Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 14:38:23

Questa settimana apriamo il focus attualità ancora con la crisi israelo-palestinese. A seguire cerchiamo di spiegare cosa cè dietro alla foto che ritrae un neonato tratto in salvo dal mare davanti a Ceuta. Per finire torniamo in Etiopia: nel Tigray il conflitto attrae poca attenzione mediatica, ma la situazione è gravissima. 

 

Dopo 11 giorni di scontri e lanci reciproci di missili e razzi è stato raggiunto un accordo per il cessate-il-fuoco a Gaza. Nel paragrafo che segue ricostruiamo i passaggi che hanno portato alla tregua, la cui durata sarà tutta da stabilire.

 

Un editoriale del board del Financial Times torna sull’origine dell’escalation, dovuta al «completo fallimento nel raggiungere un accordo di pace giusto e duraturo». Gli Stati Uniti sono stati riluttanti a coinvolgersi nel conflitto in corso e secondo il quotidiano inglese questo è in parte comprensibile alla luce del fatto che nei decenni scorsi la questione israelo-palestinese ha assorbito moltissime energie senza portare a risultati tangibili. Al tempo stesso però, stante la volontà del presidente Joe Biden di riaffermare la leadership globale americana è sempre più difficile «ignorare l’attuale crisi e il più ampio conflitto israelo-palestinese». Inoltre, scrive il Financial Times, «un’amministrazione americana che ha fatto del rispetto dei diritti umani un punto centrale della sua politica estera dovrebbe chiarire che questi principi si applicano anche a Israele».

 

Durante la settimana il lancio di missili e razzi è proseguito e si sono verificati attacchi a Israele anche dal Libano, dove tuttavia Hezbollah non ha rivendicato alcuna azione. A Gaza l’aviazione israeliana ha bombardato anche il palazzo dove avevano sede gli uffici di al-Jazeera e Associated Press. Biden ha chiesto a Netanyahu le prove del fatto che Hamas utilizzasse quella costruzione per alcune delle sue attività, ma non le ha ottenute. Nonostante al Consiglio di Sicurezza dell’Onu Washington abbia bloccato le risoluzioni che chiedevano una de-escalation, nel corso della settimana la pressione americana per il raggiungimento di una tregua è aumentata e si sono svolte numerose telefonate tra Biden e Netanyahu.

 

Come si è posta l’Unione Europea nei confronti della crisi? Su convocazione dell’Alto rappresentante Joseph Borrell i ministri degli Esteri dei Paesi membri si sono riuniti per la prima volta martedì, ma come ha affermato Kristina Kausch al Financial Times, i paesi europei «giocheranno probabilmente il ruolo che hanno giocato nelle precedenti crisi di questo conflitto: nelle retrovie nel momento in cui i razzi vengono sparati, “cassieri” (paymasters) quando la ricostruzione comincerà».

 

Intanto anche la situazione interna a Israele ha destato preoccupazione per gli scontri tra arabi israeliani ed ebrei. Come riporta il New York Times nel periodo trascorso dall’inizio della nuova escalation sono stati creati più di 100 gruppi WhatsApp con nomi come “The Jewish Guard”, il cui scopo esplicito è l’organizzazione di azioni violente contro arabo-israeliani e palestinesi.

 

Mercoledì si è svolta una nuova telefonata tra Biden e Netanyahu, durante la quale il presidente americano ha detto che si sarebbe aspettato per quel giorno una significativa de-escalation. Netanyahu non sembrava però volerci sentire perché in quello stesso giorno ha prima affermato di non escludere un’operazione di terra, e poi ha ribadito la sua determinazione a proseguire le operazioni (Associated Press). Come sintetizzano bene due articoli di Haaretz, ci sono numerosi motivi per cui Netanyahu non ha subito ceduto alle richieste di Biden, a sua volta spinto da una parte del Partito Democratico. Amos Harel ha spiegato la resistenza del premier israeliano partendo da alcuni fatti, che elenchiamo brevemente: primo, l’operazione contro Hamas non ha portato a decisivi successi militari israeliani; secondo, Netanyahu non può permettersi di apparire come colui che ha ceduto alle pressioni americane perché verrebbe contestato dalle forze politiche alla sua destra. Inoltre, se avesse deciso di terminare le operazioni prima di aver fornito a Israele la completa sicurezza – che lui stesso ha promesso – avrebbe dato al rivale Yair Lapid un’ulteriore chance di formare un governo di coalizione senza di lui. Dmitry Shumsky è ancora più diretto nel suo articolo: la striscia di Gaza saldamente nelle mani di Hamas è precisamente quello che serve a Netanyahu per rendere impossibile ciò che molti hanno auspicato per decenni: la soluzione due popoli-due stati.

