Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 17:19:08

Uomini, donne, anziani e bambini uccisi da Hamas, che ha anche preso un numero imprecisato di ostaggi. In risposta, bombardamenti e un assedio totale a cui si aggiungerà, con ogni probabilità, un’offensiva via terra su Gaza che a sua volta ha già provocato numerose vittime. L’attacco di Hamas a Israele, avvenuto sabato scorso, è stato scioccante sia per come sia è svolto che per i danni che ha provocato. Ma purtroppo è soltanto l’inizio di un nuovo ciclo di violenza. Molto si è detto e scritto in questi giorni. In questo focus cerchiamo di riassumere e presentare alcune delle interpretazioni emerse e inquadrare gli eventi in un’ottica regionale e internazionale.

 

L’offensiva del gruppo islamista non si è infatti limitata al lancio di un numero senza precedenti di razzi verso lo Stato ebraico: più di mille miliziani sono entrati in territorio israeliano, dove hanno ucciso oltre mille persone, inclusi donne e bambini, e rapito un numero ancora imprecisato di ostaggi, portati con la forza all’interno della Striscia di Gaza. La reazione d’Israele, come previsto, è stata (e sarà) durissima, probabilmente senza precedenti: dopo aver ripreso il controllo dei confini con la Striscia e aver iniziato pesanti bombardamenti, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) si preparano alla probabile offensiva di terra, che si prospetta sanguinosissima. Al momento in cui scriviamo, sono già più di mille anche i morti palestinesi. Oltre al probabile assalto via terra, Israele ha imposto un assedio totale a Gaza, tagliando l’accesso a elettricità, gas, acqua e cibo. Come ha scritto al-Jazeera, emittente storicamente vicina alla causa palestinese, per Gaza è una catastrofe umanitaria: a causa dell’assedio, anche gli ospedali – sovraffollati per via dei bombardamenti – esauriranno in breve tempo il carburante necessario ad alimentare i propri generatori. Vi è poi l’incognita del fronte nord, dove finora ci sono stati bombardamenti e scontri con Hezbollah e il regime siriano che, però, non sono ancora degenerati in un conflitto aperto. Il rischio, tuttavia, è che ciò avvenga.

 

In seguito ai brutali attacchi, si sono subito avanzati parallelismi con la guerra dello Yom Kippur, di cui ricorrono i 50 anni proprio in questi giorni. Tuttavia, come ha osservato Michael Oren su The Atlantic, sono molte di più le differenze che le somiglianze tra gli eventi di allora e quelli di oggi. Secondo lo storico e diplomatico israeliano, ad accomunare i due momenti è la loro «tragica prevedibilità»: «ben prima dell’ottobre 1973, i leader di Egitto e Siria avevano dichiarato la loro determinazione a riprendere i territori persi nel 1967 […]. Ma i leader israeliani ignorarono catastroficamente questi avvertimenti […]. Allo stesso modo, prima dell’assalto di sabato, i capi di Hamas hanno trasmesso regolarmente il loro impegno ideologico e teologico per la distruzione di Israele. Si sono ripetutamente vantati dei preparativi per una grande offensiva. Ma come i loro predecessori nel 1973, gli attuali leader israeliani si sono cullati nel pensiero che Hamas e la Jihad islamica fossero scoraggiati [ad agire] dalla schiacciante potenza di fuoco, dalle competenze tecnologiche delle IDF, e che fossero meno interessati alla guerra che a migliorare la qualità della vita degli abitanti di Gaza». Un’opinione simile è quella espressa su Le Monde dall’ex ambasciatore israeliano in Francia, Elie Barnavi, secondo il quale i politici israeliani si cullavano nella «stessa arrogante “concezione” – non oseranno, sanno chi siamo, hanno [Hamas, ndr] tutto da perdere e niente da guadagnare». Ma a questa posizione, commenta Barnavi, è seguita «la stessa dolorosa sorpresa, gli stessi fallimenti iniziali...In un certo senso, oggi è ancora più umiliante» che nel 1973. Ciò che è avvenuto, dunque, è un enorme fallimento delle forze di sicurezza e di intelligence israeliane. L’attacco, infatti, è stato sì sorprendente, ma era anche «prevedibile», secondo Barnavi. Perché – ha scritto l’ex ambasciatore – i fatti di questi giorni non sono «un decreto del cielo. Sono la risultante della congiunzione di due fattori: un’organizzazione islamista fanatica il cui obiettivo dichiarato è la distruzione di Israele, e una politica israeliana imbecille a cui i governi che si sono succeduti si sono aggrappati, e che l’attuale ha portato a compimento».

 

L’attacco di Hamas, e il fallimento israeliano nel contenerlo, «probabilmente faranno poco per far regredire l’assedio posto da Israele alla Striscia, che anzi sarà sicuramente rafforzato con persino maggiore crudeltà», ha scritto Amjad Iraqi sul sito della London Review of Books. Eppure, si tratta indubbiamente di uno spartiacque. Come ha infatti argomentato Iraqi, le atrocità di questi giorni «frantumano una barriera psicologica […]: dalla fine della Seconda Intifada, e specialmente sotto Netanyahu, la società israeliana ha cercato di isolarsi dall’occupazione militare che ha imposto per oltre mezzo secolo, mantenendo una bolla che solo occasionalmente veniva forata dal lancio di razzi o da scontri a fuoco nelle città del sud e del centro di Israele». Persino il movimento di protesta contro la riforma della giustizia proposta dal governo Netanyahu ha «coscientemente tenuto la questione palestinese fuori dalla sua agenda» e la maggior parte degli israeliani, ha scritto Iraqi, resta aggrappato «all’illusione» che l’attuale sistema possa «garantire la sicurezza degli israeliani e restare compatibile con la loro pretesa di democrazia. Quella bolla è irreparabilmente scoppiata». Quest’ennesima tragedia va a sommarsi alle già profondissime ferite dei due popoli: nel DNA degli israeliani, ha scritto Arwa Damon su New Lines Magazine, è scolpito il trauma dell’Olocausto, che viene ravvivato dalle «immagini agghiaccianti delle persone che partecipavano al rave, uccise con armi da fuoco, dei civili, giovani e anziani, presi in ostaggio»; dall’altro lato, «nel DNA dei palestinesi ci sono le storie dell’allontanamento forzato dalla loro patria, del costante abbandono da parte delle Nazioni arabe, [le storie di persone] i cui diritti sono erosi ogni giorno nella completa impunità». Ora, un nuovo tragico capitolo, per entrambi: temo, ha scritto Damon, «che il trauma di questi giorni, come i traumi del passato, finiranno incastonati nel DNA delle future generazioni».

