Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:24:08

Non è semplice scrivere il focus attualità sul Medio Oriente questa settimana, mentre le notizie che arrivano dall’Ucraina sono sempre più drammatiche e riguardano tutti noi. Cerchiamo di dare il nostro contributo alla comprensione di quanto sta avvenendo illustrando come la guerra possa influire sul Medio Oriente e in particolare sulla Turchia.

 

Quando Vladimir Putin ha riconosciuto le due repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, Recep Tayyip Erdogan si trovava in Senegal e ha immediatamente definito «inaccettabile» la decisione di Mosca. Contestualmente, il ministero degli Affari Esteri turco reiterava il suo impegno «per la preservazione dell’unità politica e dell’integrità territoriale dell’Ucraina». Quando invece Putin ha lanciato l’offensiva su tutta l’Ucraina, il presidente turco ha affermato di essere «sinceramente rattristato che la Russia e l’Ucraina, […] Paesi amici e con cui abbiamo strette relazioni politiche, economiche e sociali, siano giunte a questa confrontazione». È in forza di queste relazioni con entrambi i Paesi che Ankara ha tentato – senza riuscirci – di mediare tra le parti in causa.

 

La Turchia si trova su un crinale e cerca di bilanciare le relazioni che intrattiene con Mosca (non a caso ha escluso l’imposizione di sanzioni), quelle con Kiev e la sua appartenenza alla NATO. Quest’ultima è uno dei fattori che ha spinto Ankara a non riconoscere nel 2014 l’annessione russa della Crimea (un altro è il sostegno ai Tatari della Crimea, decisione che però, come affermato recentemente dal portavoce del Cremlino, non ha impedito il mantenimento di buone relazioni).

 

Le relazioni turche con Kiev sono però profonde e testimoniate – come ha ricordato l’Atlantic Council due settimane fa – dall’incontro avvenuto a inizio febbraio nella capitale ucraina tra Erdogan e il presidente ucraino Zelensky. In quell’occasione i due Paesi hanno firmato diversi accordi bilaterali, inclusi uno di libero scambio e uno per la produzione dei droni armati turchi Bayraktar TB2 in Ucraina. Tuttavia, l’incontro non è servito solo a gettare le basi di un futuro rapporto, bensì anche a celebrare quanto finora raggiunto: gli scambi commerciali tra Turchia e Ucraina hanno raggiungo i 5 miliardi di dollari di valore.

 

Non che la Russia sia davvero meno importante per la Turchia. Ankara importa il 40% del suo fabbisogno di gas naturale proprio dalla Russia, una percentuale destinata probabilmente a crescere alla luce dell’accordo siglato tra Gazprom e la turca Botas. Inoltre, Erdogan ha acquistato da Mosca il potente sistema antiaereo S-400 (cosa che ha portato all’estromissione della Turchia dal programma americano F35). Alla luce di questi aspetti, è difficile pensare che in Ucraina Erdogan possa adottare una politica spregiudicata simile a quella con cui sostenne l’Azerbaigian contro l’Armenia (alleata della Russia), anche se Zelensky ha richiesto ogni tipo di aiuto possibile da parte turca.

 

Un’ipotesi avanzata dall’ambasciatore ucraino in Turchia è che Ankara impedisca il transito attraverso Bosforo e Dardanelli alle navi russe. La Turchia gestisce infatti il traffico negli stretti sulla base degli accordi di Montreaux del 1936, che tuttavia autorizzano la chiusura solo se ad essere in guerra è la Turchia stessa. Inoltre, come ha spiegato lo studioso Soner Cagaptay, impedire il passaggio delle navi russe porterebbe Mosca a chiedere la rinegoziazione di Montreaux, il cui esito – qualunque esso sia – non sarà mai favorevole alla Turchia quanto l’attuale assetto. Ecco perché Ankara non si arrischierà in questa mossa.

 

In buona sostanza la politica di Ankara nei confronti di Mosca è caratterizzata, come ha affermato il think tank tedesco SWP, da una miscela di «deterrenza e dialogo». Ciò si manifesta nel fatto che da un lato «Ankara rappresenta un partner ideale per Mosca», ma dall’altro, per quel che riguarda il caso ucraino, «la Turchia è un alleato NATO esemplare». Ankara dovrà soppesare attentamente le prossime mosse, perché la posta in gioco è alta e riguarda la sicurezza del suo vicino settentrionale (l’Ucraina), l’equilibrio di potenza nella regione del Mar Nero, le sue relazioni complesse con la Russia e il futuro dell’ordine europeo. «L’Ucraina è come una diga che blocca ulteriore influenza russa e pressione nella regione [del Mar Nero]. Se l’Ucraina cade, questo avrà delle implicazioni dirette sulla Turchia», ha affermato un funzionario turco ad Ahval.

