Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:01:02

Al summit della Lega Araba tenutosi a Gedda c’è stata poca jiddiya (serietà), come affermano i giornali filo-qatarioti contrari al reintegro della Siria di Assad nel consesso, oppure si è trattato di un evento jadīd (nuovo), nel senso che segnerà un punto di svolta (o di non ritorno), ponendo così fine al corso politico inaugurato dalle Primavere Arabe del 2011? Inoltre, la presenza del presidente ucraino Volodimir Zelensky ha suscitato molte reazioni, quasi tutte negative, anche se ha generato riflessioni sulle similitudini tra Ucraina e Siria, due Paesi che, pur completamente diversi, sono accomunati da uno stesso (e tragico) destino.  

 

Sul fronte anti-Assad prosegue con una sequela di editoriali la campagna di Al-‘Arabi al-Jadid contro il presidente siriano. Uno di questi gioca sulla parola qimma che, come in italiano, significa “vertice, summit”, ma anche “apice”: Gedda è stata quindi «l’apogeo dell’impunità per antonomasia. Basta dare un’occhiata ai presenti nella sala in seduta plenaria per rendersi conto del senso di queste parole: la maggior parte ha le mani sporche del sangue delle loro vittime o dei soldi che hanno sottratto in maniera disonesta dal pane quotidiano della loro gente». La cosa più terribile, ovviamente, riguarda la “sbiancatura” del regime di Bashar al-Assad, i cui crimini di guerra vengono ricordati puntualmente dalla testata panaraba. La presenza di Zelensky, invitato dai sauditi all’ultimo momento, è sembrata artificiosa «senza nulla che giustificasse il suo intervento a sorpresa e fuori dalle convenzioni della Lega, per giunta senza alcuna consultazione con gli altri membri. Forse è stato fatto apposta per coprire lo scandalo del rientro di Assad e per questo può essere riassunto, in fin dei conti, come un incontro marginale». A catturare l’attenzione è stata, infatti, la simultanea presenza del presidente siriano Assad e di quello ucraino. Nonostante i due si trovino agli antipodi a livello politico, al-‘Arabi al-Jadid fa notare come Siria e Ucraina sono più simili di quanto non si pensi. I due Paesi condividono un «destino insolito»: storicamente, entrambi si formarono alla fine della Prima guerra mondiale, il primo dallo sfaldamento dell’impero ottomano, il secondo da quello russo, ma vennero immediatamente rioccupati dalle superpotenze (francese per Damasco, sovietica per Kiev). Da un punto di vista sociale, entrambi gli Stati presentano una divisione interna: il nord-est della Siria è legato per ragioni culturali e commerciali all’Iraq, mentre Damasco è più vicina, per questioni economiche e religiose, al Cairo e a Riyad; l’Ucraina è «vistosamente divisa in un Est ortodosso e russofono che si ritiene parte integrante del mondo culturale russo e in un Ovest cattolico che, guardando a Bruxelles, si ritiene parte dello spazio culturale europeo e chiede di entrare nell’Unione Europea e nella Nato». Parlando di attualità, entrambi gli Stati sono in guerra e alla mercè delle potenze regionali e internazionali: «a tal proposito, entrambi i Paesi hanno registrato un fallimento nella mancata creazione di una identità nazionale collettiva».

 

Per al-Quds al-‘Arabi si è trattato di un vertice «non eccezionale e privo di successo», in buona sostanza una passerella volta a riappacificare, almeno in apparenza, le varie anime del mondo arabo, con l’eccezione del «gioco di contrasti» dovuto alla presenza di Assad e Zelensky: «il problema cronico dei vertici arabi presenti e passati è dato dalla mancanza di serietà (jiddiyya) e di fiducia tra chi la organizza e chi vi partecipa», conclude amaramente il pezzo. In un altro editoriale, il giornale panarabo smonta la retorica del presidente siriano che, nel suo intervento, ha esortato i membri dell’assemblea a unirsi in un fronte comune contro l’implementazione del «progetto ottomano della Turchia imbevuto dell’ideologia della Fratellanza Musulmana». Eppure, osserva al-Quds ricorrendo all’anafora: «Assad parla di progetto ottomano anche se la Turchia, erede dell’impero, sta avendo la più completa esperienza democratica della regione, e il suo governo non uccide la sua gente e ha buone relazioni con gli Stati arabi. Assad parla di un subdolo progetto ottomano, mentre sorvola sul progetto iraniano in Iraq, Siria, Yemen e Libano volto all’occupazione di isole [riferimento a Socotra, isola yemenita occupata nel 2018 dall’esercito emiratino], provocando nel Golfo caos, disordini e conflitti».         