 

Nella notte tra giovedì e venerdì il cessate-il-fuoco è stato infine raggiunto, anche grazie alla mediazione egiziana. Come scrive Reuters, il gabinetto di sicurezza israeliano ha votato unanimemente a favore dell’iniziativa, mentre Hamas e l’Egitto comunicavano che la tregua sarebbe iniziata alle 2 di notte. Il presidente americano Biden ha affermato che Washington lavorerà con le Nazioni Unite per la ricostruzione e gli aiuti umanitari a Gaza, coordinandosi con l’Autorità Palestinese (che però non controlla Gaza…) per evitare che gli aiuti «permettano ad Hamas di ricostruire il proprio arsenale militare». Washington, scrive sempre Reuters, si è anche impegnata a rifornire Israele dei missili intercettori utilizzati dai sistemi di difesa per neutralizzare i razzi provenienti dalla Striscia. Come da copione, sia Hamas che Israele hanno salutato il cessate-il-fuoco descrivendo le operazioni militari come una vittoria.

 

Tregua raggiunta, ma come ha scritto l’Associated Press, nessuna delle cause profonde del conflitto è stata risolta. Non solo: come documenta Khalil Shikaki, le conseguenze di quanto avvenuto si faranno sentire a lungo. Hamas, infatti, emerge dal conflitto più forte, al contrario dell’Autorità Palestinese e del suo presidente, ulteriormente indeboliti. Inoltre, la violenza intercomunitaria tra cittadini israeliani potrà attenuarsi col tempo, ma la percezione da parte degli arabi di una «discriminazione sistemica» continuerà a crescere. Il conflitto delle ultime settimane segnala inoltre la sempre maggiore importanza del ruolo simbolico di Gerusalemme, «che approfondisce la dimensione religiosa del conflitto». Tutto questo porta al rafforzamento della percezione comune a israeliani e palestinesi che la loro relazione è un gioco a somma zero, «che la via diplomatica alla risoluzione del conflitto è futile e che la violenza è inevitabile».

 

Se l’Egitto può rivendicare il successo della sua mediazione, altri stati arabi, in particolare quelli che hanno firmato gli accordi di Abramo, hanno vissuto settimane di grande imbarazzo. Gli Emirati sono in una posizione molto difficile – ha detto Cinzia Bianco: da un lato la convergenza tra Abu Dhabi e Israele è strategica, perciò i rapporti tra i due Paesi dovrebbero resistere agli shock. Al tempo stesso però, al momento della firma gli Emirati avevano sostenuto che gli Accordi di Abramo avrebbero dato loro una leva per aiutare i palestinesi e tenere a freno l’aggressione israeliana nei loro confronti. Se veramente gli Emirati avevano questo potere, si può quantomeno affermare che non l’hanno utilizzato.

 

La tregua israelo-palestinese sulla stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

 

Il conflitto israelo-palestinese continua a monopolizzare le prime pagine di una parte consistente della stampa araba, anche in queste ore in cui è stato dichiarato il cessate il fuoco. I quotidiani più militanti hanno descritto la tregua come una grande vittoria palestinese. Riprendendo le parole del portavoce di Hamas Husam Badran, al-Quds al-‘Arabī ha titolato “La Palestina ha vinto, e sono mujahidin ad averlo reso possibile”, mentre Arabī21 ha titolato “Rabbia in Israele…critiche al governo e all’esercito dopo la tregua” e ha parlato di «miracolo palestinese». La stampa egiziana filo-governativa celebra invece il ruolo di mediazione giocato dall’Egitto nelle trattative per raggiungere la tregua. Nello specifico, al-Ahrām ha parlato di «una nuova vittoria della volontà egiziana, araba e islamica» e annunciato un programma di aiuti governativi a favore di Gaza. Il governo destinerà 500 milioni di dollari alla ricostruzione di Gaza, invierà 65 tonnellate di medicinali e dispositivi medici e aprirà il valico di Rafah per ricevere e curare i feriti. Questa decisione ha suscitato non poche polemiche interne soprattutto tra quanti ritengono che il governo dovrebbe occuparsi dei problemi del Paese, in particolare della questione idrica (che tanto preoccupa l’Egitto da diversi mesi), anziché della ricostruzione di Gaza. I sostenitori dell’iniziativa governativa hanno risposto sul quotidiano indipendente al-Masry al-Youm che l’Egitto ha una vocazione regionale a cui non può sottrarsi. Inoltre, svolgere il ruolo di mediatore nei conflitti della regione consentirebbe al Paese di acquisire un peso specifico maggiore, spendibile anche nelle trattative con l’Etiopia per il raggiungimento di un accordo sulla tanto discussa questione del riempimento della nuova diga etiope del Rinascimento (GERD).

