Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:03:34
Il Medio Oriente guarda sempre più alla Cina anziché all’Occidente. Questa settimana, sul quotidiano panarabo londinese al-‘Arab, Yun Sun (direttrice del Programma Cina presso lo Stimson Center di Washington) ha illustrato le intenzioni e le ambizioni della politica cinese in Medio Oriente, dopo che queste sono diventate oggetto di intense speculazioni in seguito alla mediazione di Pechino nel raggiungimento dell’accordo tra Arabia Saudita e Iran. La Cina, ha spiegato Yun Sun, ha tutto l’interesse a stabilizzare la regione mediorientale per tutelare la propria sicurezza energetica nazionale, visto che Pechino importa da quell’area più del 53% del suo fabbisogno petrolifero. Nella fattispecie, la produzione e il trasporto sono i due fattori che incidono maggiormente sull’approvvigionamento energetico del Paese. Obbiettivo primario della Cina è garantire il buon funzionamento del sistema, prevenendo le possibili minacce, tra cui l’instabilità interna e regionale, l’interruzione delle rotte marittime, la pirateria e, nella peggiore delle ipotesi, un blocco navale. Ed è proprio quest’ultima ipotesi a spaventare maggiormente i cinesi, ha spiegato la direttrice, in particolare ora che la tensione tra Cina e Stati Uniti è alle stelle sul caso Taiwan. Se dovessero scoppiare le ostilità tra i due Paesi, Washington potrebbe decidere di chiudere i corridoi energetici verso la Cina nel tentativo di controllare le operazioni di Pechino nello Stretto di Taiwan. Nonostante questo timore, la Cina non intende dispiegare le proprie forze armate nell’area mediorientale perché i costi sarebbero maggiori dei benefici. Oggi, gli Stati Uniti destinano più di 70 miliardi di dollari l’anno alle spese militari in Medio Oriente. Per competere la Cina dovrebbe destinare all’area un terzo delle sue risorse (la spesa per la difesa prevista dal governo cinese nel 2023 ammonta a 224 miliardi di dollari), ciò che «non sarebbe conveniente, visto che il teatro principale della Cina e la più importante minaccia strategica si trova nel Pacifico occidentale». Alle armi, quindi, la Cina preferisce «metodi meno costosi per mitigare i rischi della sicurezza energetica. Essa cerca di porre fine ai conflitti regionali mediando accordi di pace tra i nemici storici, lavora per radicarsi nella struttura economica futura dei principali attori regionali e cerca di creare un’interdipendenza tra i Paesi produttori di energia e la sua popolazione cinese, che conta 1,4 miliardi di persone. Nel loro insieme questi strumenti possono essere più efficaci di quanto lo siano le soluzioni militari». Sun Yun conclude con un monito all’America: «Pechino sarà presente nella regione a modo suo, indipendentemente da ciò che pensano gli Stati Uniti al riguardo. La presenza politica, economica e diplomatica cinese sarà una forza non trascurabile, anche in assenza di un grande dispiegamento di forze militari in Medio Oriente».
Dell’accordo saudita-iraniano e del disimpegno americano in Medio Oriente ha parlato anche il sito d’informazione libanese Asas Media. Il giornalista libanese Khairallah Khairallah ha fatto il punto di come (non) si è evoluta la politica estera iraniana. Nonostante una clausola dell’accordo prevedesse l’astensione dalle ingerenze nelle questioni interne degli altri Paesi, la Repubblica islamica continua a svolgere il ruolo di potenza dominante nella regione, soprattutto alla luce di una politica statunitense confusa e cauta. Con la tradizionale avversione che caratterizza gli organi di stampa libanesi ostili a Hezbollah e all’ingerenza iraniana, Khairallah spiega che l’Iran non è intenzionato a ritirare le sue milizie né dall’Iraq, né dal Libano, né tanto meno dalla Siria (dove peraltro sta beneficiando ampiamente delle difficoltà della Russia impegnata nella guerra in Ucraina) perché le milizie confessionali sono parte del regime iraniano e il futuro del regime iraniano è legato alla loro sopravvivenza. «Lo slogan “esportare la rivoluzione” è stato alla base dell’istituzione del regime iraniano nel 1979. Non è possibile separare le due cose: il regime persiste se lo slogan persiste. Detto più chiaramente, non c’è spazio per alcun cambiamento nella politica estera iraniana, dato che qualsiasi cambiamento significherebbe, in un modo o nell’altro, la fine del regime». Peraltro, ha ricordato Khairallah, l’orientamento iraniano in politica estera era stato confermato il mese scorso dall’ambasciatore iraniano a Beirut, Mojtaba Amani, che, in occasione di un simposio organizzato nella capitale libanese, ha esplicitato come la clausola di non ingerenza presente nell’accordo bilaterale si riferisse esclusivamente ai due Paesi firmatari.
