A cent’anni dalla fondazione della Repubblica turca, l’eredità del “padre della patria” è stata messa in discussione, ma non può essere del tutto cancellata
Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 11:38:42
Il 29 ottobre la Turchia ha celebrato il centenario della fondazione della repubblica ad opera di Mustafa Kemal, meglio conosciuto come Atatürk, “il padre della patria”. Questo anniversario è il tema del libro A Companion to Modern Turkey's Centennial. Political, Sociological, Economic and Institutional Transformations since 1923, appena pubblicato dalla Edinburgh University Press. Abbiamo chiesto ad Ahmet Erdi Öztürk, professore associato di Politica e Relazioni internazionali alla London Metropolitan University e curatore del volume insieme ad Alpaslan Özerdem, di aiutarci a leggere questa ricorrenza.
Intervista a cura di Mauro Primavera
Il centenario dovrebbe celebrare il fondatore della repubblica, Mustafa Kemal Atatürk, ma a guidare le celebrazioni sarà colui che negli ultimi due decenni ha cercato di archiviare il kemalismo. È possibile un confronto tra Mustafa Kemal con Recep Tayyip Erdoğan?
È difficile rispondere a questa domanda. Prima di tutto, come scienziato sociale, uno dei miei compiti è valutare ed esaminare ogni periodo, attore e situazione politica in base alle condizioni storiche, perché ogni epoca è unica e ha le proprie caratteristiche e criticità. Quanto al paragone tra Mustafa Kemal Atatürk e Erdoğan, ci si dovrebbe limitare a confrontare alcuni aspetti quantitativi, ad esempio per quanti anni Mustafa Kemal Atatürk e Recep Tayyip Erdoğan hanno rivestito la carica di Presidente della Repubblica. D’altra parte, la condizione storica dei due leader è molto diversa, così come i loro desideri e le loro visioni politiche. Tuttavia, per quanto riguarda le strategie, le metodologie e la strumentalizzazione di alcuni aspetti della società turca e dello Stato, direi che esistono alcuni elementi simili, non del tutto sovrapponibili, ma quantomeno paragonabili.
La prima è che entrambi hanno un forte desiderio di potere. Sono molto ambiziosi e hanno una precisa visione per il loro Paese e per le loro carriere: sarebbe ingeneroso dire che Mustafa Kemal abbia pianificato una carriera politica in anticipo, ma alla fine ne ebbe una. La seconda è che entrambi hanno voluto lasciare un segno sul loro tempo. Mustafa Kemal è il leader indiscusso e il vincitore della guerra d’indipendenza, e questo rende impossibile qualsiasi paragone. Va poi considerato il contesto storico: Mustafa Kemal visse durante il crollo dell’Impero ottomano, la Guerra d’indipendenza turca e l’instaurazione della Turchia contemporanea senza l’aiuto di alcuna istituzione, senza alcuna organizzazione transnazionale e senza una classe media sufficientemente istruita. Nel 1923 Atatürk proclamò la Repubblica: pochi anni dopo, nel 1929, la Grande Depressione colpì il mondo intero e negli anni Trenta ci fu l’ascesa dell’estrema destra nell’Europa continentale. Date le circostanze estremamente complicate, ha fatto un miracolo.
Il periodo di Erdoğan è molto diverso da quello di Mustafa Kemal. Gli anni tra il 2002 e il 2007, cioè all’inizio dell’avventura politica del rais, sono stati caratterizzati da un boom economico a livello mondiale. Nonostante gli attentati dell’11 settembre e un contesto critico circa la relazione tra religione e politica, Erdoğan ha avuto l’occasione per dimostrare come l’Islam potesse essere compatibile con i valori delle democrazie contemporanee e persino con quelli del capitalismo neoliberista. Atatürk, che non ha avuto questa possibilità, era un leader incontestabile ed era a capo di un sistema monopartitico. In ogni caso ha dominato le elezioni e ha dovuto confrontarsi con l’opposizione, anche se questa appare tutt’altro che solida. Occorre inoltre considerare le dinamiche partitiche e il ruolo della comunità internazionale, che rendono l’analisi più complessa. Non rifiuto a priori di paragonare questi due leader, ma se ci sarà il secondo centenario della Turchia, studiosi, accademici e personaggi pubblici discuteranno molto più a fondo il periodo di Erdoğan, come noi oggi facciamo per quello di Atatürk, anche se, ripeto, non è scientificamente accurato mettere sullo stesso piano queste due figure.
