I Paesi di questa vasta regione africana stanno attraversando una fase di crisi e di cambiamento: nuove giunte militari hanno preso il potere, mentre la presenza francese e statunitense è in declino. In questo complesso scenario, i movimenti islamisti della regione hanno modificato obiettivi politici e modus operandi
Ultimo aggiornamento: 04/11/2024 13:00:56
La crisi del Sahel ha radici storiche profonde, ma il collasso del Mali nel 2012 è generalmente considerato l’inizio dell’attuale fase di violenza e instabilità nella regione[1]. Dodici anni dopo quell’evento, il jihadismo saheliano presenta allo stesso tempo segni di cambiamento e di continuità. Sul fronte jihadista rimangono alcuni volti noti, anche se l’insurrezione si è estesa su un territorio molto vaso. Combattenti di lungo corso si sono mescolati con pastori e abitanti dei villaggi che sono stati trascinati nel jihadismo per istinto di sopravvivenza, sete di vendetta e di potere. A livello degli Stati, i governi civili sono caduti per mano di golpe militari; le truppe francesi sono state espulse da gran parte della regione e l’assistenza americana alle operazioni antiterrorismo è stata marginalizzata. Ora sono i funzionari e i mercenari russi ad ingraziarsi le nuove giunte. Eppure, al di là dei battibecchi diplomatici tra Bamako e Parigi, o tra Niamey e Washington, ci sono presupposti comuni a tutti questi governi: vi è soprattutto la convinzione (errata) che i problemi possano essere risolti uccidendo. I Paesi del Sahel centrale come Mali, Burkina Faso e Niger sembrano destinati a rimanere sotto un governo militare. Intanto, però, imperversano le insurrezioni jihadiste e la violenza che allo stesso tempo esse provocano e sfruttano, per esempio nei casi di abusi delle forze di sicurezza statali e dei massacri scatenati dai paramilitari.
Chi sono i jihadisti?
Per comprendere la scena jihadista del Sahel si può partire dalla figura di Iyad ag Ghali. Oggi sessantenne, questi è il capo della Jama‘at Nusrat al-Islam wa-l-Muslimin (Gruppo di Sostegno all’Islam e ai Musulmani, JNIM second l’acronimo inglese), la coalizione jihadista più importante della regione. L’organizzazione sorella del JNIM è al-Qaida nel Maghreb Islamico (AQIM), a sua volta affiliata ad al-Qaida centrale. Prima di adottare questo nome e di unirsi ad al-Qaida, AQIM fu l’apripista che tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000 portò il jihadismo nel Sahel, stabilendo legami con le comunità del Mali settentrionale, della Mauritania e del Niger attraverso il reclutamento, i matrimoni, le partnership economiche e probabilmente anche le tangenti ai funzionari locali[2].
Negli anni ’90 ag Ghali, di etnia tuareg, era ancora un leader ribelle, ma successivamente diventò un consulente governativo. Quando AQIM, movimento allora in ascesa, si espanse effettuando rapimenti in tutto il Sahel per ottenere riscatti sempre più cospicui da parte dei governi europei, ag Ghali era un intermediario chiave tra i jihadisti e i governi della regione. Tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, quando nel Nord del Mali si sviluppò una nuova rivolta, ag Ghali si trovò a essere impopolare tra la nuova generazione di ribelli. Decise così di passare, per opportunismo o per convinzione, ad AQIM, entrando definitivamente nei ranghi jihadisti. Il suo movimento, Ansar al-Din (Difensori della Fede), allineato ad AQIM, mise in rotta i ribelli separatisti e prese il controllo del Mali settentrionale.
All’inizio del 2013 un intervento militare francese, noto come “operazione Serval”, disperse i jihadisti. I francesi non se ne andarono e nel 2014 trasformarono Serval in una più indefinita operazione “Barkhane”. Tra il 2013 e il 2022, la “caccia all’uomo” dell’antiterrorismo francese mise a segno l’eliminazione di diversi jihadisti di spicco, tra cui alcuni assistenti di lungo corso di ag Ghali, come l’ex colonnello dell’esercito Malick ag Wanasnat, ucciso nel 2018. Le forze francesi eliminarono anche l’alto comando algerino di AQIM in Mali, incluso il leader dell’organizzazione Abdelmalek Droukdel, ucciso nel 2020. Tra il 2013 e il 2015 ci fu però una sorta di tregua: i francesi davano la caccia ai jihadisti, questi ultimi litigavano tra di loro, e i francesi imposero insieme ai loro partner una serie di azioni di stabilizzazione: un dispiegamento di forze di pace delle Nazioni Unite, un programma di addestramento dell’Unione Europea e, nel 2015, un accordo di pace tra gli ex ribelli del Nord e il governo maliano del Sud. Oggi, di tutte queste iniziative rimane però ben poco.