Le confraternite sufi turche ringraziano Dio per la vittoria del Reis [a cura di Chiara Pellegrino]
Sheikh Muhammad ‘Adil, guida della confraternita sufi Naqshbandi Haqqaniya, ha invitato i seguaci in tutto il mondo a recitare due rak‘at [prosternazioni] di ringraziamento a Dio per la vittoria di Recep Tayyip Erdoğan alle elezioni turche. Il loro sostegno al Reis, ha spiegato Khadija Kamal al-Din su al-‘Arabi al-Jadid, nasconde una forma di riconoscimento verso gli islamisti che, quando sono arrivati al potere, hanno concesso ai sufi di riaprire le confraternite e svolgere i loro riti dopo che un decreto emanato negli anni ’20 da Kemal Atatürk li aveva messi al bando, costringendone i membri ad agire nell’illegalità o a prendere la via dell’esilio verso i paesi del Levante. Erdoğan non è ostile al sufismo, «fa politica, ma non mette il naso nelle questioni di dottrina religiosa, lasciando piuttosto che siano gli ulema a occuparsene». Da questo punto di vista, perciò, il presidente turco si distingue dalla «corrente del rinnovamento e della riforma del pensiero che ha dominato il mondo arabo da quando Jamal al-Din al-Afghani ne ha acceso la scintilla». Segno del rispetto del presidente turco per l’Islam spirituale sono state le sue frequenti visite a Mahmud Efendi, quando questi era sheikh dell’ordine Naqshbandi, ramo Ismail Agha, e al suo successore Hasan Efendi, ai quali chiedeva e chiede tuttora preghiere e benedizioni. Il rapporto tra gli islamisti e le confraternite, ha spiegato la ricercatrice, deve molto all’impero ottomano, che separava lo Stato dalla religione riconoscendo a ciascuno le proprie prerogative. «Questa antica eredità ottomana si è fatta strada tra i nuovi politici islamisti, altrimenti detti neo-ottomani», un appellativo fatto proprio anche da sheikh Muhammad Nazim al-Haqqani, una delle più influenti personalità della confraternita Naqshbandiyya che nei primi anni ’90 sostenne l’ascesa di Erdoğan.
A poche settimane dalla riconferma di Erdoğan alla presidenza, la domanda è quale governo avrà la Turchia nei prossimi anni. I nomi dei ministri nominati lasciano presagire un cambio di rotta. Sul quotidiano londinese al-‘Arab, sempre giornalista libanese Khairallah Khairallah ha parlato di «un golpe di Erdoğan contro Erdoğan», nella misura in cui il Reis «ha abbandonato le sue illusioni legate al pensiero della Fratellanza e l’idea di far rivivere i fasti dell’Impero ottomano, e ha formato un governo che riflette l’esistenza di uno Stato profondo turco che pensa già al post-guerra in Ucraina, una guerra che Vladimir Putin ha perso». Il nuovo Erdoğan avrebbe rinnegato il vecchio Erdoğan «entro i limiti tracciati per lui dallo Stato profondo turco con le sue diverse istituzioni – uno Stato che unisce lo spirito nazionalista da un lato e l’orientamento islamico moderato, lontano dal pensiero dei Fratelli musulmani, dall’altro». Questo sviluppo, ha commentato l’editorialista, indica la volontà dello Stato profondo di riconciliarsi con la realtà regionale e internazionale. Erdoğan si è trovato costretto a fare delle scelte che in altri tempi non avrebbe fatto, ciò che denota un parziale ridimensionamento della sua figura. Ha nominato un ministro delle Finanze curdo (Mehmet Şimşek) che sulla crisi economica la pensa in maniera diametralmente opposta a lui, ha nominato a capo dell’intelligence Ibrahim Kalin, che ha una visione positiva della Nato; il suo nuovo ministro degli Esteri, Hakan Fidan, è un sostenitore di Bashar al-Asad, mentre il ministro della Difesa Yashar Güler ha sostenuto l’opposizione siriana negli anni in cui era a capo dell’intelligence militare. In sostanza, è un governo pieno di contraddizioni in cui Erdoğan non avrà completa libertà di movimento, come era abituato in passato.