Facciamo un esempio. Dopo l’Impero ottomano, che aveva tratti semi-teologici e semi-secolari, Mustafa Kemal Atatürk fondò un nuovo Paese, un nuovo sistema. Se lasciamo da parte alcuni elementi di continuità con l’epoca ottomana, chiunque sappia un minimo di Turchia direbbe sicuramente che una delle caratteristiche principali della nuova repubblica è la sua struttura secolare. In turco abbiamo la parola laik, che però non corrisponde al termine francese laïcité, e nemmeno al secularism anglosassone. Una volta proclamata la Repubblica, infatti, le élite repubblicane fondarono nel 1924 un’istituzione chiamata Diyanet, il Direttorato degli Affari Religiosi. Sulla carta, la creazione del Diyanet mostra una netta separazione tra religione e Stato: quest’ultimo disponeva di uno strumento con cui controllare e gestire gli affari religiosi nell’interesse dello Stato. E visto che ciò avvenne per volere di Atatürk, oggi noi tendiamo a considerare quest’ultimo un laico. Adesso viviamo nell’epoca di Erdoğan: quello che sappiamo è che il presidente è un “islamista”, “conservatore”, “attore politico musulmano”. Impiego tutti questi termini anche se sono altamente discutibili. Per Erdoğan non sono infatti scolpiti nella pietra. La strumentalizzazione metodologica del Diyanet da parte di Erdoğan è in realtà speculare a quanto aveva fatto a suo tempo Mustafa Kemal. In un certo senso, avevano più o meno lo stesso percorso. Non so se l’analogia sia corretta, ma direi che hanno uno stile di gioco simile, ma giocano in campionati diversi.
La società turca fa questo paragone?
Ho in mente un paio di sondaggi su questo. Non sono ancora stati pubblicati, e perciò non posso fare il nome delle prestigiose società demoscopiche che li hanno realizzati, ma conosco alcuni risultati eloquenti. In vista del centenario della Turchia, agli intervistati è stata posta in particolare la seguente domanda: “chi è l’attore politico più influente nella storia contemporanea della Turchia?”. Più dell’80-85% ha risposto “Mustafa Kemal Atatürk”, solo il 10-15% ha detto “Recep Tayyip Erdoğan”. Dal punto di vista sociale, Erdoğan è il principale decisore: è uno dei più grandi, forse il più grande riferimento per comprendere l’attuale sistema politico turco da molti punti di vista. Tuttavia, Mustafa Kemal rimane il fondatore; è qualcosa di diverso. Alle pareti di ogni ufficio statale si vedono due foto, con le stesse dimensioni: quella di Atatürk e quella di Erdoğan. Erdoğan, tuttavia, è il 12° presidente della repubblica, ma ci saranno il 13°, il 14°, il 15° presidente e così via. Va da sé che solo uno è il primo presidente. In ogni caso Erdoğan è un attore politico estremamente influente e deciso, non solo per l’oggi. Continueremo a parlare di Erdoğan anche in futuro, probabilmente utilizzando il termine “erdoğanismo”, in maniera simile al kemalismo o all’ozalismo.
Questo anniversario presenta un paradosso: per Erdoğan infatti è un appuntamento chiave per lanciare il suo progetto di una nuova Turchia, ma questo è caratterizzato da un’evidente nostalgia imperiale. Il reis coltiva una sorta di revisionismo rispetto alle frontiere attuali dello Stato turco? Che valore ha per il lui il Trattato di Losanna, che rappresentò il riscatto turco dopo le amputazioni territoriali stabilite dal Trattato di Sèvres? È un momento fondativo o una realtà da superare?
È vero che il trattato di Sèvres ha provocato all’interno della società turca un trauma che è ancora radicato nel sistema educativo nazionale. Conosco bene il processo di indottrinamento che per anni ha instillato tale fobia nelle mente dei turchi. Quando eravamo al liceo ci veniva detto che «La Turchia è un Paese circondato per tre lati dal mare e per quattro dai nemici». Se il sistema educativo non è cambiato, è difficile che un turco consideri la Grecia o l’Armenia come semplici Paesi confinanti. Naturalmente sarebbe molto logico stabilire con loro rapporti amichevoli e creare una collaborazione vantaggiosa per tutti, in linea con le norme del diritto internazionale. Tuttavia, quando i turchi stabiliscono rapporti con i loro vicini, continuano a guardarsi alle spalle. Non ha molto senso, ma è quello che accade.