Mentre i francesi e i loro alleati cercavano di stabilizzare il Mali, i jihadisti bisticciavano tra loro, ma alla fine riuscirono a ricompattarsi. Amadou Kouffa, alleato di ag Ghali, capeggiò nel 2015 un’insurrezione nel Mali centrale dal quale proveniva. La mobilitazione jihadista nelle regioni maliane di Mopti e Ségou si estese in maniera sorprendentemente rapida, risvegliando tensioni latenti intorno alla terra, al potere e all’etnia. Le forze di sicurezza maliane risposero brutalmente, infliggendo punizioni collettive contro i Peul, l’etnia di Kouffa, e permettendo che le milizie etniche iniziassero anche loro a prenderli di mira. Alla fine del 2016, in Burkina Faso, un gruppo jihadista annunciò la propria costituzione con il nome di Ansaroul Islam (i “Difensori dell’Islam”).
Nel 2017, mentre il conflitto infuriava nel centro del Sahel, ag Ghali e AQIM riunirono la maggior parte delle unità jihadiste della regione in quello che diventò JNIM. Tre dei suoi cinque leader fondatori furono eliminati dai francesi, ma ag Ghali e Kouffa la fecero franca e al momento opportuno riuscirono anche a ostentare la propria sopravvivenza: Kouffa apparve in un video girato nel 2019, mesi dopo che i francesi lo avevano dichiarato morto, mentre nel 2020 ag Ghali organizzò una festa nel deserto per i prigionieri jihadisti liberati, avendo cura di diffonderne le immagini come a voler ribadire chi fosse il pezzo grosso del Nord del Mali.
Intanto sono emersi nuovi leader, ma non sembrano tanto diversi dai loro predecessori. In Burkina Faso il capo di Ansaroul Islam, Ibrahim Dicko, è deceduto nel 2017, forse per complicazioni legate al diabete, e gli è succeduto il fratello Jafar. Nel Mali centrale, accanto a Kouffa ci sono altre persone, come Mhamoud Berry, che agiscono da predicatori jihadisti. In Algeria Droukdel è stato sostituito come emiro di AQIM da un altro veterano, Yusuf al-Annabi. Nel 2015 una fazione dissidente di AQIM ha dichiarato fedeltà allo Stato Islamico e si è trasformata in quello che oggi è noto come IS-Sahel. Questo gruppo, guidato da una serie di figure che provengono (o affermano di provenire) dal territorio conteso del Sahara occidentale, è anche più brutale di JNIM.
A partire dal 2012, la struttura del jihadismo nella regione si è progressivamente allontanata dal modello degli attacchi terroristici compiuti da forze di élite per assumere la forma di insurrezioni rurali di massa. I leader sono importanti, ma lo sono anche i soldati semplici, gran parte dei quali sembra essere costituita da giovani pastori e abitanti dei villaggi. Questi vengono trascinati nel progetto jihadista quando la violenza del conflitto raggiunge la soglia delle loro abitazioni o qualche zona limitrofa, scatenando la paura di finire annientati e innescando una serie di effetti domino in cui deflagrano in guerra aperta le tensioni latenti tra contadini, pastori e pescatori, tra strati sociali o tra ex schiavi ed ex padroni, o ancora tra gruppi etnici e di casta[3]. Giornalisti e studiosi parlano spesso dello sfruttamento o della manipolazione di tensioni locali da parte dei jihadisti, ma questo implicherebbe una classe “itinerante” di jihadisti professionisti che beneficia dell’ingenuità dei locali. È invece più corretto affermare che i jihadisti fanno parte della mischia. Non sono burattinai, ma parte integrante della politica e dei conflitti locali.
Si tratta in un certo senso di un fenomeno in linea con altre tendenze del continente: i movimenti più tenaci sono quelli, come al-Shabab in Somalia o lo Stato Islamico dell’Africa Occidentale in Nigeria, che s’insediano in un’area rurale praticando estorsioni e intimidazioni ai danni della popolazione del luogo e sfidando l’autorità dello Stato. Un’altra tendenza è il passaggio dal tentativo dichiarato di instaurare e proclamare “proto-stati” jihadisti, come hanno fatto al-Qaeda e dei suoi alleati nel Nord del Mali tra il 2012 e il 2013[4], a progetti ibridi, non ufficiali e localmente variegati di governi ombra. Ciò è avvenuto soprattutto in Mali e in Burkina Faso, con campagne di intimidazione e ostruzione, patti con le comunità locali, istituzione di tribunali e giudici e altri meccanismi. Anche in questo caso si tratta di fenomeni simili a quelli di altre zone dell’Africa: in Mozambico, per esempio, a partire dal 2020 un gruppo affiliato allo Stato Islamico si è periodicamente impadronito di alcuni territori, ma le forze mozambicane o quelle straniere sono riuscite più volte a ricacciarlo indietro.