Se il confessionalismo diventa una prigione [a cura di Chiara Pellegrino]
Concludiamo con la riflessione pubblicata da al-‘Arabi al-Jadid sulle conseguenze del confessionalismo nel diritto di famiglia arabo. Una delle difficoltà dei governi nelle società arabe multireligiose, ha spiegato Mu‘taz al-Fujairi, esperto egiziano di diritti umani, è conciliare i diritti di gruppi e minoranze religiose, ciascuno dei quali reclama la facoltà di appellarsi alla propria legge e alle proprie tradizioni per dirimere le questioni giuridiche che interessano i suoi membri, e in particolare i matrimoni, i divorzi e l’eredità. La pluralità di statuti personali genera due problemi: da un lato vincola i membri di un gruppo religioso a sottostare a determinate regole privandolo della sua libertà di scelta, dall’altro può generare delle situazioni paradossali. Come è il caso dei copti che si sono convertiti all’Islam per sfuggire alle rigide regole previste dal loro statuto personale sul divorzio e sulla possibilità di risposarsi, senza poi riuscire a tornare al cristianesimo perché «considerati apostati dal ministero dell’Interno e da molti tribunali egiziani». La presenza di statuti personali diversi può causare parecchi problemi anche nei matrimoni misti. La legge egiziana, ha spiegato al-Fujairi, vieta per esempio la trasmissione dell’eredità tra musulmani e non-musulmani, così come impedisce a una donna non-musulmana divorziata di ottenere la custodia dei figli se il loro padre è musulmano. Inoltre, «l’attuale Costituzione egiziana riconosce il diritto di praticare credenze e riti religiosi soltanto ai musulmani, ai cristiani e agli ebrei», ma non riconosce altri gruppi religiosi che vivono in Egitto da decenni come i baha’i, che pertanto non possono applicare le norme previste dal loro statuto personale. L’auspicio dell’editorialista è che nei Paesi maggiormente interessati dal confessionalismo si possa aprire una riflessione sulla necessità di creare uno statuto personale civile unico applicabile a tutti gli individui indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa, sottraendo il diritto di famiglia alle logiche confessionali.
Ritorno al passato: Israele perse la Guerra dei Sei Giorni (!?) [a cura di Mauro Primavera]
Come ogni anno, il 5 giugno gli arabi ricordano con dolore la Guerra di Sei Giorni del 1967, conflitto spartiacque nella storia del Medio Oriente, quando Israele annientò gli eserciti arabi confinanti e quadruplicò la sua superficie occupando il Sinai egiziano, il Golan siriano e l’intera Cisgiordania. Quel rovescio (Naksa) incrinò il rapporto di fiducia tra Stato e popolo egiziano: dopo quel giorno l’immagine del presidente della repubblica Nasser, leader «dal carisma immenso» in tutto il mondo arabo e non solo, venne irrimediabilmente danneggiata, come racconta in uno dei suoi editoriali il quotidiano panarabo al-Quds al-‘Arabi: « la narrazione disonesta sui dettagli della guerra da parte dei media ufficiali, soprattutto la negazione delle perdite dell’esercito egiziano e il suo ritiro dalla penisola del Sinai alla sponda ovest del Canale di Suez, incrinò la fiducia della gente». Un evento da cui gli egiziani non si sono mai più ripresi: «non ci siamo più ripresi dal dubbio di quei responsabili che annunciavano rosee promesse e disegnavano i contorni di un futuro imminente che avrebbe realizzato le speranze prospettate, ma che in seguito sono stati in silenzio quando i venti hanno soffiato in direzioni indesiderate». Cosa ancora più grave per al-Quds – che, è bene ricordarlo, è finanziato dal Qatar e non è quindi ostile alle posizioni della Fratellanza Musulmana – è che Nasser ha inaugurato in Egitto un modello di governo autoritario, la cui legittimazione poggiava sull’ideologia (pan)arabista: «modello che, prendendosi gioco delle fantasie delle persone», ha permesso ai militari di controllare il Paese fino ad oggi, ad eccezione della breve parentesi delle Primavere Arabe del 2011-2013.
