro diplomatico e politico svolto dal Sultanato» prosegue l’editoriale. Secondo Muthanna, questo attentato, insieme ad altri compiuti negli ultimi anni in zone periferiche rispetto al comando centrale dell’Isis, in Afghanistan, in Russia, in Iran e nel Sahel, lascia pensare a una rinascita del movimento jihadista e una rinnovata capacità di attrarre nuove reclute, anche in Paesi fino a oggi immuni dal terrorismo.  

 

Su al-Sharq al-Awsat il giornalista saudita Mishari al-Dhaydi mette in guardia i lettori dal rischio di lasciarsi sedurre dall’ISIS, che si presenta come «il braccio vendicatore contro l’egemonia sciita, a differenza di Hamas e al-Qaeda, che gravitano nell’orbita iraniana». La tattica adottata dallo Stato Islamico per reclutare, continua l’editorialista, «può costituire un elemento di tentazione per alcune persone semplici che soffrono per l’oppressione delle milizie legate all’Iran in Iraq, Siria, Libano e Yemen. […] Alcuni potrebbero entrare in relazione con il demone dell’ISIS per combattere un altro demone confessionale».

 

Diversi anche i commenti comparsi sulla stampa omanita. Sul quotidiano ‘Oman, Badr al-‘Abri, ricercatore in Scienze islamiche presso il Ministero degli Affari religiosi del Sultanato, ha spiegato l’illiceità dell’attentato dell’ISIS citando una serie di versetti coranici e detti del Profeta, alla stregua di ciò che erano soliti fare ulema e autorità religiose all’indomani degli attentati compiuti dallo Stato Islamico nel mondo islamico e in Occidente tra il 2014 e il 2017. Il giornalista omanita Jassim Bani Araba riflette invece sulla natura della società omanita. Secondo l’editorialista nel tempo si è creato un divario tra un Oman immaginato, come recita lo stesso titolo dell’articolo – «tollerante, pacifico, innocente, silenzioso» – e la realtà dei fatti, ovvero una società che ha pregi e difetti come tutte le società del mondo. Sebbene la descrizione dell’Oman immaginato sia generalmente vera, essa non può essere applicata indistintamente a tutti gli omaniti, diversi per «credenze, idee e visioni religiose e politiche». L’idea che esista un’omanità unica e codificata, «fatta con lo stampo», è «un’illusione priva di fondamento razionale», scrive Bani Araba, e aver idealizzato per molti anni questa società ha finito per danneggiarla. 

 

Tra i due litiganti (Israele e gli houthi), il terzo gode (l’Iran) [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Rimanendo ancora in tema di (non) sicurezza nella regione meridionale del Golfo, sono stati numerosi i commenti arabi sull’attacco condotto da Israele sabato scorso nella città portuale yemenita di Hodeida, controllata dagli houthi, in risposta ai droni lanciati su Tel Aviv. La «Lunga Mano» di Israele, come Tel Aviv ha definito l’operazione, «ha colpito lo Yemen, ma non le milizie», scrive Youssef al-Dayni su al-Sharq al-Awsat, e «potrebbe aver contribuito a generare delle reazioni che rafforzano il loro progetto di controllare i corridoi commerciali e compiere altre follie, i cui effetti potrebbero  manifestarsi presto sulla popolazione yemenita – dalle lunghe code alle stazioni di servizio, alla chiusura della maggior parte delle stazioni di rifornimento, a una crisi soffocante di carburante e bombole del gas, all’esodo della popolazione in aree fuori da Hodeida per paura di essere nuovamente presi di mira». Accanirsi sullo Yemen, commenta ancora l’editorialista, potrebbe radicalizzare ulteriormente il Paese, con un «aumento della presenza di al-Qaeda e dell’ISIS e l’emergere di nuove organizzazioni armate in un Paese frammentato, che possiede all’incirca 60 milioni di armi ed è privo delle caratteristiche minime di uno Stato».  

 

Secondo al-Quds al-‘Arabi, l’attacco di Netanyahu a Hodeida «costituisce un’espansione del raggio d’azione israeliano nella regione». L’azione in questione potrebbe essere un’operazione isolata, in risposta agli attacchi lanciati contro Israele dagli houthi nei mesi scorsi, oppure l’inizio di una nuova escalation nella regione. L’evoluzione del fronte dipenderà dalla capacità di fuoco degli houthi e dalla loro volontà o meno di effettuare altri attacchi ai danni di Israele. Dall’editoriale traspare inoltre una certa soddisfazione per l’operato delle milizie yemenite, «la cui strategia adottata per bloccare i rifornimenti israeliani verso il porto di Eilat ha avuto un grande successo», e per le reazioni dei Paesi del Golfo, dell’Arabia Saudita, del Kuwait e dell’Oman in particolare, «a dimostrazione di come ogni azione israeliana volta a provocare il terrorismo produca una contro-reazione, che ne mitiga gli effetti».

 

Su Asasmedia l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid si domanda se gli houthi stiano cambiando il panorama bellico. No, «non cambieranno il corso della guerra», ma hanno sicuramente contribuito al successo iraniano, l’unico vero vincitore del conflitto israelo-palestinese, commenta l’editorialista. «L’Iran ha acquisito un maggiore controllo del dossier palestinese, non solo grazie a Hezbollah, ma anche a Hamas e ad alcune milizie. Si è scoperto che Hezbollah, con la “virilità” mostrata negli scontri e la capacità di sopportare pazientemente le perdite, non è l’unico capace di danneggiare gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e gli interessi marittimi di altre nazioni, perché ci sono anche gli houthi». Questi ultimi con le loro azioni hanno contribuito a far crescere il peso di Teheran nei negoziati tra Israele e Gaza, ciò che nutre le speranze iraniane di riaprire i negoziati per il nucleare.

 

Anche il ricercatore marocchino Chadi Berrak su al-‘Arab si domanda se «la guerra per procura in Yemen accenderà il fuoco di un conflitto regionale globale». Probabilmente no, l’attacco a Hodeida è l’esito di «una decisione strategica dietro la quale si nascondevano molteplici messaggi di deterrenza lanciati da Israele a Teheran». Tel Aviv non vuole inasprire le tensioni, lo dimostra il fatto che ha colpito «obbiettivi civili di valore strategico», anziché leader politici e militari houthi, a differenza della strategia adottata in Libano con Hezbollah. Il porto di Hodeida, spiega l’editorialista, è strategico perché attraverso di esso «transitano il 70% degli aiuti umanitari destinati allo Yemen e le materie prime di contrabbando utilizzate per sviluppare e produrre armi strategiche di deterrenza degli houthi, oltre al fatto che le entrate finanziarie del porto contribuiscono in modo significativo a sostenere il bilancio di guerra del governo delle milizie di Ansar Allah». Colpirlo significa dunque infliggere un danno economico agli houthi, senza però alzare troppo la posta in gioco. Secondo Berrak, un’escalation militare nello stretto di Bab al-Mandab è poco probabile perché questo stretto «costituisce la spina dorsale della navigazione internazionale» e perciò, né l’Occidente né gli arabi, l’Egitto in primis, sono disposti a «trasformare il Mar Rosso in un teatro di scontro tra Iran e Israele».

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