 

Le difficoltà dell’equilibrismo turco sono naturalmente ben note a Mosca, dove cercano di utilizzarle in proprio favore. È in questa ottica che va letta la dichiarazione del vice-ministro degli Esteri russo Michael Bogdanov secondo cui i curdi siriani dovrebbero necessariamente partecipare al processo diplomatico per trovare una soluzione al conflitto in Siria. Se consideriamo che per la Turchia è un imperativo strategico impedire il riconoscimento della legittimità della presenza autonoma curda nell’area,  capiamo come la minaccia della Russia di porre il suo peso a sostegno delle milizie curde colpirebbe Ankara «là dove fa male», per usare le parole di Zvi Bar’el. Ma non è l’unico modo in cui Mosca può danneggiare la Turchia dalla Siria: un’opzione a disposizione di Putin è infatti lanciare una pesante offensiva su Idlib, e provocare una nuova ondata di profughi (e islamisti) oltre il confine turco.

 

Ci sono poi le considerazioni sul versante economico, già tasto dolente di questi ultimi mesi in Turchia. Secondo Alaattin Aktaş, editorialista del principale quotidiano finanziario turco, economicamente il Paese anatolico potrebbe soffrire più di tutti (Ucraina esclusa) della guerra in atto. Oltre a essere penalizzata dai prezzi elevati delle materie energetiche, Ankara potrà fare meno affidamento sull’afflusso di valuta straniera derivante dal turismo: occorre infatti tenere presente che russi e ucraini da soli “valgono” più di un quarto del valore totale del settore turistico turco.

 

Per quanto ancora Erdogan riuscirà a mantenere questa posizione bilanciata tra Putin e Zelensky? Probabilmente, più si protrarranno i combattimenti, più la posizione equilibrista di Erdogan si farà scomoda. D’altro canto, un’eventuale vittoria schiacciante russa in Ucraina confermerebbe la sensazione turca circa la perdita di importanza e di forza della NATO, spingendo Erdogan a inaugurare una nuova fase di rapporti geopolitici con epicentro a Mosca. 

 

A differenza della Turchia, Israele non ha confini (marittimi nel caso turco) con l’Ucraina. Eppure, come ha ammesso il ministro della Difesa Benny Gantz, a causa della presenza russa in Siria, «abbiamo una sorta di confine con la Russia» e perciò la crisi in Ucraina può avere un impatto sulla sua situazione securitaria. Finora infatti Mosca ha tollerato le incursioni aeree israeliane in Siria che hanno come obiettivi bersagli iraniani o di Hezbollah, ma recentemente la portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha insistito sulla violazione della sovranità siriana da parte di Israele e annunciato pattugliamenti aerei congiunti Russia-Siria. Un aspetto di cui Israele dovrà tener conto.

 

E se non stupisce che l’Iran abbia accusato la NATO di essere responsabile dell’escalation, colpisce invece il tempismo degli Emirati Arabi che proprio mercoledì precisavano la «forza e la solidità» delle relazioni tra Russia ed Emirati.

 

Ma c’è un altro aspetto che occorre considerare e che riguarda molti stati del Medio Oriente e dell’Africa: Russia, Ucraina e Romania producono più di un terzo del grano a livello globale e un quinto del grano esportato passa attraverso il Mar Nero. Il conflitto potrebbe portare a un rialzo dei prezzi che avrebbe impatti significativi su Paesi come il Libano o la Siria (il cui gabinetto si è riunito in via emergenziale per valutare come distribuire grano e olio).

 

Attenzione particolare va prestata all’Egitto: Il Cairo è il più grande importatore al mondo e il 90% del suo grano arriva da Russia e Ucraina. Se è vero che ci sono altre fonti di approvvigionamento a cui il Cairo potrebbe rivolgersi, è altrettanto vero che il grano importato da Stati Uniti, Canada, Francia, Australia o Argentina sarebbe parecchio più costoso. Un grosso problema per un Paese con 100 milioni di abitanti in cui dal 1988 il prezzo del pane non è mai stato toccato.

 

Il conflitto in Ucraina sembra essere infine un’occasione per una vecchia resa dei conti: come ha scritto il Time infatti nel Paese sono presenti gruppi di combattenti ceceni. Quelli fedeli a Ramzan Kadyrov combattono al fianco dei soldati russi, ma in Ucraina sono arrivati anche i dissidenti ceceni, che hanno al contrario prestato il loro sostegno alle forze fedeli a Kiev.

