Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale
Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 17:08:42
La stampa internazionale ha seguito con grande attenzione le notizie provenienti dal Nordafrica, colpito in una sola settimana da due diverse calamità naturali: in Marocco un terremoto di rara intensità ha provocato gravi danni nella zona di Marrakech; in Libia, le alluvioni causate dalla tempesta “Daniel” hanno distrutto la città di Derna. Per quanto eccezionali, i disastri hanno messo in evidenza problemi sociali e politici già presenti nei rispettivi Stati.
Il terremoto in Marocco: la faglia geologica e sociale, il rifiuto degli aiuti, il silenzio del re
L’8 settembre un terremoto di magnitudo 6,8 ha colpito il Marocco centrale, in particolar modo la provincia di Marrakech, situata lungo la zona di faglia dei monti dell’Atlante. Al momento il numero delle vittime ha superato le 3000 unità, ma le ricerche dei dispersi sono ancora in corso. Numerosi villaggi, costruiti in argilla e fango, risultano completamente distrutti e quelli ancora integri sono comunque isolati dal resto del Paese. La moschea di Tinmel, costruita al tempo dalla dinastia almohavide nel XII secolo e poi più volte restaurata, è collassata; si registrano crolli anche nella medina di Marrakech, una delle città imperiali, mentre la situazione nei nuovi quartieri residenziali non appare preoccupante.
Per lntissar Fakir, ricercatrice del Middle East Institute, il terremoto ha aperto una vecchia “linea di faglia” sociale in seno alla società marocchina, risalente al periodo pre-coloniale, tra Bilad al-Makhzen, il territorio sotto controllo governativo, e Bilad al-Siba, terra della dissidenza tribale, poi ripresa dai colonizzatori francesi nella forma della separazione tra “Marocco utile”, e quello “inutile”, che comprende un’ampia area periferica e rurale priva di servizi basilari come l’erogazione di acqua corrente, il sistema sanitario e scolastico. La Catena dell’Atlante, poco rilevante per i piani di sviluppo economici nazionali, rientra in quest’ultima categoria. Ciò spiega, secondo Fakir, la lentezza con cui sono stati prestati i soccorsi da parte delle autorità locali. Middle East Eye osserva come le zone di montagna siano sì le più depresse da un punto di vista economico, ma comunque strategiche: le bellezze naturali del luogo e l’aspetto caratteristico dei villaggi (douar) abitati dalla consistente popolazione berbera richiamano visitatori da tutto il mondo e rappresentano una risorsa importante per il turismo del Paese. Per questo motivo le autorità avrebbero impedito di proposito l’edificazione di abitazioni in cemento al fine di mantenere l’estetica originale dei douar e preservarne il valore storico e culturale. A tal proposito, Bloomberg prevede che il sisma avrà certamente conseguenze deleterie per il turismo, almeno nel breve termine. Tuttavia, il Marocco ha diversificato il settore e può contare su altre mete e destinazioni; in definitiva, il sisma ha danneggiato soprattutto la già fragile economia locale, molto meno quella nazionale.
La questione degli aiuti è stata al centro delle analisi della stampa internazionale. Malgrado l’entità del disastro, uno dei più gravi della storia recente del Paese, il governo marocchino ha “selezionato” le offerte di aiuto, accettando soltanto il soccorso umanitario delle cosiddette “nazioni amiche”, per usare l’espressione del ministro degli esteri: Regno Unito, Spagna, Qatar ed Emirati Arabi Uniti; le proposte di Tunisia, Algeria, Francia, Italia, Germania, Stati Uniti, Canada e Nazioni Unite non sono state prese in considerazione, ufficialmente per evitare problemi organizzativi nella logistica degli aiuti. Per il governo, riporta Al Jazeera, incanalare un così gran numero di convogli e personale attraverso l’unica strada di montagna rimasta ancora percorribile rischia di intralciare le operazioni di soccorso, risultando controproducente. Il South China Morning Post individua, attraverso i commenti ad alcuni analisti occidentali, una evidente motivazione politica, dato che le “nazioni amiche” sono quelle che riconoscono la sovranità marocchina sul Sahara Occidentale. Capitolo a parte per la Francia, ancora in attesa di programmare la visita di Macron nel Paese africano dopo numerose disdette. Come osserva Politico, le relazioni con l’ex potenza coloniale sono tese almeno dal 2021, quando l’Eliseo ha ridotto il numero di visti di ingresso disponibili per i cittadini marocchini. Anche in questo caso, però, il vero smacco è stato il riavvicinamento dei francesi all’Algeria, principale avversaria del Marocco a causa del suo sostegno al Fronte Polisario nel Sahara Occidentale.
