Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale
Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 17:02:14
Questa settimana abbiamo assistito a una nuova grave escalation delle violenze in Cisgiordania. L’esercito israeliano ha lanciato la più imponente operazione militare degli ultimi 20 anni nella West Bank, iniziata lunedì e terminata solo mercoledì. L’azione israeliana, definita da Tel Aviv come un «esteso sforzo di contro-terrorismo» e dal ministro degli Esteri dell’Autorità Palestinese come una «guerra aperta contro la popolazione di Jenin», ha visto l’impiego di bombardamenti aerei sul campo profughi di Jenin, che è stato invaso da una brigata dell’esercito, composta secondo il Guardian da un numero compreso tra i 1000 e i 2000 soldati. A seguito dell’invasione israeliana hanno avuto luogo violenti scontri a fuoco.
La coordinatrice umanitaria delle Nazioni Unite Lynn Hastings si è detta «allarmata» dalla vastità delle operazioni israeliane a Jenin, sottolineando che è stato fatto ricorso a «bombardamenti aerei su un campo profughi densamente popolato». Secondo il Guardian un bombardamento ha colpito vicino a una moschea, in quello che il quotidiano britannico definisce un ulteriore segnale dell’escalation. Secondo le Forze di Difesa Israeliane (IDF) e i servizi di intelligence dello Shin Bet l’obiettivo degli israeliani era colpire un centro di comando utilizzato dai militanti palestinesi.
Mercoledì, riporta il Washington Post, poche ore dopo che Israele aveva iniziato il ritiro dei soldati da Jenin, i sistemi di difesa israeliana hanno intercettato il lancio di razzi provenienti da Gaza, a seguito del quale l’aviazione dello Stato ebraico ha bombardato la Striscia, colpendo infrastrutture militari appartenenti ad Hamas. A metà settimana si contavano 12 palestinesi uccisi (dei quali almeno sei teenagers), più di 100 feriti, oltre 130 arresti e un soldato israeliano deceduto (secondo un’indagine preliminare citata da Haaretz a causa del fuoco amico). In risposta all’operazione israeliana, un palestinese ha investito alcune persone a una fermata del bus nella zona settentrionale di Tel Aviv, ferendone otto, prima di venire ucciso da un civile armato presente sul posto. L’attacco è stato rivendicato da Hamas. Venerdì, invece, un soldato israeliano è stato ucciso in un attacco vicino all’insediamento di Kedumim.
Il commento più diffuso sui media internazionali è il paragone con le precedenti operazioni israeliane, e la valutazione unanime è che siamo di fronte alla più grave escalation dai tempi della seconda intifada. Il Washington Post identifica due responsabili di questa spirale di violenza: da un lato il governo israeliano più estremista che ci sia mai stato, dall’altro il «nuovo movimento di militanti palestinesi, alimentato da giovani disillusi che hanno visto le incursioni militari israeliane nelle città della Cisgiordania diventare più lunghe e più letali nell’ultimo anno».
Quali sviluppi attendersi? La previsione di Miri Eisin, ex funzionaria dell’intelligence militare israeliana, è cupa. Jenin presenta nuove sfide securitarie, e potrebbe diventare qualcosa di molto simile a Gaza: «è un’area all’interno della quale non c’è Israele, e non vuole esserci, ma dove, periodicamente, [lo Stato ebraico] necessita di fare qualcosa […] per ridurre i rischi». Mentre a Gaza la riduzione dei rischi è identificata con la riduzione dei lanci di razzi, a Jenin l’obiettivo è interrompere gli attentati che vengono organizzati dai palestinesi. L’operazione israeliana era «nell’aria da mesi» perché i gruppi militanti attivi a Jenin si sono fatti via via più forti e uniti, tanto da dare l’idea di poter controllare il campo profughi, ha scritto la BBC. Inoltre, le continue incursioni israeliane (riassunte in questa timeline), mischiate con la retorica incendiaria del governo di Netanyahu, hanno preparato il terreno per questa operazione.
