Storia del terrorismo islamico in Europa
Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 12:22:02
Recensione di Petter Nesser, Islamist Terrorism in Europe. A History, Hurst Publishers, London 2015
Vigilia di Natale 1994: il volo Air France 8969 viene dirottato dal GIA, Gruppo Islamico Armato algerino. Nel corso dell’operazione tre passeggeri perdono la vita, mentre i quattro dirottatori sono uccisi a Marsiglia dalla Gendarmerie nationale che fa irruzione sull’aereo. Fu quello il giorno in cui l’Europa conobbe per la prima volta sul proprio suolo il terrorismo di matrice islamista, che nei vent’anni seguenti non l’avrebbe più abbandonata.
Su questo arco di tempo si concentra Petter Nesser, del Centro di ricerca della difesa norvegese, e autore delle oltre trecento pagine che ripercorrono la storia del terrorismo islamico in Europa. Analizzando ogni singolo attacco terroristico di matrice islamista avvenuto nel continente, Nesser indaga come si sono evolute le reti jihadiste in Europa dagli anni ’90 a oggi, i target e il modus operandi degli attentatori, cercando di trovare una sintesi tra la teoria del “leader-led jihad” di Bruce Hoffman e quella del “leader-less jihad” di Marc Sageman.
Secondo la prima, gli attacchi sarebbero sempre architettati da un leader (al-Qaida negli anni 2000); per la seconda il jihad è opera dei singoli che, di loro iniziativa, intercettano altri potenziali jihadisti e creano una rete. Questi ultimi si convertirebbero al jihadismo creando movimenti autonomi non tanto per motivazioni ideologiche, quanto per ragioni psico-sociologiche (mancata integrazione nella società, frustrazione, ricerca di un’identità forte, ribellione ai genitori…). Secondo Nesser, se considerate singolarmente, le due teorie sono riduttive e impediscono di comprendere fino in fondo il fenomeno. Per esempio la teoria di Hoffman è utile per spiegare gli attentati di dimensioni maggiori e coordinati da un leader (come la strage nella metropolitana di Londra nel 2015), ma non riesce a rendere contro degli attentati più piccoli, come quello al regista olandese Theo van Gogh, ucciso nel 2004 ad Amsterdam per le immagini del suo film Submission. Combinando i due approcci, e concentrandosi con grande rigore analitico sulle traiettorie individuali, Nesser individua quattro diversi tipi di terrorista jihadista: l’“imprenditore”, il “protetto”, il “vagabondo” e il “disadattato”. Allo stesso tempo però presta anche molta attenzione all’intreccio di eventi locali, regionali e internazionali che fanno da retroterra agli attentati.
Se la Francia è stata la prima vittima del terrorismo islamista, spiega Nesser, la Gran Bretagna è il Paese in cui negli anni 90 è nata la prima comunità jihadista, formando quello che sarebbe diventato noto come Londonistan. In generale l’Europa, con le libertà previste dai suoi regimi democratici, era il luogo ideale per creare una sotto-cultura nelle moschee radicalizzate, raccogliere finanziamenti e reclutare nuovi membri sfruttando anche il potenziale dei social media. Così da un lato essa era percepita come una presenza minacciosa per le sue politiche estere, ma dall’altro fungeva da rifugio per i suoi cittadini naturalizzati, concedendo loro ampio margine di manovra. Fino alla metà degli anni 2000, fu il secondo aspetto a prevalere, garantendo all’Europa un “patto di sicurezza”. Poi l’impegno dei Paesi europei in Afghanistan e Iraq, la vicenda delle vignette satiriche e le operazioni israeliane a Gaza, secondo l’autore, cambiarono la situazione, cancellando il “patto”. L’ascesa dello Stato Islamico ha fatto il resto, trasformando l’Europa in un bersaglio privilegiato dei jihadisti e creando un clima di insicurezza che il ritorno dei foreign fighters dalla Siria contribuirà probabilmente a peggiorare.
Da quando il jihadismo è tornato a colpire nel nostro Continente, non sono mancate le pubblicazioni sul tema. Pochi libri però possono vantare il rigore, la profondità e l’equilibrio del lavoro di Nesser, uno strumento imprescindibile per chi si occupa di terrorismo islamista.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.