Il libro Understanding Libya since Gheddafi di Ulf Laessing offre alcune chiavi di lettura per capire l’intreccio di offensive, milizie, istituzioni e tribù che ha caratterizzato la Libia post-2011
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:12
Recensione di “Understanding Libya since Gaddafi” di Ulf Laessing
Capire la Libia pare sia un compito arduo anche per chi si occupa di Medio Oriente. Dopo il 2011, a seguito della rivoluzione che ha messo fine al regime di Gheddafi, il Paese è sprofondato in un ciclo di violenza senza fine: sempre più attori esterni hanno preso parte al conflitto, mentre i diversi tentativi negoziali messi in atto da ONU e Paesi europei non hanno ottenuto risultati. Le ambasciate sono state chiuse, i traffici illeciti, siano essi di petrolio, droga o esseri umani, sono prosperati e alcuni sono arrivati a credere che l’unica soluzione per porre fine al conflitto fosse smembrare il Paese.
A cercare di mettere ordine tra gli elementi che compongono il caos libico arriva in aiuto il libro Understanding Libya since Gheddafi di Ulf Laessing, capo dell’ufficio della Reuters a Tripoli fino al 2014 e poi trasferitosi al Cairo. Il volume è prezioso perché scritto da uno dei pochissimi giornalisti che hanno avuto la possibilità di restare nel Paese finché la situazione l’ha permesso. Quasi una raccolta di reportage, il libro colma anche una lacuna, visto che finora i testi sulla Libia post-Gheddafi non sono molti. Forse è proprio perché la situazione è così complicata che pochi si cimentano nell’impresa di descriverla.
Laessing non segue un ordine cronologico, solo il prologo e l’epilogo offrono una prospettiva storica, mentre gli altri capitoli del libro sono suddivisi per argomento – le milizie, le divisioni politiche, il ruolo del petrolio e quello dello Stato islamico. Una scelta che da una parte aiuta il lettore ad afferrare alcune dinamiche del conflitto, dall’altra rischia di confondere, perché nel tentativo di districarsi tra i nomi delle molteplici milizie, tribù, offensive e sigle dei vari governi ad interim che si sono succeduti, si rischia di perdere il filo. Ma probabilmente questo rispecchia proprio la sensazione che vive chi si trova o si è trovato in Libia negli ultimi anni.
A ciò si aggiunge la difficoltà di dare un senso alle categorie che normalmente si utilizzano per parlare del Paese: «La Libia è un paese diviso: famiglie, tribù, regioni e città, con il loro intreccio o la loro sovrapposizione di rivalità più o meno religiose e, politiche, confliggono su come impostare la trasformazione post-rivoluzionaria» (p. 110).
L’autore offre un’analisi molto dettagliata e, riportando le parole di persone comuni, combattenti e ministri, fa emergere quanto sia difficile utilizzare le classiche chiavi di lettura, quelle che vedono la Tripolitania contro la Cirenaica o quelle che attribuiscono particolare importanza alle divisioni tribali. Non che queste non vadano considerata, al contrario; tuttavia Laessing ci ricorda che questa categorizzazione, per quanto necessaria, sarà sempre parziale perché si sovrappone a tutte le altre faglie, per esempio quelle tra città o tra orientamenti politici differenti perfino all’interno delle stesse famiglie.
