Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale
Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 17:07:50
L’assenso all’ingresso della Svezia nella NATO, l’incontro tutto sommato cordiale con il presidente americano Joe Biden, e la decisione di permettere ai combattenti del battaglione Azov di raggiungere l’Ucraina avevano fatto pensare a un riavvicinamento della Turchia alla linea mantenuta dai Paesi della NATO. Una speranza che è svanita quando, lunedì, Recep Tayyip Erdoğan e Vladimir Putin sono apparsi fianco a fianco a Sochi e hanno «esteso la partnership» tra Russia e Turchia e rafforzato la collaborazione in ambito commerciale ed energetico, come hanno scritto Ben Hubbard e Paul Sonne sul New York Times. È ormai chiaro, per chi ancora avesse dubbi, che Russia e Turchia sono strettamente collegate e che Erdoğan non ha alcuna intenzione di rinunciare al rapporto privilegiato intessuto con Putin, si legge sul quotidiano newyorkese.
Dopotutto, l’incontro è servito soprattutto alle due parti direttamente coinvolte e non ha avuto particolari ricadute positive sul contesto internazionale. Dal punto di vista bilaterale il vertice ha infatti confermato che la partnership è ben salda. Ma ciò su cui si concentrava buona parte dell’opinione pubblica era il tentativo di rivitalizzare l’accordo per l’esportazione del grano attraverso il Mar Nero. Da questo punto di vista, la mediazione tentata dal presidente turco si è scontrata con le condizioni poste da Mosca, riassunte dal giornalista Ragıp Soylu in due punti: primo, riconnettere la banca agricola russa al sistema di pagamento internazionale SWIFT e ottenere pagamenti in dollari ed euro per la vendita di cereali; secondo, rendere nuovamente possibile l’assicurazione dei cargo russi presso le compagnie assicurative occidentali. Se non altro un segnale, dopo tante polemiche e tanti dubbi, che le sanzioni occidentali contro Mosca arrecano un serio danno alla Russia. Niente accordo sul grano, dunque, ma il tentativo di mediazione ha svolto egregiamente la funzione di giustificare i contatti tra Mosca e Ankara.
La Turchia, comunque, continua nel suo equilibrismo: questa settimana c’è stato un importante passo nei confronti della Grecia, alleato nell’ambito della NATO ma tradizionale avversario regionale, che Erdoğan ha più volte apertamente minacciato, anche di azioni militari. Il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan e quello greco Giorgos Gerapetritis si sono incontrati e hanno riaffermato l’intenzione di resettare le relazioni bilaterali. La roadmap stabilita dai ministri degli Esteri prevede che Erdoğan incontri nuovamente il primo ministro greco Mitsotakis a margine della prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York (18 settembre). «Abbiamo opinioni diverse nell’Egeo, ma siamo d’accordo ad adottare nuovi approcci per risolvere le nostre differenze. Il rilancio di canali di dialogo e di contatti ad alto livello è un passo in avanti positivo per noi», ha dichiarato Fidan. A testimoniare quanto profonde siano le differenze c’è il fatto, come si legge su Al-Monitor, che entrambi i ministri hanno ribadito l’intenzione di stabilire misure di «rafforzamento della fiducia per prevenire un’escalation militare tra i due Paesi nelle acque contese dell’Egeo», senza però definire una data precisa per l’avvio di tali iniziative. Sia il già citato al-Monitor che al-Jazeera concordano nell’affermare che l’avvio del nuovo corso nelle relazioni tra Grecia e Turchia coincide con la disaster diplomacy greca, che ha fatto seguito al terribile terremoto che ha colpito la penisola anatolica. Ora, peraltro, Atene e Ankara sono purtroppo accomunate dalle alluvioni che hanno causato tre morti in Grecia e sette in Turchia. L’emittente qatarina aggiunge però che sono anche le gravi condizioni economiche in cui si trova Ankara a spingerla a riallacciare le relazioni con i Paesi occidentali. La situazione, infatti, non sembra migliorare, nonostante il ritorno a una politica economica ortodossa inaugurata dal nuovo governo. Le più recenti stime sull’inflazione sono state riviste al rialzo: 65% per il 2023 e 33% l’anno prossimo. Le previsioni sono di rivedere l’inflazione «a una cifra» solo nel medio periodo, ha detto il vicepresidente Cevdet Yilmaz, il quale ha sottolineato che nel frattempo la Turchia «non sacrificherà lavoro e crescita economica». Tuttavia, come riporta Reuters, anche le stime della crescita economica sono state riviste al ribasso: dal precedente aumento del PIL del 5% si è passati al 4,4%.