 

‘Arabi 21 affronta la questione Assad al rovescio, domandando con tono provocatorio: «allora perché Bashar al-Assad è stato assente dai vertici precedenti?»: «quando la Lega Araba prese la decisione di sospendere il regime siriano, i Paesi arabi ritirarono i loro ambasciatori da Damasco e applicarono sanzioni politiche ed economiche […] Assad all’epoca non aveva ancora macchiato la sua fedina di crimini bestiali contro il suo popolo, non aveva ancora usato le armi chimiche e la sua relazione con l’Iran non era una dipendenza cronica; Hezbollah non era entrato in Siria con un esercito di decine di migliaia di combattenti, né le milizie iraniane avevano fatto il loro ingresso nel Paese; la nobile Aleppo non era caduta sotto il controllo iraniano; le coltivazioni di hashish non erano ancora diffuse, nessun laboratorio di captagon era stato ancora fondato; l’Onu non aveva ancora emesso nessuna risoluzione, né gli Stati Uniti avevano approvato il Caesar Act […] che cosa è cambiato da allora?». La testata filo-islamista muove da questo tema per scagliarsi, in un articolo dal titolo  «il vertice dell’orco, degli amanti e degli amici», contro la stessa organizzazione panaraba, definendola con disprezzo un prodotto del colonialismo occidentale: «i leader arabi hanno deciso di restare neutrali nella guerra tra Russia e Ucraina che risponde all’agenda americana; hanno invitato Zelensky alla Lega Araba che era stata fondata dagli inglesi per riempire il vuoto della Lega Islamica, ma visto che non si è potuto riempire questo vuoto politico con dei sassi, lo si è riempito di aria». Tra sogni di gloria irrealizzabili («oramai sentivamo la definizione della Palestina come questione centrale soltanto nelle commedie teatrali degli anni Settanta, e ce la ridiamo») e patetiche pantomime («non è sbagliato descrivere la Lega come un’associazione “ospitale”, un club onorario dove i suoi leader camminano sui tappeti rossi e scattano foto ricordo, condannando di tanto in tanto le operazioni sioniste») spiccano due figure “impossibili”: il primo è il ghul, una sorta di orco della mitologia preislamica «che è tornato nel consesso, tormentato dalla brama» chiarissimo riferimento al presidente siriano; l’altro è «l’amico fidato [Mohammed bin Salman] che forse vedrà la fenice della nazione risorgere dalle ceneri». Il tema della bramosia è presente anche in un altro articolo della testata dal titolo l’ Affamata Araba, gioco di parole tra jāmi‘a “lega” e jā’i‘a “affamata” appunto, in cui si accusa l’organizzazione di  non essere mai sazia di fama e notorietà, a costo di sacrificare lo spirito dei ribelli delle Primavere Arabe e l’afflato democratico.        

 