Per certi gruppi politici, come i kemalisti, i socialdemocratici e la maggior parte della sinistra turca, Losanna è stato un trionfo. Quel trattato fu una dichiarazione molto importante, un vero e proprio successo diplomatico e strategico, se si considerano gli equilibri di potere internazionali venutisi a formare alla fine della prima guerra mondiale. Non penso che il governo di Erdoğan o l’attuale ministro degli Esteri, Hakan Fidan, agiscano secondo la mentalità di Sèvres o secondo quella di Losanna. I tempi sono completamente cambiati.
Tuttavia, anche se non viviamo più in un’era coloniale o postcoloniale, assistiamo ancora a varie forme di neocolonialismo. Prendiamo come esempio il Regno Unito, il Paese in cui attualmente risiedo, che è un impero costituzionale. Mi viene da dire che è un impero in declino, ma, essendo così vasto, la sua dissoluzione è stata particolarmente lunga. Proviamo a mettere queste cose in relazione con quanto sta accadendo in Medio Oriente: non ci sono scuse per difendere ciò che Israele sta compiendo ora, così come è impossibile per chiunque difendere Hamas. È una tragedia umana che potrebbe avere impatti a livello transnazionale. In qualità di ex potenza coloniale, il primo ministro del Regno Unito, Rishi Sunak, ha viaggiato nella regione nel tentativo di promuovere un negoziato. Similmente, la Francia di Macron rimane molto influente in diverse aree del Nord Africa che un tempo appartenevano all’impero francese. Alla luce di ciò, Erdoğan e la sua squadra di governo interpretano la competizione globale in chiave neocoloniale, ma non si definiscono in termini neo-imperiali, perché l’Impero ottomano non era una potenza coloniale come lo furono Regno Unito e Francia.
Piuttosto, sottolineano il fatto che tra la Turchia e gli ex territori ottomani ci sono molti punti in comune dal punto di vista linguistico, culturale, storico e religioso. Da un punto di vista geopolitico, la Turchia si trova in una posizione strategica, che le permette di proiettarsi facilmente in Nord Africa e in Medio Oriente. Esiterei a usare il concetto di “varco”, ma la Turchia ha un ruolo cruciale per tutta una serie di questioni. È anche un punto di collegamento con i russi, soprattutto dopo la brutale invasione dell’Ucraina da parte di Putin, grazie al Mar Nero. Considerati gli attuali eventi in Medio Oriente e data la sua posizione geografica, il Paese è diventato un attore significativo nella regione. Erdoğan ha utilizzato questa mentalità “coloniale” o “neocoloniale”, ma ritiene che la Turchia sia capace di creare un’influenza che si estenda oltre i suoi confini utilizzando una serie di apparati statuali. Se usato in modo positivo, uno dei successi del gruppo di Erdoğan sarà quello di essere riuscito a utilizzare alcune delle istituzioni repubblicane, sia nuove che vecchie, in maniera transnazionale.
Quali saranno le prossime mosse politiche di Erdoğan?
L’anno prossimo ci saranno le elezioni locali. Erdoğan vuole fortemente riprendere le principali città del Paese, in particolare Istanbul: è una città che ha un valore speciale per lui, è la sua base, lui stesso è un prodotto di Istanbul. Averla persa alle elezioni del 2019 contro Ekrem İmamoğlu è stato un trauma. Senza dimenticare che, secondo la costituzione, questo è il suo ultimo mandato da presidente, anche se, da quello che posso capire stando all’estero, la sua intenzione è restare al potere il più a lungo possibile. Stando così le cose, deve modificare la Costituzione, o attraverso il parlamento o con un referendum. E, nonostante la fragilità economica della Turchia, nonostante le numerose difficoltà, Erdoğan è ancora popolare. Emendare la Costituzione non è impossibile, ma bisogna tenere conto di alcuni fattori. Quale sarà, ad esempio, la posizione dei curdi? Ci sarà un cambio di leadership all’interno del principale partito di opposizione, il Partito Popolare Repubblicano? Come reagirà l’opinione pubblica? Dopo le ultime elezioni c’è stata una significativa depoliticizzazione della società: quali conseguenze questo avrà sul futuro del Paese? Sappiamo che Erdoğan è intenzionato a restare al potere, dall’altra gli studiosi che conoscono bene la politica turca stanno iniziando a chiedersi che cosa accadrà nel dopo Erdoğan. Ci sono alcuni candidati: Ekrem İmamoğlu, l’attuale sindaco di Istanbul, e Hakan Fidan, l’attuale ministro degli Esteri, sono i più importanti. Quest’ultimo conosce molto bene le istituzioni e sa muoversi negli ambienti internazionali. Un altro nome è Selçuk Bayraktar, il genero di Erdoğan, figura chiave della “dronizzazione” della politica estera turca. Infine, un altro attore rilevante potrebbe essere Özgür Özel, candidato alla presidenza del Partito Popolare Repubblicano.