Ma se i jihadisti non proclamano più emirati, come nel 2012 in Mali, o nel 2014 in Nigeria, o in molti altri posti del mondo tra il 2012 e il 2015, allora che cosa vogliono? Una possibile risposta è l’espansione territoriale. Contrariamente alle mappe allarmistiche in cui si vede metà del continente africano raffigurato come zona di attività jihadista, il processo di diffusione del jihadismo è sempre stato irregolare. Nel Sahel è iniziato coi signori della guerra algerini che cercavano nuove opportunità militari ed economiche. Il loro primo obiettivo militare non è stato il Mali, ma la Mauritania, che al momento è un Paese relativamente tranquillo. In alcune zone, come il Mali centrale o il Nord del Burkina Faso a metà degli anni 2010, il jihadismo si è rapidamente trasformato in un’insurrezione di massa dopo alcuni attacchi iniziali. In altre aree, come il Mali meridionale o la Costa d’Avorio settentrionale, gli attacchi si sono invece dimostrati molto più sporadici. E altre zone ancora, che giornalisti e analisti indicano come probabili territori di espansione jihadista, come la Nigeria nordoccidentale e il Ghana settentrionale, sono rimaste incredibilmente difficili da controllare per i jihadisti.
Nei territori in cui sono più saldamente impiantati, i jihadisti saheliani hanno avviato una lunga fase di sperimentazione. A volte portano la lotta direttamente contro gli eserciti della regione: nel luglio del 2022, ad esempio, JNIM ha attaccato il principale campo militare dell’esercito maliano a Kati, a meno di 20 chilometri dalla capitale Bamako, e nel novembre 2023 ha preso d’assalto la base di Djibo, nel Burkina Faso settentrionale. Altre volte, invece, i jihadisti sembrano voler circondare i principali centri amministrativi: a partire dal 2022, IS-Sahel ha preso il controllo di molte città nella regione di Ménaka, in Mali, e sembrava in procinto di occupare anche la città stessa di Ménaka. Ciononostante, i jihadisti hanno evitato di proclamare apertamente il controllo del territorio.
I nemici dei jihadisti
Mentre JNIM e IS-Sahel sono diventati una presenza fissa della regione, il più grande cambiamento nel conflitto negli ultimi anni è rappresentato dai colpi di Stato militari avvenuti in Mali, Burkina Faso e Niger. L’attuale ondata di golpe è iniziata in Mali nel 2020, estendendosi tra il 2022 e il 2023 agli altri due Paesi. In effetti oggi non c’è capo di Stato, da Nouakchott a Khartoum, che non sia un ufficiale militare in attività o in congedo.
Nel Sahel centrale le popolazioni hanno perso fiducia in quei politici di professione che guardavano verso Parigi. Membri della “classe politique”, queste figure erano volti noti sin dagli anni ’90, quindi da ben prima che la maggior parte dei saheliani fosse nata. Durante gli anni ’10 di questo secolo è cresciuta la frustrazione dei cittadini nei confronti di quelli che essi percepivano come leader civili corrotti e incompetenti, soprattutto mentre si diffondeva l’insicurezza. Le elezioni non rappresentavano necessariamente la volontà popolare, specialmente quelle per la conferma dei leader in carica: dei tre presidenti civili rovesciati dai golpe, due erano al loro secondo mandato e il terzo era il successore scelto da quello precedente. Sondaggio dopo sondaggio è emerso che i cittadini si fidano dei soldati, dei leader religiosi e dei capi tribali, mentre vedono con disprezzo i presidenti e i parlamenti[5]. In un clima del genere sono potute cambiare le cause scatenanti – le proteste post-elettorali di massa in Mali, l’indignazione dei soldati per le perdite in Burkina Faso, il tentativo di liquidare il comandante della guardia presidenziale in Niger – ma il risultato è rimasto lo stesso. A sorprendere non sono solo i colpi di Stato, ma anche le reazioni limitate della società civile e dei cittadini comuni: molti di loro, almeno nelle capitali, hanno infatti accolto i golpe con favore.