La stampa si è poi interessata al misterioso e quasi evanescente ruolo del re, Mohammed VI, nella gestione dell’emergenza. Anche se voci provenienti dall’establishment marocchino sottolineano che re e governo preferiscono lavorare in silenzio, piuttosto che spendersi in grandi discorsi, il sovrano conduce da tempo una vita appartata e lontana dagli impegni istituzionali e dalla vita politica del Paese. Il giorno del sisma, riporta il New York Times, Mohammed si trovava nella sua residenza parigina: «ci ha messo più di un giorno per rientrare nel Paese ed emanare la sua finora unica dichiarazione ufficiale, un comunicato asciutto». Raphaëlle Bacqué, inviata del quotidiano francese Le Monde a Marrakech, commenta così l’assenza: «il re, il re, il re… pare essere il fulcro di tutto, ma sembra regnare senza interesse per la sua carica. I suoi ritratti sono appesi all’interno di tutti gli uffici pubblici, nei caffè e nei negozi – Mohammed VI sorridente sul trono, Mohammed VI in camicia nera e colletto aperto che sembra uscito da una discoteca, Mohammed VI in giacca e occhiali da sole da playboy – ma a volte lascia il suo regno per lunghi periodi. Il terremoto non ha cambiato nulla. Ha soltanto portato alla luce il comportamento particolare di questo sovrano, che spesso è stato chiamato “il re suo malgrado”». Secondo l’articolo, Mohammed limiterebbe le sue apparizioni anche per via delle sue precarie condizioni di salute, che lo costringerebbero a lunghi periodi di degenza nelle cliniche parigine. Ad ogni modo, il 12 settembre il re è finalmente comparso in pubblico: ha donato sangue e visitato i feriti ricoverati in ospedale.
Libia: Derna inondata per il crollo delle dighe, ma l’origine dei problemi è “a monte”
Non meno tragica la situazione nell’est della Libia. La perturbazione a carattere ciclonico “Daniel”, dopo aver allagato alcuni comuni della Grecia, si è spostata a sud e nella notte tra il 10 e l’11 settembre ha interessato la Cirenaica, regione orientale del Paese sotto controllo delle forze del generale Khalifa Haftar.
La città più colpita è stata Derna, centro costiero di cinquantamila abitanti a 170 km da Tobruq, capitale de facto del governo di Haftar non riconosciuto dalle Nazioni Unite. Le intense piogge hanno rapidamente colmato le dighe Bilad e Abu Mansour, costruite negli anni Settanta proprio per regolare l’imprevedibile flusso del locale wadi (un tipo di torrente caratteristico della regione del Sahara che scorre attraverso un canyon o una valle rocciosa) che dal fertile altopiano della Jabal Akhdar sfocia nel Mediterraneo dividendo in due Derna. Le precipitazioni sono state così abbondanti da innalzare il livello idrico oltre il limite di capienza massimo degli invasi. L’enorme pressione generata dalla massa d’acqua ha portato al collasso delle strutture: si è così creata un’onda anomala di acqua, fango, detriti e tronchi d’albero che, favorita dall’effetto tunnel del wadi, è scesa rapidamente verso la costa, investendo in pieno il centro cittadino. L’inondazione ha provocato una delle peggiori catastrofi umanitarie del Nordafrica: stando alle ultime stime, nella sola Derna le vittime accertate sono più di undicimila, mentre nel resto della Cirenaica il numero di dispersi ammonta almeno a diecimila persone.
La forza della corrente è stata così intensa da aver causato la demolizione dei ponti cittadini e la distruzione di parecchi edifici e abitazioni. Nelle vicinanze della cittadina di Beda, il “ponte vecchio” del Wadi al-Kuf, in disuso da decenni e diventato “monumento” locale, è stato divelto dalla forza del vento. A poche centinaia di metri di distanza si trova il “ponte nuovo” della valle: progettato dall’architetto italiano Riccardo Morandi e inaugurato nel 1972, con i suoi 477 metri di lunghezza è il secondo ponte con maggiore altezza del continente africano. La struttura in cemento armato ha resistito, ma la sua percorribilità è dubbia: appena pochi giorni fa, il 6 settembre, una commissione di ingegneri del Ministero dei Trasporti lo aveva riaperto alla circolazione delle automobili, ma non a quella di camion e autocarri.
