Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:42:25
Meraviglia, orgoglio, fiducia nell’avvenire, ma anche Schadenfreude e persino un velo di malinconia e di nostalgia. Sono questi i sentimenti che prevalgono negli articoli che la stampa araba ha dedicato al trionfo dell’Arabia Saudita, la cui candidatura per ospitare l’Esposizione Internazionale (Expo) del 2030 è risultata vincente.
Grande l’entusiasmo – non poteva essere altrimenti – sui giornali sauditi, che però non perdono l’occasione di togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Significativa a tal proposito la prima pagina del giornale ‘Ukaz, che titola a caratteri cubitali «Vision 2030 si completa con Expo: la vittoria ha confermato il ruolo cruciale di Riyad nel cogliere le opportunità internazionali». La cronaca degli eventi parte proprio dalle reazioni del comitato italiano sconfitto: «la vittoria del progetto saudita di Expo 2030 è stata una scoperta sconcertante per il presidente della delegazione italiana», Giampiero Massolo, secondo il quale i criteri di assegnazione della manifestazione «non si basano più sulle caratteristiche del progetto, bensì sulle transazioni economiche». A questa affermazione il giornale risponde a pagina due con un velenoso occhiello in rosso scarlatto: «quanto sono infelici le parole del delegato italiano dopo il fallimento della candidatura di Roma!». Le insinuazioni italiane sono state accostate, in maniera malevola, al comportamento dell’altro comitato battuto, quello sudcoreano, che invece «si è affrettato a congratularsi con il Regno». Il quotidiano al-Riyad mette da parte le polemiche e si limita alla celebrazione in pompa magna della vittoria: «sotto l’insegna di Vision 2030, il Regno realizza tutto ciò che desidera e a cui aspira, grazie a una leadership saggia e consapevole che si è assunta l’impegno di sviluppare e far fiorire il Paese in tempi record», fatto che costituisce un esempio per tutti i Paesi arabi e islamici. A tal proposito, sulla testata libanese Nida’ al-Watan il giornalista Beshara Sherbel fa i complimenti a Riyad, ma non può fare a meno di lamentare l’impietosa disparità socioeconomica tra il Regno dei Saud e la Repubblica dei Cedri. Ne nasce una riflessione malinconica e a tratti nostalgica: «anche se siamo felici per la vittoria di Riyad, ciò non ci impedisce di essere invidiosi […] siamo avidi di paragoni, e ricordiamo come tra gli anni Sessanta e i primi anni Settanta era il Libano a essere, con le sue banche, le sue università e i suoi ospedali, la “mecca” dell’Oriente, prima che sprofondasse in una guerra interna e settaria». Proprio perché la vittoria dei sauditi è ben meritata – «non era facile competere con “mamma Roma”, attraverso cui passano tutte le strade, o con il progresso tecnologico “a razzo” coreano – Sherbel si augura che Expo possa far aprire gli occhi ai libanesi, facendoli riflettere sul fatto che un pezzo di mondo arabo ha intrapreso la via del progresso tecnologico «che lo proietta in universi lontani», mentre «noi subiamo il fardello delle asce e delle guerre».