Interessante e allo stesso tempo coinvolgente l’articolo pubblicato su al-Sharq al-Awsat, dal titolo a effetto: «così è stato sconfitto Israele nel 1967». L’autore, lo scrittore ed ex politico palestinese Nabil Amr, si affretta però a precisare: «calma, calma, il titolo non è mio, ma dello scrittore israeliano Akiva Eldar, il quale l’ha dato a un articolo che parla della guerra avvenuta cinquant’anni fa e che Israele continua ancora a festeggiare». Per comprendere meglio il senso di queste parole, Amr cita una frase dell’editoriale del suo collega israeliano: «“5 giugno del ’67, giorno della Naksa. Il popolo palestinese lamenterà i 56 anni di umiliazione sotto l’occupazione israeliana, mentre il popolo israeliano segnerà un altro anno dalla caduta nell’abisso della stagione del razzismo, del dispotismo e della segregazione. Un’altra vittoria come questa e saremo finiti”». L’autore passa poi al ricordo personale della guerra: «avevo vent’anni e stavo passando le mie vacanze estive dopo un pesante anno di studi alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Damasco. Non seguivo gli sviluppi della guerra; l’unico collegamento che io la mia famiglia avevamo con il conflitto era la radio, che prima di quel lunedì aveva diffuso tra noi la certezza che la parola guerra con Israele significasse vittoria certa. Una sensazione confortata dal fatto che la propaganda araba all’inizio riportò, gonfiandole, solo le perdite dell’avversario. Un clima di fiducia ed euforia aveva contagiato le persone: «sono passati 56 anni, ma quella scena è ancora impressa nella mia memoria, non mi abbandona nemmeno per un istante». Eppure, lentamente cominciarono a sorgere i primi dubbi: «nonostante i numeri (delle perdite nemiche) annunciate quel giorno avessero superato le centinaia, l’entusiasmo iniziale cominciò a perdere vigore, e il dubbio iniziò a insinuarsi tra la gente, finché non sentii qualcuno dire: “non è che è una bugia?”». L’amara verità alla fine emerse, gettando tutti nello sconforto. «Per tornare all’inizio di questo articolo – conclude Amr – riprendo alla lettera quanto scritto dal signor Akiva Eldar “Così è stato sconfitto Israele nel ’67”; aggiungo però una frase araba all’articolo ebraico: “così noi non abbiamo vinto”».
Ritorno al futuro: l’intelligenza artificiale [a cura di Mauro Primavera]
Intelligenze artificiali e robot continuano a suscitare l’interesse della stampa araba che si chiede – tra il serio e il faceto, tra l’utopia e la distopia – in che modo cambieranno il mondo. Al Jazeera ne discute in un articolo dal titolo: «le AI…bivio oppure risultato inevitabile?». Per l’autore esistono infatti due punti di vista: primo, le intelligenze artificiali «sono semplicemente qualcosa di nuovo che ha sbalordito le persone, ma che non supereranno la linea del “trend”»; secondo, vi è il pericolo concreto «supportato da una quantità impressionante di film di fantascienza dagli anni Settanta», che le macchine prendano definitivamente il sopravvento sull’essere umano, al punto da «sfiorare la fine dell’umanità». La verità sta probabilmente nel mezzo, anche se l’autore sembra guardare con favore i nuovi strumenti e assistenti digitali minimizzando i rischi che potrebbero causare. L’emiratino al-‘Ayn al-Ikhbariyya si prende gioco della moda AI pubblicando un articolo “scritto” da un certo ‘Arif bin Teqni, traducibile come “Il Conoscitore figlio della Tecnica”. Si tratta ovviamente di un robot (come suggerisce anche la sua immagine profilo, che ritrae un androide) che, in maniera simile a ChatGPT, snocciola il tema del giorno – il 5 giugno per al-‘Ayn non è l’anniversario della Naksa, ma la giornata mondiale dell’ambiente – proprio come farebbe un giornalista umano: introduzione, elenco delle cause, elenco delle azioni e delle misure da adottare. Un altro quotidiano emiratino, Al-Ittihad affronta in maniera seria la questione, evidenziando uno dei più gravi problemi causati dalle AI: la perdita della capacità di ragionamento, l’intorpidimento dell’intelletto umano, in particolare tra le nuove generazioni: «è importante educare gli studenti ad essere dei filosofi, sproniamoli a diventare dei pensatori strategici, che apprendono durante tutta la loro vita». La rapidità di cambiamento sta infatti facendo perdere agli studenti la capacità di porre domande, conducendoli in uno stato di pigrizia mentale, all’irrimediabile perdita dell’identità autentica. Pertanto, ritengo opportuno inserire la filosofia nei curricula didattici, oltre a «insegnare agli studenti delle conseguenze morali, sociali e politiche del cambiamento tecnologico» prediligendo il pensiero critico. Yasir Ahmad, vignettista del quotidiano al-‘Arab, pubblica una vignetta che raffigura un braccio robotico giocare con la “pallina” dei diritti della proprietà privata e quelli d’autore. Il tema viene poi ripreso da un lungo articolo apparso su Independent Arabia che fa notare come nell’era delle intelligenze artificiali sia ormai impossibile esercitare i diritti d’autore e far rispettare il copyright, dato che i nuovi software sono in grado di replicare e generare opere d’arte, video e testi della letteratura.