Tornando alle cause della tragedia, secondo la testata Eos il disastro di Derna sarebbe stato amplificato dalle stesse dighe di contenimento: oltre alla manutenzione deficitaria e alle condizioni di fatiscenza in cui versavano gli invasi, occorre sottolineare gli errori progettuali, visto che la posizione troppo ravvicinata di una delle due infrastrutture, distante appena un chilometro dal centro urbano, non ha permesso al fiume in piena di dissipare l’energia generata dall’impeto della corrente. A peggiorare la situazione, scrive il Washington Post, hanno contribuito diversi fattori: la conformazione del porto ha facilitato l’allagamento; l’aridità del suolo non ha permesso l’assorbimento delle precipitazioni; infine, le alte temperature dell’estate libica hanno posto le condizioni climatiche per la “tropicalizzazione” della tempesta. Più in generale, il Guardian osserva che la Libia non era semplicemente attrezzata per gestire un’emergenza del genere: il Paese è privo di un adeguato istituto meteorologico che monitori la presenza di fenomeni estremi e, di conseguenza, non ha potuto lanciare l’allarme in tempo e predisporre l’evacuazione dei civili. Il vero problema, però, è “a monte”, e consiste nell’assenza di statualità e nel degrado socioeconomico derivato dalla prolungata guerra civile che ha frammentato l’unità territoriale del Paese. La storia recente di Derna è infatti assai travagliata: come ricorda Middle East Eye, fu uno dei primi centri a rendersi indipendente, ai tempi della Primavera Araba del 2011, dal regime di Gheddafi, ma in seguito divenne terreno di scontro tra le diverse fazioni dell’esercito libico. Conquistata nell’ottobre 2014 dalle milizie dello Stato Islamico, la città subì un lungo assedio da parte delle truppe di Haftar, che riuscirono a prenderla solo nel giugno 2018. A causa del suo passato “rivoluzionario”, Haftar si sarebbe disinteressato a ricostruire Derna, preferendo mantenere debole una città instabile e potenzialmente pericolosa per il suo governo. Nonostante lo stallo politico, il governo rivale di Tripoli si è attivato per inviare aiuti e denaro verso le zone colpite, segno che una riconciliazione nazionale tra Est e Ovest, per quanto complicata e difficile, è ancora possibile.
Un nuovo corridoio per collegare Europa e India. Passando per il Golfo [a cura di Claudio Fontana]
A margine del vertice del G20 (da ricordare soprattutto per la dichiarazione finale che fa uso di un linguaggio più tenue nei confronti dell’aggressione russa dell’Ucraina e per l’ingresso dell’Unione Africana), il presidente americano Joe Biden e i capi del governo di India, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Francia, Germania, Italia e Unione Europea hanno annunciato un nuovo progetto per la realizzazione di un corridoio economico che colleghi l’Europa all’India, passando attraverso il Medio Oriente (India-Middle East-Europe Economic Corridor, IMEC). Il progetto, come si legge nel Memorandum pubblicato sul sito della Casa Bianca, prevede la partecipazione di altri Paesi, tra cui la Giordania e Israele. I dettagli dell’iniziativa non sono finora stati definiti, ma si prevedono due distinti corridoi: uno orientale, che connetta «l’India al Golfo Arabico», e uno settentrionale che, dalla penisola arabica permetta a merci, beni e servizi di raggiungere l’Europa. Non è chiaro al momento se quest’ultimo tratto passerà attraverso l’Italia, Paese firmatario del Memorandum, oppure dalla Grecia. Ad ogni modo, il corridoio unirà i due continenti attraverso una serie di porti, linee ferroviarie, condotte e cavi sottomarini che, secondo il presidente americano, renderanno «il Medio Oriente più stabile, prospero e integrato».
Secondo il ministro degli Investimenti saudita Khalid bin Abdulaziz Al-Falih, il corridoio avrà un valore «storico»: «sarà più significativo e rilevante [della via della Seta] perché riguarderà nuova energia, dati, connettività, risorse umane, rotte aeree, e l’allineamento di nazioni che condividono la stessa mentalità e la stessa visione». Inoltre, come scrive il Financial Times, il passaggio del corridoio attraverso Giordania e Israele favorisce gli sforzi dell’amministrazione Biden di costruire nuove relazioni politiche a partire dalla normalizzazione avvenuta tra Israele e alcuni Paesi arabi, spingendo l’Arabia Saudita verso la stessa direzione. Ciononostante, il consigliere per la sicurezza nazionale americana, Jake Sullivan, ha specificato che IMEC «non è un precursore specifico della normalizzazione» tra Israele e Arabia Saudita. Certo è che il piano appena annunciato approfondisce ulteriormente le relazioni tra Arabia Saudita e India, come testimoniato dall’incontro avvenuto lunedì tra Mohammed bin Salman e Narendra Modi, durante il quale i due leader hanno affermato l’intenzione di aumentare gli scambi commerciali tra i due Paesi, e dalla garanzia ribadita da Riyad di continuare a essere un fornitore affidabile di petrolio per il gigante asiatico. Altrettanto chiaro chi sono gli sconfitti: al primo posto c’è senza dubbio la Turchia di Erdoğan, il quale infatti ha dichiarato che «non c’è corridoio senza Turchia. La Turchia è un importante base produttiva e di commercio. La tratta più conveniente per il traffico da est a ovest deve passare dalla Turchia».