Silenzio quasi assoluto della stampa emiratina che, fatta eccezione per un articolo di cronaca di al-‘Arab, non riporta l’assegnazione dell’Expo ai sauditi e si concentra, in una sorta di gioco di contrapposizioni, sulla Cop-28 che si svolge in questi giorni a Dubai. Come sottolinea al-‘Ayn al-Ikhbariyya, gli Emirati hanno adottato da tempo una serie di misure volte a ridurre gli effetti del cambiamento climatico, a promuovere la tutela dell’ambiente e ad accelerare la transizione energetica: «nonostante il Paese sia uno dei più grandi esportatori di petrolio, i cui interessi sono in teoria legati alla conservazione delle risorse petrolifere, esso si attiene ai più alti principi per la preservazione del futuro». Un impegno, come recita il titolo, che «antepone i fatti alle parole»: «prima che il mondo cominciasse a discutere seriamente del clima tra il 2011 e il 2015» gli Emirati avevano già lanciato il più grande progetto di rinnovabili, ossia la fondazione nel 2006 di Masdar, avveniristica città alimentata da energia solare ed eolica. Il quotidiano filo-emiratino al-‘Arab si sofferma invece sulla struttura che ospita l’evento, Expo City Dubai, descritta come un «centro mondiale per la creatività e l’innovazione» nonché un ottimo modello di sostenibilità. Opposta la visione dell’emittente qatariota Al Jazeera, che in un articolo dal titolo (tanto sarcastico quanto scontato) “Assad è in un pessimo clima”, contesta la presenza alla Cop-28 del presidente siriano, alleato degli Emirati, per almeno tre motivi: i crimini commessi durante la guerra civile, il mandato di cattura emesso nei suoi confronti dal tribunale di Parigi, i disastri ambientali, frutto di scellerate politiche idriche e agricole attuate durante le presidenze di Assad padre e figlio.
La dimensione religiosa della guerra (e della tregua) tra Israele e Hamas
Il conflitto e la precaria tregua tra Israele e Hamas hanno generato un ampio dibattito all’interno della stampa araba sul rapporto tra religione e guerra. Sotto accusa sono finiti soprattutto gli “ebrei estremisti”. La scrittrice libanese Najwa Barakat ammette su Al-‘Arabi al-Jadid che «noi arabi non sappiamo molto dei loro usi e costumi». Una cosa però è certa: «Israele è stato fondato sul concetto religioso della Torah secondo il quale gli ebrei sono il “popolo eletto”», premessa ideologica della campagna di occupazione ed espropriazione della Palestina. Lo stesso concetto viene replicato con toni ancora più forti dal quotidiano libanese al-Nahar, che mette in relazione l’occupazione dell’esercito israeliano della Palestina con alcuni elementi propri della religione ebraica. L’invasione, infatti, «deriva dal desiderio di questo dio – con la minuscola – che ha promesso al suo popolo eletto la terra promessa. Hamas ha intrapreso invece un jihad per il bene di Dio – con la maiuscola – al fine di liberare la Palestina». Ma il «fondamentalismo ebraico» non è l’unica manifestazione di estremismo, ve ne sono altri tre: uno sunnita, uno sciita, e persino un «cristianesimo evangelico». Il presunto connubio tra ebrei sionisti e cristiani è presente anche in un articolo di al-Sharq al-Awsat che traccia un identikit dei “nuovi sionisti”: la maggior parte di questi non sono ebrei, ma appunto «fondamentalisti protestanti, evangelici ed estremisti» che, pur in contrasto con le posizioni di cattolici e ortodossi, stanno diventando sempre più influenti e potenti nei Paesi anglosassoni e germanici, e addirittura avrebbero stretto un «matrimonio di convenienza» con l’estrema destra israeliana. Per Ghassan Salame, ex ministro della cultura libanese ed ex inviato dell’ONU in Libia, intervistato da al-Akhbar, occorre tuttavia fare un distinguo tra l’opinione pubblica americana e quella europea: nel Vecchio Continente la posizione antipalestinese sta prendendo sempre più piede a causa della congiuntura tra l’immigrazione musulmana e le accuse di anti-semitismo.
Su Al Jazeera, l’ulema Issam Talima spiega il significato religioso della tregua e che cosa comporta questa per l’Asse della Resistenza. La risposta è semplice e diretta: che sia breve o lunga – spiega l’autore – la tregua rappresenta di per sé già un successo. A conferma di ciò viene citato il versetto 1 della sura 48, detta appunto “sura della Vittoria”: «t’abbiam concesso davvero segnalata Vittoria». Sono le parole rivelate a Muhammad subito dopo che quest’ultimo aveva stipulato, nel 628 d.C., il patto di Hudaybiyya, ossia una tregua (temporanea) con la tribù meccana dei Quaraysh, ancora di fede politeista; accordo che, nei fatti, segnò l’affermazione definitiva dell’Islam e l’autorità del profeta. Il parallelismo con l’attualità è chiaro: per Hamas la tregua comporta «indizi di vittoria imminente», simboleggiata dal rilascio dei prigionieri e dalla riorganizzazione militare del movimento, anche se Talima ammette che è ancora presto per parlare di «vittoria totale o finale».