La Turchia può invece festeggiare la vittoria dell’Europeo di volley femminile, prima volta nella storia. La nazionale allenata dall’italiano Daniele Santarelli ha sconfitto a Bruxelles prima l’Italia in semifinale e poi la Serbia campione del mondo. Questo successo, però, ha ricadute più ampie dell’ambito sportivo. Lo ha sottolineato anzitutto il capitano della squadra, Eda Erdem Dundar, la quale ha evidenziato l’orgoglio di vincere una competizione così importante proprio in occasione del centenario della fondazione della Repubblica turca. Le “Sultane della rete”, come sono soprannominate le pallavoliste turche, sono state accolte a Istanbul da una folla di sostenitori festanti. Ma mentre Erdoğan ha evitato ogni polemica e si è congratulato con la nazionale, la squadra si sta rivelando un elemento divisivo della società turca. Sono infatti soprattutto i membri delle fasce secolarizzate turche a gioire per la vittoria di una squadra che, come ha scritto la giocatrice Ilkin Aydin su Twitter, è composta dalle «figlie di Atatürk». Al contrario, gli islamisti considerano le ragazze un pessimo modello per le giovani e non esitano a invitare al boicottaggio della squadra. È soprattutto la figura di Ebrar Karakurt, fortissimo opposto della squadra, a dividere l’opinione pubblica turca. Karakurt è finita nel mirino delle critiche di islamisti e conservatori per via della sua omosessualità (non dichiarata). Critiche che le sono state rivolte tanto dalla classe dirigente quanto dalle persone comuni. Mentre è diventato virale un video di una donna che, salendo su un autobus ha iniziato a inveire contro la comunità LGBT, accusata di voler trasformare la natura della Turchia, altri hanno preso di mira Karakurt, colpevole tra le altre cose di aver criticato il sultano Abdulhamid II (m. 1918…). È il caso, per esempio, dell’ex sindaco di Ankara Melih Gökçek, secondo il quale Karakurt dovrebbe essere espulsa dalla nazionale, del teologo İhsan Şenocak, vicino all’AKP, che ha definito la vittoria una «disgrazia», o di Cübbeli Ahmet Hoca, celeberrimo imam che si è domandato come mai il governo non abbia ancora messo fuori legge l’omosessualità. In ogni caso, la vittoria della nazionale di pallavolo e la visibilità delle giocatrici che ne è scaturita ha toccato un nervo scoperto della società turca, come ha scritto Politico. Per ora Erdoğan sembra non curarsene troppo, attratto dal prestigio garantito dalla vittoria sulla scena internazionale. Del resto, l’altra giocatrice al centro dell’attenzione è la cubana, naturalizzata turca, Melissa Vargas. Ma è stato proprio Erdoğan in persona a consegnarle la nuova carta d’identità turca.
Russia e Arabia Saudita spingono il prezzo del petrolio verso l’alto [a cura di Claudio Fontana]
La Turchia non è l’unico alleato dell’Occidente ad aver intensificato i rapporti con la Russia. Martedì, infatti, Riyad e Mosca hanno annunciato il prolungamento dei tagli volontari alla produzione e all’esportazione di petrolio. La notizia ha spinto il prezzo – per la prima volta nel 2023 – sopra i 90 dollari al barile, alimentando i timori per una nuova fiammata dell’inflazione. Come ha scritto l’Associated Press, i prezzi potrebbero poi salire ulteriormente nel caso si verificassero gravi eventi meteorologici, purtroppo previsti, al largo della costa della Florida. Secondo Bob McNally (Rapidan Energy), interpellato dal Financial Times, i tagli alla produzione decisi da Riyad e Mosca servono soprattutto a dimostrare l’unità di intenti in materia di politica petrolifera tra Arabia Saudita e Russia.