Allargando lo sguardo dalla competizione regionale a quella internazionale, a nessuno sfugge che un’iniziativa di questo tipo si pone in contrapposizione alla Belt and Road Initiative cinese. È in quest’ottica che il quotidiano cinese Global Times interpreta l’andamento complessivo del G20 a presidenza indiana: l’India, ha scritto Lian Jianxue, si considera un ponte tra il Sud Globale e l’«Occidente globale […], tra l’ordine stabilito e quello emergente». Secondo Jianxue, però, i sogni di grandezza dell’India sono irrealizzabili e, nel perseguirli, Modi si scontrerà con una «realtà crudele». Anche dal lato americano, comunque, non mancano i dubbi circa lo iato tra le ambizioni indiane e ciò che potrà essere veramente realizzato: «l’India ha ancora molta strada da fare prima di essere una grande potenza». Persino guardando le stime ottimistiche che la stessa New Delhi realizza, scrive il New York Times, l’India «non diverrà una nazione sviluppata per decenni. I suoi ranghi diplomatici restano più ridotti di quelli di nazioni che sono una frazione delle sue dimensioni. E l’agenda nazionalista hindu dell’attuale governo ha contribuito a [creare] un ambiente di persistente instabilità».
Attraverso il progetto IMEC gli Stati Uniti sperano di porsi come «un partner alternativo e un investitore per le nazioni in via di sviluppo del G20», scrive Reuters. Un obiettivo che del resto ben si sposa con quello dell’India, rivale geopolitico della Cina. Quest’ultima aveva già coinvolto alcuni Paesi nella BRI (come Italia e Arabia Saudita), ma ora, come riporta DW, ci sono segnali che gli investimenti cinesi stiano rallentando a causa delle difficoltà economiche del Dragone, anche se – ha scritto John Calabrese (Middle East Institute) – il Medio Oriente fa eccezione a questa tendenza: «solo un numero molto limitato di progetti BRI nella regione MENA è stato interrotto». Al contrario è cresciuto significativamente il coinvolgimento cinese in Iraq, specialmente nei settori infrastrutturali ed energetici.
D’altro canto, però, sarebbe un errore considerare la BRI e IMEC come progetti equivalenti e alternativi. Ne ha parlato Anil Wadhwa, ex diplomatico indiano, secondo il quale nel caso della BRI i finanziamenti provengono da un solo Paese, la Cina appunto, mentre il progetto svelato a margine dell’ultimo G20 prevede «molteplici fonti di finanziamento, specialmente attraverso partnership pubblico-privato». Inoltre, ha detto Wadhwa, «IMEC non è solo un corridoio di connettività multi-nodale, ma anche un progetto che vedrà linee di trasporto dell’idrogeno verde, cavi sottomarini per la connettività digitale, il trasferimento di dati e le telecomunicazioni. Oltre il 70% dell’infrastruttura per il progetto è già sul posto». Mohammed Soliman (Al-Monitor), ha evidenziato che Paesi come Emirati Arabi e Arabia Saudita rifiutano l’organizzazione del mondo secondo logiche bipolari e, dunque, non concepiscono la loro partecipazione a IMEC in contrapposizione a quella alla BRI cinese. Al tempo stesso, proprio la scelta di questi due Paesi del Golfo di partecipare al corridoio Europa-Medio Oriente-India ci dice qualcosa sulla loro politica estera: a lungo alleati del Pakistan, oggi tanto Riyad quanto Abu Dhabi hanno scelto di scommettere sul suo rivale indiano. Dal punto di vista americano, invece, l’obiettivo politico è modificare la «struttura gerarchica duale [del Golfo persico], in cui gli Stati Uniti sono il partner securitario dominante e la Cina è il partner economico principale», portando l’India all’interno del «mix geopolitico ed economico», sostiene Soliman. Washington è inoltre ben consapevole che gli interessi indiani nella regione si allineano soltanto parzialmente ai propri, ma ritiene «improbabile» che l’ingresso di New Delhi nella regione «danneggi gli interessi americani avviene con la presenza della Cina».