Per il fronte pro-Assad, iniziamo con una voce dell’establishment siriano. Bouthaina Shaaban, figura chiave del regime (interprete del presidente Hafez Assad e consigliera politica del figlio Bashar), commenta con soddisfazione lo svolgimento del vertice in un editoriale per la testata siriana al-Watan dal titolo “come è andato il vertice?”. Ancora prima dei contenuti, è interessante soffermarsi sui commenti della funzionaria – che partecipa dopo più di un decennio a un evento internazionale di considerevole importanza – sullo svolgimento del vertice: anzitutto un incontro «ben organizzato», con un’accoglienza impeccabile trattandosi di «ospitalità araba»; ma soprattutto dove «nessuno doveva ripetere la domanda una seconda volta» perché «tutti parlavano arabo, gli interpreti non servivano e nessuno si lamentava […] persino il rappresentante dell’Unione Africana e quello dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica parlavano arabo». Venendo a questioni più serie, per la Shaaban la riammissione della Siria ha permesso alla politica araba di diventare matura, in un clima di ritrovata concordia e serenità. I membri della Lega godono ora di più autonomia decisionale e possono far sentire la loro voce e far valere i loro interessi a livello internazionale. Non si tratta, però, di avere sempre e per qualsiasi problema la stessa posizione: «siamo fratelli e amici nel rispetto dei punti di vista e traiamo vantaggio persino dalle divergenze. Impariamo l’un l’altro dalle nostre esperienze». L’obiettivo è quello di disfarsi dell’egemonia dell’Occidente la cui mentalità è ancora intrisa di colonialismo; a tal riguardo «la presenza di Zelensky è un tentativo fallito da parte degli Stati occidentali che vogliono far vedere di esistere ancora». Al-‘Arab parla di Gedda come «un vertice delle sorprese senza sorprese», intendendo che tutto era stato deciso con lago anticipo, più per merito di Riyad che della Lega. Interessante il fatto che il giornale panarabo concordi, almeno su questo, con il giudizio di al-Quds che abbiamo riportato sopra: «il problema del vertice, come la maggior parte di quelli passati, è che non va a fondo su nessuna questione, ma rimane all’interno di una cornice di formalismo, i cui risultati evaporano non appena se ne va via l’ultimo capo delegazione del Paese ospitante». E Zelensky? «Sembrava un pesce fuor d’acqua. Il suo disorientamento era evidente sin dal momento in cui è sceso dall’aereo e dal modo in cui si è inchinato a chi lo stava accogliendo, il vicegovernatore della provincia della Mecca. Evidentemente è stato invitato all’ultimo e non era a conoscenza del protocollo e delle formalità». In definitiva, la sua partecipazione non serviva ad aggiungere un elemento di discussione in più all’agenda araba, ma solo a soddisfare una richiesta di Washington e a controbilanciare la presenza di Assad. Sempre dalle colonne di al-‘Arab, il giornalista libanese Khayrallah Khayrallah ha tuttavia criticato il presidente siriano, privo di qualsiasi autorità: «con il suo discorso ha dimostrato di non aver imparato nulla dalle lezioni dei dodici anni passati. Si è dimenticato che persino un bambino sa che ad essere tornata nella Lega è la “repubblica islamica iraniana”, non la “repubblica araba siriana”. Lo sa anche un bambino che l’Iran si è impossessato del destino del regime siriano e che questo ha ormai una capacità decisionale marginale». L’emiratino al-‘Ayn al-Ikhbariyya  rileva che «a Gedda c’è uno spirito arabo nuovo (jadīd)», anche se ammette che il percorso di reintegro della Siria è iniziato da tempo e per merito dei Paesi del Golfo.          

 

 

 “Un leader è un mercante di speranza” [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Domenica i turchi torneranno alle urne per il ballottaggio. Su al-Quds al-‘Arabi lo scrittore iracheno Muthanna ‘Abdullah si è domandato perché gli arabi erigano Erdoğan a loro simbolo, nonostante non sia un leader arabo e nonostante nei suoi vent’anni di governo abbia attuato politiche spesso molto discutibili nei confronti di quegli stessi Stati arabi che oggi sostengono la sua rielezione. «Il problema dell’uomo mediorientale, scrive ‘Abdullah, è che non può vivere senza un simbolo, che sia un capo tribù, un religioso, un leader politico o un capo di Stato. Questa adorazione e attaccamento alla figura simbolica ha in sé qualcosa di molto estremo nella misura in cui i Paesi in Oriente possono crollare in caso di morte del simbolo o nel caso in cui, per un motivo o per un altro, questi esca di scena». In effetti, spiega al-Muthanna, la storia arabo-islamica così come viene raccontata «è la storia di leader e capi che hanno prodotto, guidato e indirizzato gli eventi, opposto resistenza alle altre forze e sfidato le pressioni politiche locali e regionali e le circostanze internazionali, al fine di tracciare i percorsi della vita araba e realizzare gli interessi della umma». Con la morte dei grandi leader della storia politica moderna – tra questi il giornalista ha annoverato Gamal Abdel Nasser, Houari Boumediene, re Faisal al-Saud, Yasser Arafat e Saddam Hussein – si sono chiusi dei capitoli importanti della storia araba. Per quanto alcuni di questi leader siano stati descritti come «fautori della modernizzazione autocratica» sono stati dei grandi simboli nella vita politica araba e come tali venivano riconosciuti e trattati dalla comunità internazionale. A questi leader ‘Abdullah riconosce il merito di aver saputo «infondere nel popolo arabo la speranza che le loro società avrebbero raggiunto il livello delle altre società e che i loro Stati sarebbero stati in grado di competere nell’arena internazionale». È la lezione di Napoleone: «Un leader è un mercante di speranza». Oggi l’assenza di «simboli e di una leadership efficace e saggia […] ha fatto precipitare la nazione in una spirale di disperazione» e gli arabi hanno finito per prendere come loro riferimenti politici Erdoğan e Khamenei.