La decisione saudita non incontra di certo il favore della Casa Bianca, timorosa che un rialzo dei prezzi alla pompa di carburante prima delle elezioni favorisca gli avversari di Joe Biden. Tuttavia, i rapporti tra la Casa Reale saudita e Washington sono profondi e lo testimonia anche l’incontro tra funzionari statunitensi, sauditi e palestinesi avvenuto a Riyad questa settimana. Come ha scritto il Financial Times, il dialogo a tre si inserisce negli sforzi americani di convincere i sauditi a normalizzare le relazioni con Israele. In cambio, scrive il quotidiano finanziario, gli israeliani dovrebbero fare concessioni ai palestinesi, mentre gli Stati Uniti dovrebbero fornire ulteriori garanzie securitarie ai sauditi. Il raggiungimento di un accordo, che non è comunque imminente, è reso più complicato dall’imprevedibilità dell’attuale governo israeliano di estrema destra, dai difficili rapporti Washington-Riyad di quest’ultimo periodo, e dal riavvicinamento tra Teheran e Riyad, con quest’ultima che proprio in questi giorni ha inviato il nuovo ambasciatore, Abdullah bin Saud al-Anzi, nella capitale iraniana.
Secondo H. A. Hellyer (RUSI) i sauditi guardano con attenzione alla posizione in cui si ritrovano gli Emirati Arabi Uniti dopo aver normalizzato i rapporti con Israele: una posizione scomoda e per certi versi resa imbarazzante dalle politiche messe in atto dal governo Netanyahu. Per questo, afferma Hellyer, per allacciare formali rapporti con Israele, i sauditi hanno bisogno di un incentivo «imponente». Qualcosa come l’ingresso in un sistema di sicurezza simile a quello garantito dall’articolo 5 della NATO. Eventualità che però al momento è remota.
Mentre spingono i sauditi verso Israele, gli Stati Uniti si muovono anche per contrastare la crescita dell’influenza cinese in Medio Oriente. Così, come ha reso noto in esclusiva Axios, al prossimo G20 in India Biden intende presentare un piano di investimenti in infrastrutture realizzato insieme ad Arabia Saudita, Emirati e India. L’obiettivo è quello di collegare attraverso una rete ferroviaria gli Stati arabi del Levante a quelli del Golfo e, dagli Emirati, raggiungere l’India attraverso una serie di porti. Qualora Israele normalizzasse i rapporti con i sauditi, nel progetto ci sarebbe posto anche per lo Stato ebraico, si legge su Axios.
Breve notizia aggiuntiva: questa settimana si è svolto a Milano il business forum italo-saudita. Vi hanno partecipato diverse aziende e sono stati firmati numerosi memorandum of understanding. In particolare, l’italiana De Nora, tra i leader nel settore elettrochimico, ha firmato un accordo con la saudita ACWA Power, nota tra le altre cose per aver costruito l’impianto fotovoltaico marocchino di Ouarzazate, attualmente il più grande al mondo. Le due aziende collaboreranno in particolare alla produzione di idrogeno verde. Come ha affermato il CEO di De Nora, gli accordi rientrano nella strategia saudita delineata dalla Vision 2030. La cooperazione non è però soltanto a livello di aziende private: come ha detto il ministro Adolfo Urso, sono stati avviati i colloqui affinché vi sia un investimento saudita all’interno del nuovo fondo sovrano italiano (denominato Made in Italy), che ha una dotazione iniziale di 700 milioni di euro.
Mentre dal punto di vista economico i Paesi europei cercano di attrarre i capitali del Golfo, sul versante politico le relazioni sono complicate dal fatto che, come già accennato, le petro-monarchie non si sono schierate in maniera netta a favore dell’Ucraina dopo l’invasione russa e, anzi, mantengono relazioni piuttosto cordiali con Mosca. A questo proposito, secondo il Wall Street Journal, Stati Uniti, Unione europea e Regno unito stanno facendo congiuntamente pressione sugli Emirati Arabi affinché interrompano l’invio in Russia di beni che possono essere utilizzati nella guerra. Nel frattempo gli Emirati hanno creato una nuova autorità federale che secondo l’Associated Press aprirebbe la strada allo sbarco sul territorio emiratino dei grandi casinò. Una notizia che preoccupa, si legge, perché renderebbe ancora più facile il riciclo di denaro, attività per la quale Abu Dhabi e Dubai sono già sotto la lente di ingrandimento.