Inoltre, non bisogna dimenticare che spesso, più dell’elemento identitario, è stato il controllo delle risorse, in particolare quelle petrolifere, a dar vita ai conflitti. Laessing riporta l’esempio di Ibrahim Jathran, il «comandante disertore», prima ribelle e poi a capo di alcune milizie, che nel 2011 venne incaricato dal governo di Tripoli di salvaguardare i porti petroliferi. Ne prenderà poi il controllo nel 2013, bloccando l’esportazione dei 600.000 barili al giorno e causando perdite per tre miliardi di dollari per ogni mese di blocco. L’allora governo di Tripoli non poteva niente contro di lui e i suoi uomini, dal momento che non disponeva, e tuttora non dispone, di un esercito statale. Così Ali Zeidan (uno dei tanti uomini politici a cui si è tentato di dare il potere per mettere fine al caos negli ultimi anni) tentò di comprare il comandante, scusa che a Jathran venne buona per dimostrare la corruzione del governo. Alla fine il comandante ribelle cedette alle pressioni degli attori internazionali, trovò un accordo con Tripoli e tornò a proteggere gli stessi porti che aveva assediato. Quando Laessing dedica un capitolo a questa figura scrive: «Certamente ci sono centinaia di altri comandanti di milizie come lui in Libia, ma lo porto come esempio perché ho avuto a che fare regolarmente con lui e i suoi combattenti» (p. 53). Una traiettoria simile sarà infatti quella del generale Khalifa Haftar, che fino all’autunno 2015 collaborò con Jathran, prima di espandere le proprie forze e aumentare il proprio peso politico a tal punto da non aver più bisogno di un alleato contro un nemico comune. Quello libico è un contesto di alleanze mutevoli e dove con il tempo anche i legami tradizionali verso la tribù e i membri più anziani si sono diluiti.
Altro elemento centrale per capire come si sia giunti al caos attuale è la forza d’inerzia che muove la macchina statale. Sotto il regime di Gheddafi l’attività imprenditoriale e privata non era in alcun modo incentivata. Al contrario, gran parte della popolazione era impiegata nel settore pubblico e sussidiata dal governo. «Quando nel 2011 apparvero i primi segnali di instabilità, Gheddafi decise subito degli aumenti salariali in un inutile tentativo di scoraggiare i dipendenti statali dall‘unirsi alle proteste. Ciò ha reso i governanti libici troppo timorosi di fare marcia indietro sugli aumenti salariali, con una crescente spesa pubblica che ha reso impossibile l'utilizzo di fondi statali per rinnovare le infrastrutture fatiscenti del Paese e costruire scuole, strade e ospedali» (p. 136). Nel 2018 circa il 75% del budget statale veniva ancora speso in sussidi e stipendi di dipendenti pubblici. Il problema è che i principali beneficiari di questo sistema sono soprattutto gli uomini che appartengono alle milizie, inseriti nel libro paga dello Stato dai loro comandanti.
Come se tutto ciò non bastasse, ad un certo punto scenderanno in campo anche lo Stato islamico (che entrerà presto in conflitto con altri gruppi di islamisti militanti presenti nelle città di Sirte e di Derna) e le missioni internazionali finanziate dall’Unione europea per tentare di porre fine al traffico di esseri umani e arrestare il flusso di migranti verso le coste europee. Un fallimento totale per varie ragioni, ben descritte da Laessing; in primis, però, il problema resta la «mancanza di una struttura di comando centralizzata» (p. 167), o in altre parole, di un efficiente apparato statale. È allora inevitabile che si crei l’ennesimo cortocircuito, per cui chi viene finanziato dall’UE per cercare di fermare i migranti è allo stesso tempo trafficante e “guardia libica” che dovrebbe contrastare proprio l’azione dei trafficanti.
È difficile immaginare la piega che prenderà il futuro della Libia. Finita la lettura del libro si ha la sensazione di essere su una giostra che non smette mai di girare: si tengono negoziati internazionali, che prontamente falliscono o non raggiungono i risultati sperati; poi una milizia emerge sulle altre, sia perché designata o perché un uomo forte riesce a coagulare il potere e alcuni attori internazionali intorno a sé; con il procedere del conflitto però il comandante di turno non riesce a mantenere il potere per carenze strutturali – l’incapacità di creare uno Stato e le troppe divisioni interne – e così si ritorna al punto di partenza. Ora la giostra si è momentaneamente fermata, ma la situazione è tutt’altro che stabilizzata.
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