L’IDF ha diramato comunicati nei quali ha reso noto l’entità dei sequestri di armi realizzati, ma «le vittorie israeliane dopo un’operazione come questa non durano mai molto. I gruppi armati palestinesi riforniscono le loro armerie e il ciclo ricomincia», ha scritto Jeremy Bowen, secondo il quale il vero rischio è che il lungo conflitto tra israeliani e palestinesi scivoli verso una fase ancora più violenta. Del resto, come ha ricordato il Financial Times, il processo di pace è a un punto morto, mentre la presenza nel governo israeliano di politici come Itamar Ben-Gvir o Bezalel Smotrich non fa che peggiorare la situazione. Oltre a essere proprio la pressione dell’ultradestra ad aver spinto Netanyahu ad agire, non manca chi ha già richiesto una piena occupazione di Jenin. Tuttavia Ayman Yousef, professore di scienze politiche all’Università arabo-americana di Jenin, ritiene che un conflitto su scala più ampia non sia nell’interesse né degli israeliani né della leadership palestinese e, soprattutto, che «i gruppi militanti della West Bank non hanno la capacità» di sostenere un conflitto di questo tipo. Ciononostante, il professore ritiene possibile che altri raid come quello appena avvenuto abbiano luogo in altre città della Cisgiordania, come Nablus e Tulkarem. Anche secondo l’Associated Press, nonostante Israele ritenga di aver inferto un duro colpo ai terroristi, non è affatto chiaro quali conseguenze di lungo periodo vi saranno. Al contrario, ciò che è certo è che «l’offensiva ha ulteriormente indebolito l’Autorità Palestinese», partner israeliano nel combattere i militanti. Per Amos Harel l’operazione potrebbe portare alla riduzione temporanea degli attacchi palestinesi (i dubbi sono leciti dato che già giovedì pomeriggio un israeliano è stato ucciso in un attentato) e, forse, al ripristino di una pur limitata deterrenza israeliana. Tuttavia, scrive Harel, «senza uno straccio di orizzonte diplomatico per i palestinesi, la violenza continuerà». Non è chiaro fino in fondo, tuttavia, quale fosse il vero obiettivo dell’azione militare: dipende da chi risponde alla domanda, ha scritto Anshel Pfeffer su Haaretz. L’operazione, infatti, «è essenzialmente un compromesso tra la preferenza dell’IDF a continuare l’attuale strategia di raid su scala relativamente ridotta a Jenin, che generalmente si concludono in poche ore, e le richieste degli elementi di estrema destra del governo di Benjamin Netanyahu per quella che il ministro per la Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir ha descritto come una “operazione militare, che abbatta edifici, stermini terroristi, non uno o due, ma decine e centinaia, se necessario migliaia”».
Questa vicenda, naturalmente, non resta confinata a Israele e Palestina. Mentre nelle piazze del mondo arabo cresce «la rabbia pubblica» per le operazioni israeliane, gli Stati che hanno normalizzato i loro rapporti con Tel Aviv difficilmente faranno seguire alla generica condanna delle azioni di Israele qualche azione concreta, scrive Reuters. Secondo Sanam Vakil (Chatham House), infatti, «Emirati Arabi e Bahrein considerano gli accordi [di Abramo] durevoli e cruciali per i loro più ampi interessi nazionali». Anche Neil Quilliam, sempre da Chatham House, concorda nel dire che, nonostante l’incursione a Jenin, tutto proseguirà «business as usual» nelle relazioni tra i quattro Stati arabi che hanno firmato gli Accordi e Israele. David Hearst (Middle East Eye) ha scritto invece un duro articolo contro i politici britannici, da lui accusati di utilizzare la scusa dell’antisemitismo per nascondere tutte le violazioni dei diritti umani compiute da Israele: il dibattito sorto nel Regno Unito riguardo alla proposta di bandire il movimento per il boicottaggio di Israele è una «parte essenziale della schermatura che Israele usa per continuare il suo progetto di annessione». Lo Stato ebraico, scrivono invece Sean Mathews e Umar A Farooq sempre su MEE, ha di fatto «mano libera»: la reazione dell’amministrazione Biden è stata nulla, ciò che «sottolinea la mancanza di linee rosse [imposte da] Washington di fronte all’escalation della violenza contro i palestinesi». C’è poi il capitolo Unione Europea: secondo Hugh Lovatt (ECFR) Bruxelles dovrebbe condannare le azioni israeliane e fare pressioni su Tel Aviv affinché non proceda con la costruzione di altri insediamenti. Mentre l’UE cerca sostegno nell’opporsi all’invasione russa dell’Ucraina, «opporsi alle violazioni del diritto internazionale da parte di Israele» sarebbe un modo importante «per dimostrare l’impegno nei valori» che si vuole difendere.
Caccia al migrante in Tunisia
Sono giorni di grande tensione a Sfax, in Tunisia, dove è partita una vera e propria caccia al migrante subsahariano. È da Sfax, spiega France24, che partono i migranti diretti verso l’Italia e che generalmente tentano di raggiungere Lampedusa, distante solo 130km. Data la natura irregolare dell’immigrazione, scrive al-Jazeera, è impossibile stabilire il numero preciso di migranti presenti nella città, ma è «indiscutibile» che il loro numero è in aumento.