 

L’entusiasmo manifestato da molti arabi per un nuovo mandato presidenziale di Erdoğan «è comprensibile e incomprensibile allo stesso tempo», ha commentato Ernest Khoury su al-‘Arabi al-Jadid. È comprensibile nella misura in cui a) la Turchia è una delle poche democrazie rimaste in Medio Oriente mentre gli Stati arabi sono quasi tutti privi degli strumenti attraverso i quali viene esercitata la democrazia (i partiti, le opposizione, le elezioni); b) Erdoğan rappresenta un modello di governante conservatore di destra per il quale la religione ha un ruolo fondamentale, ciò che piace molto a una parte degli arabi; c) per gli islamisti arabi garantire il loro sostegno a Erdoğan, affiliato all’Islam politico, è una forma di «internazionalismo islamico». Sull’incomprensibile «si potrebbero scrivere dei libri». Incomprensibile, per esempio, è la scelta di alcuni arabi di sostenere Erdoğan dopo che questo si è alleato con Devlet Bahçeli e Sinan Oğan, «due uomini la cui biografia politica può riassumersi nell’odio per gli arabi in primis e per tutti gli stranieri in generale». Il sostegno arabo a Erdoğan esula quindi dalla razionalità, e a tutti i suoi «sostenitori emotivi» Khoury ricorda che le deportazioni dei siriani dalla Turchia sono iniziate più di due anni fa, che il Reis turco è il candidato preferito di Putin ed è anche il simbolo della riconciliazione con Israele e con i regimi arabi, a cui in passato ha quasi dichiarato guerra. Le passioni dominano le scelte politiche degli arabi, ha spiegato Khoury, ad ogni modo «il vuoto democratico arabo non può essere colmato da nessuna elezione, per quanto democratica essa sia, che abbia luogo in qualsiasi Paese non arabo».

 

Il quotidiano Ultra-Tunis ha offerto una chiave di lettura tunisina delle elezioni turche proponendo una riflessione sulle (inaspettate quanto sorprendenti) affinità tra il Reis e il presidente tunisino Kais Saied. Benché quest’ultimo sia ostile all’Islam politico, ha scritto Tariq al-Kahlawi, è un grande sostenitore del Sultano, con cui condivide uno stile politico molto affine. Fatte le dovute distinzioni tra i due Paesi – «la posizione geopolitica e la dimensione militare ed economica danno alla Turchia un potere di negoziazione di cui la Tunisia non dispone minimamente» – ciò che unisce la Turchia e la Tunisia è la propensione populista dei loro leader insieme alla tendenza di entrambi a esercitare un potere ad personam all’interno di un sistema iper-presidenziale. È se è vero che Erdoğan ha instaurato questo sistema in modo più trasparente e «legale» rispetto a Saied, e che il Reis turco ha goduto di un maggiore sostegno popolare rispetto al suo omologo tunisino, è altrettanto vero che entrambi hanno fatto ricorso a «uno strumento populista come il referendum per cambiare il sistema politico». Con la differenza che l’opposizione tunisina lo ha boicottato, mentre quella turca si è recato alle urne. Questa tendenza ultra-presidenzialista ha portato alla nascita di un semi-autoritarismo in Tunisia e a pratiche autoritarie in Turchia. Ciò che a prima vista potrebbe sembrare paradossale, ovvero il sostegno dell’anti-islamista Saied «all’islamista Erdoğan», in realtà non lo è più di tanto. Perché, ha spiegato al-Kahlawi, occorre distinguere tra l’orientamento conservatore e l’orientamento islamista: l’orientamento islamista è necessariamente conservatore, mentre non è vero il contrario. Saied incontra Erdoğan nello spazio conservatore senza tuttavia condividerne il background islamista.