Mali, Burkina Faso e Niger hanno sperimentato governi militari in passato, e anche lunghi periodi di dittatura militare durante la Guerra Fredda. Tutti e tre i Paesi sono stati teatro di colpi di Stato nel periodo post-Covid. Ma i golpe verificatisi tra gli anni ’90 e gli anni ’10 di questo secolo sono durati relativamente poco e seguivano uno di questi tre modelli. Nel primo gli ufficiali diventano rapidamente impopolari, come il nigerino Ibrahim Baré Maïnassara, ucciso dai suoi stessi soldati poco più di tre anni dopo aver preso il potere nel 1996, o il maliano Amadou Sanogo, costretto a lasciare il potere poche settimane dopo aver guidato un golpe nel 2012. Nel secondo i golpisti instaurano un governo che considerano temporaneo, come il Consiglio Supremo per il Ripristino della Democrazia in Niger, che ha trasferito il potere a un civile eletto solo 14 mesi dopo il golpe del 2010. Nel terzo, i golpisti abbandonano immediatamente la divisa militare per indossare abiti civili e candidarsi alle elezioni, come nel caso del mauritano Mohamed Ould Abdel Aziz. Al contrario, le attuali giunte sembrano determinate a rimanere al potere per molto tempo. È significativo che la giunta maliana sia in carica da più tempo rispetto a qualsiasi altro leader militare che abbia preso il potere tra il 1991 e il 2020, e si stia attualmente preparando a estendere la “transizione” fino al 2027. Il leader militare che guida un colpo di Stato e poi rifiuta di farsi da parte, o anche solo di lasciare l’uniforme, è qualcosa che nel Sahel non si vedeva dagli anni ’80.
Tutte le giunte sono arrivate al potere promettendo di combattere i jihadisti in maniera ancora più dura, ma l’insicurezza è peggiorata sotto il loro governo. Esse non hanno iniziato la guerra: misurata anno su anno, dopo il loro arrivo la violenza è tipicamente aumentata. Anche prima del colpo di Stato in Mali dell’agosto del 2020, il primo dell’ondata recente, il Burkina Faso contava un milione di sfollati interni. Le giunte hanno però esacerbato la violenza principalmente in quattro modi. In primo luogo, esse hanno ridotto i margini di negoziato che sembravano esistere con i jihadisti, soprattutto tra il 2017 e il 2020 in Mali, tra il 2020 e il 2022 in Burkina Faso e tra il 2016 e il 2023 in Niger[6]. In quel periodo le trattative stavano producendo soltanto accordi circoscritti (cessate il fuoco localizzati, scambi di prigionieri, eccetera), ma JNIM aveva manifestato la sua disponibilità, almeno teorica, a prendere in considerazione un accordo più ampio, e anche IS-Sahel si era dimostrato in qualche modo pragmatico. Ma con la loro repressione brutale e la loro retorica infiammata, le giunte hanno precluso quelle pochissime opportunità che sembravano esserci.
In secondo luogo, la brutalità delle giunte non ha solo allontanato la pace, ma ha alimentato direttamente il conflitto. Le uccisioni collettive e le violazioni dei diritti umani perpetrate dai governi militari sono state orribili. L’esempio peggiore è il massacro compiuto nel marzo 2020 dalle forze armate maliane e dai loro alleati del Gruppo Wagner nella città di Moura, nel Mali centrale, ma ci sono stati molti altri incidenti. Oltretutto, queste uccisioni collettive spaventano e allontanano gli stessi i civili di cui le giunte avrebbero bisogno per ricostruire una autentica coesione nazionale.
In terzo luogo, le giunte – in particolare quelle del Mali e del Burkina Faso – hanno autorizzato forze paramilitari violente. In Mali è il caso della Wagner, il gruppo di mercenari legati al Cremlino ribattezzato “Africa Corps” dopo la drammatica morte del leader Evgenij Prigožin nell’agosto 2023. Wagner/Africa Corps sono stati complici delle peggiori nefandezze commesse dalle forze armate maliane. In Burkina Faso ci sono i Volontari per la Difesa della Patria, una milizia antijihadista che ha perpetrato numerosi abusi e a sua volta è diventata un bersaglio per i jihadisti. Secondo l’accusa dei giornalisti, il presidente del Burkina Faso Ibrahim Traoré ha anche usato i Volontari come un mezzo per sbarazzarsi dei critici che lo infastidivano, arruolandoli nel gruppo con la forza e mettendoli in pericolo[7].