Vedremo come si svilupperà il progetto, che per ora non prevede alcun obbligo per le parti firmatarie. Entro 60 giorni sarà redatto un “action plan” e, forse, ci sarà qualche dettaglio in più.
Relazioni Iran-Occidente nel segno dell’ambivalenza
Anche questa settimana è trascorsa nel segno dell’ambivalenza per quanto riguarda i rapporti iraniani con l’Occidente. Domenica un funzionario diplomatico presso le Nazioni Unite ha annunciato il rilascio di cinque cittadini americani in cambio dello scongelamento di sei miliardi di dollari di proprietà iraniana, bloccati in Corea del Sud. Si tratta di una negoziazione che, riporta Middle East Monitor, è portata avanti con tenacia dai diplomatici del Qatar. Subito dopo l’annuncio, tuttavia, Masoud Setayeshi, portavoce giudiziario iraniano, non solo ha confermato la detenzione del funzionario svedese Johann Floderus, ma ha aggiunto che Floderus affronterà un processo per «giusta causa», senza specificare quale sia l’accusa (Reuters). Non è l’unico punto di frizione tra Paesi europei e Iran: come si legge sul Guardian gli E3, ovvero i tre membri europei del JCPOA (Francia, Germania, Regno Unito), hanno comunicato la loro contrarietà alla rimozione delle sanzioni nei confronti dell’Iran. In sintesi dunque, malgrado lo scambio di ostaggi e l’apparente rallentamento dell’arricchimento dell’uranio da parte iraniana (ne avevamo parlato qui), non sembra che i rapporti tra Iran e Paesi occidentali vadano verso la distensione. Intanto, a un anno di distanza dalla morte di Mahsa Amini, il governo iraniano è pronto a soffocare eventuali nuove proteste, mentre la situazione delle donne non è affatto migliorata.
Israele: anche la Corte suprema è divisa. Proprio come il Paese
Questa settimana la stampa internazionale ha posto grande attenzione alla prima udienza della Corte Suprema israeliana in merito alla riforma giudiziaria proposta dal governo Netanyahu. La Corte, interpellata da otto petizioni, deve valutare in queste settimane la costituzionalità della legge (anche se Israele non ha una vera e propria Costituzione) che abroga il principio di ragionevolezza come strumento di interdizione di nomine e decisioni del governo. L’opposizione israeliana, ormai perennemente in piazza, non è l’unica a sostenere che la riforma minerebbe le basi democratiche del Paese. Così, in una lettera aperta numerosi rabbini britannici hanno sollecitato il ministro degli Esteri di sua maestà, James Cleverly, in visita nello Stato ebraico, a fare presente che la collaborazione tra Regno Unito e Israele è possibile solo a condizione che la democrazia venga rispettata (Haaretz). Nel racconto della prima udienza proposto dal Jerusalem Post, la Corte appare fedele rappresentazione delle divisioni che innervano il Paese: dei quindici giudici, otto sono sembrati decisi ad abolire la riforma, mentre gli altri sette sostengono che il potere giudiziario ha a disposizione strumenti alternativi al principio di ragionevolezza. In uno scenario contraddistinto dall’incertezza, con il ministro della giustizia Levin che si rifiuta di nominare la commissione per l’elezione della magistratura israeliana non sono chiare nemmeno le tempistiche del giudizio: la Corte ha tre mesi per esprimersi, ma due giudici della fazione liberale terminano il proprio mandato ad ottobre.
In breve
La costruzione di una nuova autostrada al Cairo sta portando alla distruzione della “Città dei Morti”, vasto cimitero islamico in uso da più di un millennio. La febbre edilizia del governo al-Sisi e l’ambizione di dare un nuovo volto alla megalopoli cairota stanno alterando il voto di questo sito UNESCO che si estende per cinque chilometri quadrati (Associate Press).
La Banca Centrale libanese ha annunciato stringenti misure antiriciclaggio per regolamentare l’afflusso di dollari attraverso la nuova piattaforma di scambio monetario che sarà inaugurata nelle prossime settimane (Reuters).
Sono quaranta i morti in un mercato di Karthoum, vittime di un attacco condotto con droni di cui le controparti sudanesi si sono reciprocamente accusate (The Guardian).
Colpi di arma da fuoco a Sweyda, dove proseguono le proteste anti-Assad. Secondo gli attivisti di Sweyda24, a sparare sarebbero stati membri del Baath dalla sede del partito che i manifestanti cercavano di chiudere (Reuters).
Diciotto poliziotti iracheni sono stati condannati per non aver protetto l’ambasciata svedese a Baghdad dall’incendio appiccato dai manifestanti a luglio (Reuters).