Al-‘Arab mette in risalto le visioni contrastanti di due organizzazioni islamiche. Da una parte c’è l’indonesiana Nahdlatul Ulama, che «ha invocato una soluzione giusta per il conflitto dando priorità all’afflato religioso (che comprende i valori dell’amore, della misericordia, della fratellanza umana e della giustizia)»; essa ammonisce i musulmani a non utilizzare la religione come arma per la propagazione dell’odio e della violenza. Dall’altra vi è invece la Moschea-Università egiziana di al-Azhar, che ha «sostenuto l’azione della Resistenza palestinese» emanando una fatwa a favore di Hamas, sposando la logica che dipinge l’intera popolazione israeliana come corresponsabile dei crimini perpetrati contro i palestinesi. Per il giornale, questa «confusione di vedute mette in evidenza il bisogno di riformare il diritto islamico in conformità con il diritto internazionale, privando i miliziani della possibilità di determinare la legittimità della sharī‘a». In tal senso, aggiunge il giornale, «Hamas ha avuto successo nello sfumare le linee che dividevano i musulmani moderati da quelli estremisti».
Epitaffi arabi su Kissinger
Come prevedibile, la stampa araba ha scritto molto sulla controversa figura del politico e diplomatico Henry Kissinger, Segretario di Stato degli Stati Uniti tra il 1969 e il 1977, scomparso all’età di cent’anni il 30 novembre. Dove finirà la sua eredità? Per al-Quds al-‘Arabi non ci sono dubbi: nella «discarica della Storia». La critica prosegue ancora più virulenta in un altro articolo in cui viene definito «architetto dei genocidi e protettore di Israele»: egli, oltre ad aver sostenuto «la guerra a oltranza in Vietnam» e «ad aver dato il suo placet ai genocidi» nel sud-est asiatico, ha attuato politiche che in seguito «hanno spianato la strada ai massacri americani in Afghanistan e Iraq durante il periodo della “lotta al terrorismo”». In Medio Oriente, aggiunge la testata libanese filo-Hezbollah al-Akhbar, si alleò con il colonialismo sionista e «armò Israele come mai nessuno aveva fatto prima di allora». Per al-Mayadeen, altro giornale arabo vicino alle posizioni iraniane, il fatto che Kissinger sia morto proprio durante la guerra tra Hamas e Israele sembra un’ironia della sorte: questa guerra, per via della particolare alleanza che lega i membri dell’Asse della Resistenza, non può essere risolta secondo l’obsoleto modus operandi cha ha segnato le fortune del diplomatico americano. Ugualmente critico, seppur molto più equilibrato nei toni, il quotidiano filo-saudita al-Sharq al-Awsat: «la sua visione per risolvere il conflitto israelo-palestinese non è mai stata equilibrata o giusta, anzi ha fatto affidamento su soluzioni parziali piuttosto che su quelle complete. Era sua convinzione il fatto che la pace sarebbe arrivata quando gli arabi, rimasti senza alternative, si sarebbero abituati all’esistenza di Israele». Al-‘Arab dedica un’intera pagina alla sua figura. Il riquadro in fondo ripercorre le tappe salienti della sua carriera, inclusi i punti più opachi e controversi, mentre l’articolo principale giudica, in maniera tutto sommato positiva, la sua mediazione tra Israele ed Egitto a seguito della Guerra dello Yom Kippur nel 1973: «lui e altri funzionari americani erano preoccupati che lo scontro potesse coinvolgere gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Alla fine, gli esiti della guerra sono stati complessivamente positivi […] non ci fu alcun accordo di pace duraturo, ma Kissinger riuscì a mantenere la regione stabile».