Dopo Erdoğan si aprirà una nuova era per la Turchia, ma la domanda è: inizierà all’ombra di Erdoğan o senza la sua influenza? Come scienziato sociale, credo che il primo scenario sia più probabile. Il presidente governa il Paese da due decenni e, ancor prima, il suo gruppo era influente in città come Istanbul e Ankara. Inoltre, durante il suo mandato, abbiamo assistito a una trasformazione sociale sotto vari aspetti.
Per rimanere su questo punto, quanto è cambiata la società turca nell’era di Erdoğan?
In cento anni la Turchia è cambiata molto. In alcune aree il Paese mostra dinamiche sociali simili a quelle dell’Occidente. Nonostante tutto, in Turchia si trovano movimenti femministi importanti: per dire, a Istanbul è possibile assistere a parate LGBTQ. All’interno della società turca esiste inoltre una polarizzazione in termini di religiosità e stile di vita. I movimenti femministi turchi sono tra i più importanti al mondo e questo non solo perché sono composti da persone capaci, ma anche perché i movimenti sono essi stessi un prodotto della Repubblica. Questi sono gli aspetti positivi; c’è anche un lato triste e drammatico della vita politica del Paese: i politici turchi non hanno idea di cosa sia il ritiro dalla scena pubblica.
Dicevamo che sotto la presidenza di Erdoğan il Paese è cambiato molto. Un importante sociologo, Şerif Mardin, aveva una teoria: “l’insegnante laico diventerà una figura molto più influente dell’Imam. Tuttavia, dopo cent’anni, possiamo affermare invece che in Turchia l’Imam è una figura molto più forte di quella dell’insegnante”. Anche questo è segno di una profonda trasformazione.
L’opposizione, in particolare quella più legata all’eredità kemalista, in che condizioni arriva al centenario?
L’opposizione ha parecchi punti deboli, che sono emersi nell’ultima tornata elettorale. Innanzitutto, ha puntato senza dubbio su un candidato sbagliato che, proprio come Erdoğan, cercherà di rimanere leader il più a lungo possibile. Il prossimo 4 novembre si terrà il congresso generale dei partiti di opposizione, al quale parteciperanno il presidente del Partito Popolare Repubblicano Kemal Kılıçdaroğlu, il suo avversario Özgür Özel e il gruppo guidato da Ekrem İmamoğlu. Stanno semplicemente calcolando il numero di voti che potrebbero ottenere al Congresso principale. So che ci saranno delle manifestazioni a Istanbul, ma in questo momento l’attenzione principale dei partiti di opposizione è focalizzata sullo svolgimento del Congresso e su questioni interne. È davvero un peccato che il partito politico che ha fondato della Repubblica, il Partito Popolare Repubblicano, non si stia occupando del periodo fondativo della Turchia e non stia analizzando cosa ha fatto in questi cento anni né cosa farà nei prossimi cento. In questo momento, i loro membri si stanno combattendo tra loro. È davvero molto triste.
Anche se è presto per sbilanciarsi, all’orizzonte non si vede una forte coalizione anti-Erdoğan. Forse esiste una coalizione informale, ma soltanto a livello locale. I leader dell’opposizione hanno ideologie diverse, background molto diversi tra loro e interessi contrastanti. A parte Ekrem Imamoglu e Özgür Özel, le altre figure politiche sono vecchie, non solo da un punto di vista anagrafico, ma anche da quello strettamente politico. Kemal Kılıçdaroğlu ha perso tredici elezioni, una cosa inaccettabile per la mentalità occidentale. L’unica vittoria dell’opposizione è arrivata alle elezioni locali del 2019, quando ha ottenuto un notevole successo. Però poi ha perso le elezioni generali nonostante le dure condizioni economiche e nonostante l’insofferenza verso vent’anni di Erdoğanismo.
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