Siria: i disordini di Deir el-Zor e il caso Abu Khawla [a cura di Mauro Primavera]
In Siria l’ondata di instabilità iniziata con le proteste di Sweida si è estesa ad altre zone: a Tal Tamr, nel nordovest del Paese, le forze curde hanno ingaggiato scontri a fuoco con gruppi armati filoturchi, mentre l’aviazione russa e siriana ha ripreso i bombardamenti sulle campagne di Idlib, costringendo centinaia di persone ad abbandonare le loro abitazioni. I fatti più gravi sono avvenuti a Deir el-Zor, capoluogo dell’omonimo governatorato, strategico per i giacimenti di idrocarburi di cui è ricco il suo sottosuolo. Situata lungo la sponda ovest dell’Eufrate, Deir el-Zor è diventata un avamposto di frontiera tra i territori sotto controllo governativo e quelli amministrati dalle forze curde, riunite all’interno della coalizione militare delle Forze Democratiche Siriane. Le FDS hanno arrestato il 27 agosto il capo di una milizia tribale locale, Ahmed Khbeil (meglio conosciuto come Abu Khawla), con l’accusa di corruzione, narcotraffico e collaborazione con il governo siriano. La decisione ha provocato l’immediata reazione armata di parenti e affiliati di Abu Khawla, a cui si sono aggiunti gli altri clan della zona. Nell’arco di poche ore il confronto si è allargato all’intera comunità araba del Rojava, disinteressata agli obiettivi politici della causa curda e insofferente al controllo delle FDS.
Per provare a comprendere i fatti di Deir el-Zor occorre partire proprio da Abu Khawla, personaggio tanto influente quanto controverso: stando al ritratto abbozzato dal Rojava Information Center, all’inizio della guerra civile l’uomo si era unito all’Esercito Siriano Libero, per poi riparare in Turchia dopo una breve parentesi tra i ranghi dello Stato Islamico. Tornato in Siria nel 2016, riuscì a entrare nel Consiglio Militare di Deir el-Zor, organismo alleato con le FDS, grazie alle ottime entrature e al potere del suo clan. Da allora Abu Khawla si è comportato come un signore della guerra, cooperando con diverse formazioni e milizie della zona allo scopo di salvaguardare i suoi business illegali e di mantenere il potere informale che si è costruito nel corso degli anni.
Gli analisti sospettano tuttavia che i disordini di Deir el-Zor siano stati fomentati e sostenuti dagli attori esterni. Come riferisce Amberin Zaman per Al Monitor, il presidente turco Recep Tayyp Erdoğan ha pubblicamente sostenuto le tribù arabe in funzione anticurda, dato che il governo autonomo del Rojava rappresenta, come noto, una minaccia per la sicurezza nazionale di Ankara. New Lines Magazine offre un’altra versione dell’accaduto: è vero che Abu Khawla è un criminale di lungo corso (addirittura da prima dell’inizio della guerra), ma dietro i disordini ci sarebbe in realtà la “longa manus” del governo di Damasco, che si sarebbe servito, in pieno stile ISIS, di “cellule dormienti” presenti a Deir el-Zor per infiltrarsi nella grande mobilitazione tribale anti-curda sorta a seguito dell’arresto, una manovra volta a delegittimare e indebolire l’autorità delle FDS. In tal senso, conclude New Lines, i curdi possono contare sull’aiuto degli Stati Uniti, che ha ancora centinaia di marines nel territorio, l’unico attore in grado di garantire lo sviluppo e la sicurezza del Rojava. Intervistati da Middle East Eye, alcuni shaykh delle tribù al-Hifl e Baggara hanno affermato di non contestare la presenza degli Stati Uniti ma solo quella delle FDS, auspicando la creazione di un organo amministrativo gestito agli arabi che possa relazionarsi direttamente con gli americani. Altri capi clan, invece, hanno adottato una posizione più moderata: è vero che esistono delle divergenze tra le forze arabe e curde, ma la crisi è stata ordita da Damasco e dai suoi alleati: la Russia e soprattutto l’Iran, che può contare su numerose milizie dislocate in gran parte del governatorato. Le riunioni tra gli shaykh dell’Eufrate sono già in corso per raggiungere un accordo intertribale e ripristinare l’ordine nella regione: come osserva Arab News, infatti, l’escalation rappresenterebbe «un’occasione per la rinascita delle superstiti cellule dello Stato Islamico annidate nell’Eufrate».