 

La stampa del Golfo (ad eccezione dei media qatarini) continua pressoché a ignorare il conflitto e anche nelle ore dell’annuncio della tregua si è limitata a riportarne la notizia. Questo silenzio non sorprende e proprio questa settimana è stato denunciato da al-Jazeera. In un lungo articolo, Mu‘taz al-Khatīb, professore di Etica all’Università Hamad bin Khalīfa di Doha, riflette sulla strategia del silenzio adottata dai media ma soprattutto dalle autorità religiose degli Emirati. Primo fra tutti ‘Abdallah bin Bayyah, presidente del Consiglio della Fatwa degli Emirati e fondatore del Forum per la promozione della pace nelle società musulmane, che si è limitato a qualche commento di circostanza, coerentemente con la visione politica ufficiale emiratina della questione palestinese. Gli Emirati tacciono, e non potrebbero fare altrimenti. Del resto, afferma l’articolo, Hamas gravita nella galassia dell’Islam politico contro il quale Abu Dhabi sta conducendo la sua battaglia e, firmando gli accordi di Abramo, gli Emirati hanno scelto Israele, voltando le spalle alla Palestina. In questo contesto, bin Bayyah e le altre autorità religiose sono funzionali alla politica emiratina, spiega al-Khatīb. Non è un caso infatti che bin Bayyah sia stato uno dei protagonisti, insieme al principe ereditario di Abu Dhabi Muhammad bin Zayed, del breve video diffuso a metà aprile per promuovere gli accordi di Abramo e il ruolo degli Emirati come promotori di pace.

 

Possiamo dire però che le autorità religiose emiratine costituiscono un’eccezione. In diversi altri Paesi arabi, i religiosi hanno preso una posizione netta a favore della causa palestinese. Il mufti dell’Oman Ahmad bin Hamad al-Khalījī ha diffuso un comunicato attraverso i suoi canali social, successivamente ripreso da diversi quotidiani, a sostegno della resistenza palestinese. Questa ha il merito, ai suoi occhi, di aver «lavato dalla fronte della umma una vergogna che la macchiava da lungo tempo». Il mufti di Libia, shaykh al-Sādiq al-Gharyānī, ha emesso una fatwa secondo la quale sostenere il popolo palestinese è un dovere individuale. Questa peraltro è anche la posizione del mufti d’Egitto, Shawqī ‘Allām, e del Grande Imam dell’Azhar Ahmad al-Tayyib il quale, secondo al-Jazeera, domenica scorsa ha anche avuto una conversazione telefonica con il capo di Hamas, Ismā‘īl Haniyeh, che lo ha ringraziato per il sostegno pubblico offerto alla questione palestinese.

 

Cosa è successo a Ceuta e perché

 

Questa settimana un’immagine ha catturato l’attenzione di giornali e media: quella di un neonato salvato in mare da un agente della Guardia Civíl spagnola nelle acque davanti all’enclave di Ceuta. Cerchiamo di mostrare il contesto della foto.

 

Lunedì circa 8.000 tra uomini, donne e bambini, marocchini e subsahariani, hanno tentato di raggiungere Ceuta «arrivando sulla spiaggia a piedi, nuotando in mare, a volte aiutandosi con materassini gonfiabili o gommoni, o passando sulle montagne». Questo è stato possibile perché la polizia marocchina, solitamente molto “efficace” nell’impedire ai migranti l’accesso all’enclave spagnola, aveva assunto un atteggiamento totalmente passivo. Un episodio simile, ma che aveva coinvolto “solo” 150 persone circa, si era verificato a fine aprile, ricorda Jeune Afrique.

 

A cosa si deve la scelta marocchina di lasciar passare i migranti? Come ha scritto Reuters, si tratta di una ritorsione in seguito alla notizia che la Spagna ha deciso di ospitare – senza comunicarlo al Marocco – il leader del fronte Polisario Brahim Ghali per offrigli le necessarie cure contro il Covid. Questo ha provocato le ire marocchine, dal momento che il fronte Polisario reclama, attraverso il governo della Repubblica araba democratica Sahrawi, ospitato dall’Algeria, la sovranità sul Sahara occidentale, ritenuto invece da Rabat parte del suo territorio nazionale. Dopo alcuni giorni di scontri e respingimenti (Madrid ha schierato l’esercito sulle spiagge) la maggior parte dei migranti è stata poi respinta nuovamente verso il Marocco, e tutto sembra essere tornato come prima, business as usual.

 

Eppure, quanto avvenuto mette in luce almeno due cose. La prima è che il Marocco intende usare l’affaire-Ghali come un pretesto per aumentare la pressione su Madrid e spingerla ad allinearsi a Washington, che in cambio della normalizzazione delle relazioni tra Marocco e Israele ha riconosciuto la sovranità di Rabat sul Sahara occidentale, «che è sempre il tema più importante della politica estera marocchina», ha sottolineato Irene Fernandez-Molina.