 

Dopo i pandora papers è il tempo di Credit Suisse

 

I dettagli di 18 mila conti correnti bancari aperti presso la banca svizzera Credit Suisse sono stati trafugati e inviati a Suddeutsche Zeitung da una talpa che ha definito “immorali” le leggi sulla segretezza bancaria in Svizzera. E come spesso accade in questi casi (era capitato per esempio con i cosiddetti Pandora papers) i leader mediorientali sono tra i protagonisti – loro malgrado – delle cronache.

 

Una delle figure maggiormente coinvolte è Re Abdullah di Giordania, il quale avrebbe accantonato una vera e propria fortuna (centinaia di milioni di dollari) nei suoi conti correnti svizzeri, alcuni dei quali aperti proprio mentre scoppiavano le primavere arabe. O peggio, mentre la Giordania negoziava con il Fondo Monetario Internazionale riforme che avrebbero costretto i giordani a numerosi sacrifici. La domanda principale che è finora emersa riguarda l’origine di cotanta ricchezza, come ha dichiarato l’attivista Nuha Faouri a Middle East Eye. La monarchia ha affermato che la maggior parte di questi fondi deriva dall’eredità ricevuta dal padre e ha sostenuto che né il re né la regina hanno mai sottratto fondi pubblici. D’altro canto Le Monde ha correttamente indirizzato l’attenzione sul sistema del quale la monarchia beneficia, più che sulle singole scelte dei reali: la legislazione giordana infatti esenta il re da tutti i tipi di imposta (incluse le tasse sull’eredità ricevuta) e dalle tasse doganali sulle importazioni fatte a suo nome.

 

Le notizie che circolano non fanno altro che rafforzare tra i cittadini la percezione di un re totalmente distaccato dalla realtà quotidiana dei suoi sudditi e contribuiscono a dare l’idea di una monarchia in difficoltà, a poco meno di un anno di distanza dal (presunto) tentativo di colpo di stato organizzato dal Principe Hamza. Il tutto mentre lo Stato ha rafforzato la sua capacità repressiva, aspetto evidenziato anche dal fatto che nessun media giordano ha dato rilievo alla notizia fino a quando la Corte Reale non ha diramato una dettagliata risposta alle investigazioni.

 

Re Abdullah è comunque in “buona” compagnia. Come infatti ricorda Le Monde, sono una quarantina i conti aperti anche da alti gradi dei servizi segreti di diverse Nazioni. Tra di essi Omar Souleiman, capo dello spionaggio di Hosni Mubarak, Sa’ad Khair, dirigente tra il 2000 e il 2005 dell’intelligence giordana, Ghaleb Al-Qamish, ai vertici dei servizi in Yemen per 30 anni, o ancora di Akhtar Abdur Rahman, a capo dell’ISI pakistano negli anni 80.

 

Rassegna dalla stampa araba (a cura di Michele Brignone)

Sulla crisi ucraina il mondo arabo non si schiera

 

La stampa araba s’interroga sul significato che la crisi ucraina può assumere per il Medio Oriente. La posizione dei Paesi della regione è sintetizzata da un titolo del quotidiano panarabo londinese Al-Quds al-‘Arabī: «Ecco perché gli arabi hanno abbandonato l’America in Ucraina». Il testo dell’editoriale in questione, pubblicato il 21 febbraio, dunque prima dell’attacco russo, spiega che finora gli arabi si sono tenuti a una «distanza di sicurezza dai due campi della crisi», evitando di sostenere l’Occidente e di condannare apertamente la Russia. L’ostilità verso quest’ultima «non è nell’interesse del Medio Oriente, né come regione né come singoli Stati», continua l’articolo. Ogni Paese ha infatti qualche ragione per non esporsi: «l’Arabia Saudita ha bisogno della Russia per le questioni petrolifere e nell’ambito dell’Opec+; Israele ha bisogno della complicità russa quando vuole intervenire in Siria; l’Egitto ha bisogno della Russia in Libia; L’Algeria ha bisogno della Russia in Mali; la Turchia ha bisogno della Russia in Siria e in Libia». A questo si aggiunge il tema della sicurezza alimentare: se a causa della crisi «dovessero interrompersi le esportazioni del grano dalla Russia e dall’Ucraina molti Stati arabi sarebbero danneggiati, e ai governanti arabi non sfugge che il pane è sufficiente a scatenare rivolte sociali più pericolose delle rivolte per la libertà».

 

Sullo stesso giornale, il politologo libanese Gilbert Achcar ha tracciato un parallelo tra le azioni di Putin nei confronti di Georgia e Ucraina e le guerre di Saddam Hussein contro l’Iran e il Kuwait, affermando che «i due uomini hanno usato la forza avanzando pretese simili nelle loro ambizioni espansionistiche». Se apparentemente Putin ha fatto i conti meglio di Saddam, conclude Achcar, il presidente russo sta rischiando moltissimo, dal momento che il suo comportamento militare è del tutto sproporzionato rispetto alle capacità economiche del suo Paese.