L’origine dei nuovi scontri risiede nell’accoltellamento subito da un tunisino, poi deceduto, di cui sono accusati tre migranti. L’arresto di un camerunese non ha placato gli animi: a seguito dell’accaduto, gruppi di tunisini hanno iniziato gli assalti ai migranti, tirati fuori con la forza dalle loro case e spinti verso il confine con la Libia. A centinaia, riporta il Financial Times, sarebbero bloccati nel deserto senza cibo, riparo o assistenza medica. Le testimonianze raccolte da Lauren Seibert descrivono una situazione drammatica: il gruppo di migranti «è stato accerchiato dai soldati di entrambi i Paesi [Tunisia e Libia] che gli impedivano di muoversi» verso una o l’altra direzione. Tuttavia, l’ultimo episodio è soltanto la punta dell’iceberg: è da mesi che la «polizia a Sfax «prende provvedimenti arbitrari nei confronti di chiunque abbia la pelle nera», sostiene Seibert. Nel frattempo, nonostante le dichiarazioni di circostanza, la Commissione Europea continua i negoziati per il raggiungimento di un accordo con la Tunisia. La situazione economica del Paese nordafricano è disastrosa e, con «pochi soldi in tasca e una disperata necessità di raggiungere l’Europa, i migranti sub-sahariani si sono dimostrati i clienti ideali per molti locali che vivono lungo il litorale di Sfax, i quali ora si guadagnano da vivere mettendo insieme piccole imbarcazioni a fondo piatto che, si spera, porteranno il loro carico umano in viaggi di sola andata verso l'Europa», si legge su al-Jazeera. Ma più la situazione tunisina si fa difficile, più i migranti diventano un capro espiatorio. Un fenomeno reso possibile proprio dalla retorica razzista divulgata dal presidente Kais Saied.
Gioco di squadra russo-saudita
«È piuttosto indicativo vederci uscire lunedì non solo con l’estensione dei tagli alla [produzione di] petrolio, ma anche con la convalida da parte dei russi» di questa politica. Si è espresso così il principe Abdulaziz bin Salman Al-Saud, ministro dell’Energia dell’Arabia Saudita, in seguito alla decisione raggiunta dall’OPEC+ di tagliare ulteriormente la produzione di petrolio, nel tentativo di generare un rialzo dei prezzi. Sono le stesse dichiarazioni di Abdulaziz bin Salman a dimostrare che nelle scelte di politica energetica saudita pesano sempre due fattori: quello economico («faremo qualsiasi cosa necessaria» per sostenere il mercato, ha detto il principe) ma anche quello politico, evidenziato dalla scelta di voler sottolineare la comune azione con la Federazione russa. Se politicamente il messaggio non può essere più chiaro, dal punto di vista del sostegno ai prezzi del greggio le cose non vanno come sperato. Il prezzo, infatti, è aumentato pochissimo, e secondo gli analisti di Eurasia Group, i tagli alla produzione «faranno poco per modificare il sentimento ribassista presente in un mercato consumato dal pessimismo riguardo le prospettive di crescita della domanda di petrolio nella seconda metà dell’anno».
Intanto l’Arabia Saudita, dopo gli enormi investimenti nel calcio e nel golf, sta pianificando di lanciare una nuova compagnia di investimento multimiliardaria per espandere ulteriormente i propri interessi nel mondo dello sport, secondo quanto riportano Samer Al-Atrush e Samuel Agini sul Financial Times. La nuova compagine farà parte della galassia del fondo sovrano saudita, PIF, e sarà dotata della cassa necessaria per espandersi: un segno, si legge sul quotidiano economico britannico, che Riyad è intenzionata a procedere con ulteriori acquisizioni nel mondo sportivo.
In breve
La ricercatrice russo-israeliana Elizabeth Tsurkov, dottoranda a Princeton e fellow al New Lines Institute for Strategy and Policy, è stata rapita in Iraq dalla milizia sciita Kataib Hezbollah (The New York Times).
Turchia ed Egitto hanno nominato i rispettivi ambasciatori, in un ulteriore segno del riavvicinamento tra i due Paesi. Le relazioni si erano deteriorate in particolare dopo il colpo di Stato che ha portato al potere al-Sisi (Financial Times).
Il Segretario Generale dell’ONU ha fatto sapere di augurarsi che il Consiglio di Sicurezza si esprima favorevolmente riguardo alla possibilità di tenere aperto il passaggio di frontiera che dalla Turchia permette di recapitare aiuti alla zona di Idlib in Siria (Associated Press).