 

Che cosa rappresentano esattamente i due candidati al ballottaggio per gli islamisti? Ne ha parlato Sami al-Khatib sul quotidiano filo-islamista ‘Arabi21. Per al-Khatib queste elezioni, «arrivate al culmine del conflitto centenario tra due progetti» di segno opposto, rappresentano lo scontro tra «un campo che vuole riportare la Turchia all’epoca del kemalismo laico e che vede nell’Europa un modello da incarnare e seguire senza dare peso alla religione e considerare i valori» e «un campo conservatore, orgoglioso dell’eredità islamica e del nazionalismo turco, che vede nel sublime impero ottomano un sogno» da realizzare. «Oggi, dopo questi lunghi anni di conflitto identitario, si sta indubbiamente formando una nuova Turchia: una Turchia in cui l’Islam è un elemento presente nell’identità e nella coscienza, poiché la macchina militare e i regimi creati dall’uomo non sono nella misura di superarlo o negarlo, così come il Partito Repubblicano del Popolo non può contrastarlo o abolirlo». Il candidato vincitore di queste elezioni è l’Islam, ha scritto al-Khatib, e la dimostrazione è che il Partito Repubblicano del Popolo, erede del kemalismo, ha riconosciuto di aver fatto un errore nel vietare il velo, mentre il suo candidato, Kılıçdaroğlu, è apparso in pubblico con una copia del libro “Pietre miliari” di Sayyid Qutb (ideologo dei Fratelli musulmani e dell’islamismo radicale), ha partecipato agli iftār del Ramadan citando versetti del Corano, e si è scusato per una foto diffusa sui social che lo ritrae mentre calpesta con le scarpe un tappeto da preghiera.

 

Al-Azhar, la grande assente nella questione israelo-palestinese [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Nei giorni scorsi Israele ha celebrato i 75 anni dalla sua creazione. Al-‘Arabi al-Jadid ha dato voce alle polemiche del giornalista egiziano Wael Kandil che, in un articolo intitolato “Lo shaykh al-Azhar è chiamato alla battaglia”, ha rimproverato le istituzioni islamiche, prime fra tutte la moschea-università del Cairo, per aver rinunciato a sostenere la causa palestinese lasciando il «sionista libero di imporre la sua narrazione in merito alla Palestina, alla terra, al popolo e ai luoghi sacri», a discapito della versione palestinese e araba della storia. La narrazione sionista «considera il conflitto in Palestina una battaglia fondamentalmente religiosa, poiché il discorso israeliano è concentrato sulla negazione della palestinesità della Palestina, e quindi anche dei tratti islamici e cristiani della sua personalità». Il fulcro del discorso di Netanyahu e del suo governo, ha scritto Kandil, è diventato il Tempio, ciò che prelude alla «completa imposizione del dominio sionista sulla moschea di al-Aqsa, sulla Gerusalemme occupata e su tutta la Palestina, arrivando a dire che l’aggressore e il colone illegittimo è la presenza palestinese in Palestina». In questo contesto le accademie di diritto islamico e le istituzioni religiose, capeggiate dall’Azhar, sono chiamate a costituire un fronte unitario per «respingere l’aggressione sionista alla memoria della storia, alla storia delle religioni e dei popoli». Un’altra grande assente in questa battaglia è l’Organizzazione della Cooperazione islamica, costituita nel 1969 in risposta all’incendio della moschea di al-Aqsa e chiamata in origine Organizzazione della Conferenza islamica. Kandil domanda sarcasticamente che fine abbia fatto questa istituzione: «giace forse nel museo dei morti viventi accanto a un’altra entità inutile che si chiama Lega degli Stati arabi?» 

 

Tags