 

Diversi editoriali di Al-Sharq al-Awsat riflettono sui cambiamenti che la crisi ucraina innescherà o sta mettendo in evidenza nel sistema internazionale. L’egiziano ‘Abd al-Mun‘im Sa‘īd afferma che il Medio Oriente ha bisogno di una nuova architettura di sicurezza; l’ex-ministro giordano Sālih al-Qallāb osserva che il mondo sta chiaramente tornando a una divisione in campi contrapposti e spera che questo non finisca per mettere i Paesi arabi gli uni contro gli altri anche nel caso in cui fossero costretti a schierarsi.

 

La festa della fondazione in Arabia Saudita

 

Due giorni prima dell’attacco russo all’Ucraina, in Arabia Saudita si è celebrata per la prima volta la festa della “Fondazione”, una ricorrenza voluta dalla monarchia per ricordare la nascita del primo regno saudita. Come abbiamo spiegato in questo articolo, la nuova festività dissocia ufficialmente l’identità nazionale dalla dottrina wahhabita. La stampa saudita ha dedicato naturalmente ampio spazio all’evento, esaltando la profondità delle radici storiche del regno. Tra i tanti articoli che si sono occupati della questione ne segnaliamo in particolare uno pubblicato su ‘Ukāz. Lo facciamo non tanto per i suoi contenuti, molto simili a quelli degli altri contributi, quanto per il suo autore: il religioso sciita Muhammad ‘Alī al-Husayni, la cui firma serve probabilmente a dimostrare l’ecumenicità della nuova identità saudita.

 

La libertà di espressione e i suoi confini

 

Venerdì scorso, durante una trasmissione televisiva, il popolare giornalista egiziano Ibrahim ‘Issa ha messo in dubbio la storicità del “viaggio notturno” (isrā’) e dell’ascensione al cielo (mi‘rāj) di Maometto, l’episodio miracoloso, cui il Corano accenna brevemente e in modo piuttosto ermetico, che avrebbe visto il profeta dell’Islam condotto dall’angelo Gabriele prima dalla Mecca a Gerusalemme e poi al cospetto di Dio. Le parole di ‘Issa, che non è nuovo a questo tipo di considerazioni, hanno suscitato un intenso dibattito. I suoi difensori hanno sostenuto il diritto del giornalista alla libertà di espressione, mentre i suoi detrattori l’hanno accusato di oltraggio la religione. L’ultimo numero di Sawt al-Azhar, la pubblicazione della celebre moschea-università cairota, afferma per esempio che «chi mette in dubbio il viaggio notturno e l’ascensione vuole provocare la discordia e diffondere il caos». Il direttore della rivista ha scritto anche che se non è lecito accusare di miscredenza chi fa queste dichiarazioni, la bandiera della libertà di espressione non può essere brandita per «offendere i sentimenti religiosi dei cittadini».

 

Due piattaforme tradizionalmente ostili al regime del presidente al-Sisi hanno affrontato la questione da un’altra prospettiva, affermando che il dibattito sulle dichiarazioni di ‘Issa è soltanto un diversivo. Secondo Al-Arabī al-Jadīd, in Egitto si dovrebbe parlare del rincaro dei generi alimentari più che dell’offesa alle tradizioni e ai valori religiosi. Sul sito di al-Jazeera il politologo Khalīl al-‘Anānī ha scritto invece che il vero illuminismo esige la liberazione dell’uomo «dal dispotismo politico», mentre la «via egiziana all’illuminismo [di cui ‘Issa sarebbe un rappresentante] significa innanzitutto la difesa del despota e la giustificazione del suo dispotismo».

Intanto ‘Issa, contro il quale è in corso anche l’indagine di un tribunale, ha ritrattato le sue affermazioni, sostenendo di essere stato frainteso.

 

In breve

 

Il conflitto in Ucraina rischia di rinviare la fine delle trattative sul nucleare iraniano (Bloomberg).

 

In Siria, nella zona di Idlib, il gruppo jihadista Hayat Tahrir al-Sham ha preso di mira i salafiti che gli si oppongono (al-Monitor).

 

Prepotenza e tangenti sono gli ingredienti della rinascita di ISIS nel nord est della Siria secondo il Washington Post.

 

Riad Salameh, da 30 anni a capo della Banca Centrale libanese, avrebbe dovuto comparire davanti a un tribunale per rispondere alle accuse di corruzione. Ma la polizia non è riuscita a trovarlo (Financial Times).

 

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