In quarto luogo, le giunte militari si sono dimostrate incoerenti. Nell’ottobre del 2020, quella maliana appena insediatasi stava concludendo uno scambio di prigionieri con JNIM proprio mentre era impegnata in una prova di forza con questo gruppo nella città di Farabougou. Le giunte pretendono di essere salite al potere per proteggere le loro nazioni dai jihadisti, ma spesso sembrano più interessate ad altri nemici, come i giornalisti, i leader dei sindacati, i politici civili e gli attivisti per i diritti umani che arrestano nelle loro capitali. Alla fine del 2023, la giunta maliana ha compiuto una grande avanzata nel Nord del Paese, non per sfidare JNIM, ma per vendicarsi di un gruppo di ex ribelli che, anche in reazione alla campagna militare, ha di nuovo scelto la rivolta. In effetti JNIM sembra desideroso di sfruttare la situazione a proprio vantaggio e di riconquistarsi i suoi vecchi ex alleati.
Si potrebbe aggiungere una quinta causa alla crescita della violenza: la fine dell’antiterrorismo francese. Le giunte di Bamako, Ouagadougou e Niamey hanno tutte espulso le truppe francesi in nome della sovranità nazionale, e Niamey si è anche opposta agli sforzi americani di dettare i termini del partenariato di sicurezza.
La fine di questi partenariati porta a nuove violenze? Forse. Ma la violenza c’era anche prima dei colpi di Stato, senza contare che la missione francese portava sin dall’inizio i germi del suo esito deprimente. L’antiterrorismo francese è stato manifestamente associato a una strategia politica e a un approccio multiforme alle sfide politiche ed economiche della regione. Tuttavia, sul piano politico il dispiegamento francese dipendeva fortemente dalla cooperazione con leader civili la cui legittimità era dubbia. Nel frattempo, come notato in precedenza, la violenza aumentava e si faceva più complessa: accanto ai jihadisti, agli eserciti nazionali e ai militari stranieri, sono sorti milizie comunitarie, gruppi paramilitari, di banditi e altro ancora. I civili hanno cominciato a mettere sempre più in discussione quello che i francesi stavano facendo in territorio saheliano. I colpi di Stato non hanno fatto deragliare dei progressi politici o securitari: hanno risposto a una crisi e l’hanno poi esacerbata.
Per un’ironia della sorte, il linguaggio delle giunte a volte rispecchia quello utilizzato dai francesi che esse hanno cacciato. Ad aprile, le forze armate maliane si sono vantate di aver «neutralizzato un importante leader terrorista di nazionalità straniera nel corso di un’operazione su larga scala» nel Mali orientale[8]. Espressioni come “neutralizzazione” o “eliminazione” di “leader terroristici” di primo piano ricorrevano ripetutamente nelle dichiarazioni dell’Operazione Barkhane, anche quando la situazione nel Sahel si stava costantemente degradando. Che alla presidenza ci sia un civile o un colonnello, che si tratti di forze saheliane o di forze straniere, quasi tutti i decisori politici sembrano credere che i problemi si risolvano innanzitutto con la violenza. Dietro a tante storie di audaci raid contro i jihadisti, spesso c’è molto più di quanto la versione ufficiale lasci intendere, come sembra essere il caso del raid di aprile.
Soluzioni?
È difficile formulare potenziali soluzioni per la crisi del Sahel senza scadere in banalità. Il vocabolario dei rapporti dei think tank o delle infinite conferenze politiche europee sul Sahel è stantio. “Buona governance”, “riforma del settore della sicurezza”, “rafforzamento della società civile”, “contrasto all’estremismo violento”: l’immobilità della terminologia riflette la staticità delle idee sottostanti. Gli attori esterni che aspirano a intervenire nell’area vogliono ancora convincere i leader, intraprendere progetti di ingegneria sociale e pretendere (anche dopo i disastri americani in Afghanistan e in Iraq) che la contro-insurrezione consiste nell’applicazione diretta di dottrine da manuale. Nel Sahel, chi è al governo ha ereditato situazioni incredibilmente cattive, ma le sta affrontando senza particolare acume: i governanti militari assomigliano a quelli civili e come loro si preoccupano più di prendere il potere nelle capitali che delle morti di massa nell’entroterra.
Alla fine, le barbe grige a capo delle forze jihadiste usciranno di scena in un modo o nell’altro. E sotto la pressione interna e internazionale ci saranno delle elezioni – forse solo simboliche, come è avvenuto in Ciad a maggio – che ripristineranno una parvenza di ordine costituzionale nel Sahel centrale. La vera incognita è che cosa accadrà a tutti i giovani combattenti e se qualcuno potrà offrire loro un’alternativa politica a una guerra senza fine.
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