 

La seconda è che con il Marocco «l’Unione Europea ha fatto lo stesso errore che fece con la Turchia cinque anni fa», e cioè ha consegnato a un partner «imprevedibile» un grande potere di ricatto, esternalizzando la gestione dei confini e il blocco dei flussi migratori in cambio della fornitura di assistenza economica. L’Europa, chiosa Politico, «ha ceduto il potere a un re che non ha paura di usarlo». Proprio per questo sembrano piuttosto vuote di significato le parole del vicepresidente della Commissione europea Margaritis Schinas, che ha sostenuto che l’Europa non si lascerà intimidire da nessuno.

 

Un genocidio in Etiopia?

 

Mentre gli occhi dei media sono puntati sulla crisi in Terra Santa, in Etiopia si sta consumando un conflitto non meno drammatico. Due settimane fa il patriarca copto ortodosso del Tigray, Abune Mathias, è apparso in un video registrato dalla ONG americana Bridges of Hope International, per denunciare come un “genocidio” le violenze subite dalla popolazione tigrina (a maggioranza cristiana), accusando il governo di Addis Abeba di voler far scomparire la popolazione tigrina, di distruggere le chiese e di usare lo stupro come arma di guerra. Un articolo pubblicato da The Conversation spiega però che è difficile dichiarare ufficialmente il genocidio. Questo termine implica infatti, a differenza di altri crimini contro l’umanità, che ci sia la deliberata intenzione sia di commettere crimini contro un particolare gruppo sia l’intenzione di eliminarlo, in tutto o in parte.

 

A ciò si aggiunge il fatto che nel Tigray questa accusa non andrebbe rivolta solamente alle forze leali al governo etiope, ma anche alle milizie paramilitari Ahmara e all’esercito della confinante Eritrea. Non tutti, ha scritto Firew Tiba sul sito anglo-australiano, hanno lo stesso obiettivo. Servirebbe un’indagine seria, in grado di distinguere le accuse a seconda degli attori ai quali sono rivolte. Ma chi potrebbe fare un’indagine di questo tipo? L’Etiopia non è parte della Corte penale internazionale e dunque il caso dovrebbe passare dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dove però difficilmente Cina e Russia non opporrebbero il veto. Finora solo un tribunale etiope ha indagato su quanto avvenuto a novembre 2020 ad Axum, ma in maniera certo non sorprendente ha negato l’uccisione di civili. 

 

Ad ogni modo, che venga etichettata o meno come genocidio, la situazione è gravissima. Secondo quanto riporta al-Jazeera, finora il conflitto in Tigray ha provocato 1,7 milioni di sfollati. A complicare il quadro è il fatto che gli aiuti umanitari arrivano molto difficilmente, in particolare nella città santa di Axum, a cui soldati eritrei bloccano l’accesso, come documentato da un reportage della CNN (gli 8 minuti di video-reportage iniziali danno un’idea purtroppo molto chiara della gravità della situazione). Nella regione molte persone stanno iniziando a morire di fame, e gli effetti della malnutrizione si fanno sentire in particolar modo tra bambini, donne incinta e madri in fase di allattamento. Nonostante la pressione internazionale che ne chiede il ritiro – ultimo in ordine cronologico il Senato americano, che ha votato all’unanimità la richiesta – le truppe eritree continuano a essere presenti nel Tigray. Nel frattempo le elezioni previste in Etiopia per il 5 giugno sono state posticipate al 21 a causa della situazione di instabilità.

 

In breve

 

La Francia ha cancellato il debito di cinque miliardi di dollari che il Sudan aveva contratto con Parigi. The Africa Report spiega perché Macron ha preso questa decisione.

 

Le aperture della Turchia nei confronti di Arabia Saudita ed Egitto indicano la volontà di Ankara di terminare il suo periodo di isolamento nella politica mediorientale, scrive Chatham House.

 

Giovedì 20 maggio i siriani residenti all’estero potevano recarsi alle urne per partecipare alle elezioni presidenziali che in Siria si terranno invece il 26. Naturalmente, come scrive La Croix, la vittoria di Bashar Assad è scontata.

 

Uno speciale di Jeune Afrique su come il Qatar sta guadagnando influenza in Costa d’Avorio.

 

Abubakar Shekau, leader di Boko Haram, è stato dichiarato morto per l’ennesima volta. Shekau si sarebbe fatto esplodere nel corso di uno scontro con miliziani di ISIS (New York Times).

 

In Iran il Consiglio dei Guardiani si è riunito per la seconda volta per vagliare le oltre 500 candidature per le elezioni presidenziali che si terranno in giugno. Sia il capo del potere giudiziario Ebrahim Raisi che lo speaker del Parlamento, Ali Larijani hanno presentato la loro candidatura (Al-Monitor).

 

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