Ad ogni modo, il caso Abu Khawla rende conto della complessità del sistema siriano, in cui dinamiche locali, settarie e tribali si sovrappongono alle istanze della minoranza curda e alle richieste di cambiamento politico avanzate dall’opposizione e da parte della società civile.
Prosegue il programma nucleare iraniano [a cura di Claudio Fontana]
Si aggiunge un nuovo tassello alla “diplomazia degli ostaggi” messa in atto dal regime iraniano. È emerso infatti questa settimana che Johan Floderus, cittadino svedese e diplomatico dell’Unione europea, è incarcerato in Iran da oltre 500 giorni. Secondo il New York Times, quella di Floderus è l’ennesima detenzione finalizzata a ottenere qualcosa dall’Occidente nel negoziato sul nucleare iraniano.
A questo proposito, documenti confidenziali dell’IAEA a cui ha avuto accesso il Wall Street Journal mostrano una riduzione nel ritmo di produzione dell’uranio arricchito al 60%: Teheran ne ha accumulato negli ultimi tre mesi soltanto 7,5 chili, una diminuzione significativa rispetto ai 51,8 del periodo precedente. Secondo il quotidiano americano, lo scopo di questa riduzione potrebbe essere quello di mandare un segnale distensivo nei confronti della Casa Bianca. D’altro canto, però, la quantità di uranio arricchito al 20 e al 5% è aumentata. Un dato preoccupante se consideriamo che questa tipologia di materiale fissile può essere arricchita in maniera piuttosto rapida. La quantità di materiale fissile arricchito al 60% in possesso dell’Iran ha raggiunto oramai il triplo della soglia consentita dall’accordo del 2015. Dati che sembrano dimostrare in maniera piuttosto evidente che la decisione presa da Donald Trump di abbandonare l’accordo sul nucleare non ha portato ai risultati sperati.
Nel frattempo, continua a non essere chiaro quali siano le sorti dell’inviato speciale americano Robert Malley, al quale sembra essere stato revocato il nullaosta per l’accesso a informazioni riservate. Malley avrebbe utilizzato in maniera inappropriata alcuni dei documenti di cui è entrato in possesso nello svolgimento del proprio lavoro. Tuttavia, dal Dipartimento di Stato americano non è giunta alcuna spiegazione. Ecco perché Josh Rogin ha pubblicato un editoriale sul Washington Post in cui invita a dare al caso-Malley la stessa attenzione con cui la stampa occidentale ha coperto il caso – pur diverso – della sparizione del ministro degli Esteri cinese Qin Gang.
In breve
Sollecitato da un’intervista di Le Monde in merito al divieto di indossare l’abaya nelle scuole, il fondatore del sito “Islam et info” Eliias d’Imzalene ha invitato i giovani musulmani francesi ad essere “orgogliosi” della propria identità.
Il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan ha invitato l’Unione Europea a compiere passi coraggiosi riguardo all’ingresso della Turchia nell’Unione (Daily Sabah).
Arrestati due membri di alto profilo del partito tunisino en-Nahda, tra cui il presidente ad interim Mondher Ounissi (Middle East Eye).
Tamir Pardo, ex-capo del Mossad, ha definito Israele uno Stato “di apartheid” (Haaretz).
Il Dipartimento del Tesoro americano ha confiscato i beni del fratello di Mohammed Hamdan Dagalo (Al-Jazeera).
Il presidente algerino Tebboune ha sostituito il ministro della comunicazione (Jeune Afrique).
Sono quattro i morti a Kirkuk per la repressione delle proteste per la mancata consegna del quartier generale della polizia al governo autonomo curdo (Associated Press).
Il procuratore capo libico ha annunciato la creazione di una task force per l’investigazione del caso Mangoush (Al-Monitor).
Il Primo ministro Pakistano Anwaar-ul-Haq Kakar ha denunciato il possesso di armi americane da parte della milizia, Tehrik-e-Taliban Pakistan, braccio armato della principale fazione all’opposizione in Pakistan (Washington Post).