 

Ma oltre al cambiamento di percezione psicologica di cui parla Iraqi, non è chiaro come l’attacco di Hamas possa cambiare gli equilibri di potere, e anzi probabilmente non lo farà. Qui emerge anche un’altra differenza con la guerra dello Yom Kippur: allora l’azione combinata di eserciti regolari come quelli di Egitto e Siria poteva davvero portare una minaccia esistenziale allo Stato di Israele. Oggi, forte anche del rinnovato sostegno garantito dal presidente americano Joe Biden, è molto difficile che ciò possa avvenire, nonostante non manchi chi afferma il contrario. D’altronde, nemmeno si capisce quale sia veramente l’obiettivo di Hamas (Abdel-Latif al-Qanoua, portavoce del movimento ha parlato di liberare prigionieri detenuti da Israele e porre fine alle provocazioni ad al-Aqsa). «Per me è difficile – ha detto Thanassis Cambanis (The Century Foundation) – indossare il cappello da analista e capire perché Hamas consideri [queste azioni] nel suo interesse, perché sicuramente sarà terribile per loro e per tutti gli abitanti di Gaza e probabilmente anche della Cisgiordania. [I fatti di questi giorni] sfidano in qualche modo i miei 20 anni di comprensione del modo di operare di Hamas».

 

Gli obiettivi di Hamas [a cura di Francesco Pessi]

 

Cosa vuole ottenere Hamas? Il giornale libanese L’Orient Le Jour ha tentato di spiegare gli obiettivi di medio termine del gruppo islamista, sintetizzabili in due risultati. Il primo è la delegittimazione definitiva dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) sul fronte interno, la cui credibilità è in crisi da ormai oltre un decennio, ma che rischia ora di perdere qualsiasi ruolo in uno scenario totalmente dominato da Hamas. Il secondo è l’imposizione di condizioni a Israele attraverso la diplomazia degli ostaggi (tutelati a qualsiasi prezzo dallo Stato ebraico), per ottenere la liberazione dei palestinesi condannati per terrorismo e l’autonomia politica di Gaza. Quest’ultima opzione è però difficilmente praticabile data l’efferatezza di Hamas stesso che, come riporta l’Economist, ha macabramente annunciato che ogni bombardamento israeliano che non sia preceduto da un avviso ai civili palestinesi, porterà all’esecuzione di un ostaggio. Sempre il settimanale britannico invita a guardare oltre alla iniziale vittoria di Hamas. Nel lungo periodo, i terroristi puntano alla riproposizione della questione palestinese in grande stile, ciò che, nella loro visione, passa da tante morti da entrambe le parti. Si può parlare dunque più di una tattica autodistruttiva che di una strategia politica.

 

Su The Atlantic, Bruce Hoffman afferma che questo  massimalismo è testimoniato dai quattro pilastri del documento fondativo di Hamas, che l’esperto di terrorismo paragona esplicitamente al Mein Kampf hitleriano. Dai trentasei articoli che compongono il testo si evince infatti che gli obiettivi del gruppo islamista sono l’eliminazione degli israeliani attraverso il jihad, e la successiva istituzione di uno Stato Islamico. L’intero documento è pervaso di teorie del complotto e di esplicito antisemitismo. Il nuovo documento fondativo, pubblicato da Hamas nel 2017, pur smorzando i toni del confronto (per esempio, ha eliminato riferimenti diretti all’antisemitismo omettendo il famoso “Protocollo dei Savi di Sion”), ha comunque ribadito l’ambizione alla distruzione totale di Israele e il rifiuto di qualsiasi tipo di accordo politico.

 

 All’indomani degli attacchi anche il Washington Post ha ricordato la natura intransigente del movimento di Hamas, la sua nascita da una costola della Fratellanza Musulmana nel 1987, l’esautorazione di Fatah dalla rappresentanza politica nella Striscia nel 2006 e la conseguente fine di una prospettiva “laica”. Le Monde ha tentato a sua volta di approfondire la descrizione di Hamas tracciando la biografia di Mohammed Deif architetto e leader delle brigate al-Qassam, braccio militare dell’organizzazione islamista. Soprannominato “l’ospite” (“deif”) a causa della sua residenza sempre mobile, l’ascesa di Deif è il risultato congiunto del suo carisma, della capacità di sfuggire sistematicamente alla cattura e della notevole pazienza che ha dimostrato nel lunghissimo periodo della sua vita trascorso sotto i cunicoli di Gaza. Un «gatto a nove vite», come lo ha definito Le Monde, ritornato sotto i riflettori dopo che, nel 2014, le IDF gli avevano ucciso una moglie e due figli. Il 7 ottobre è comparso per annunciare l’operazione “Diluvio di al-Aqsa”, mentre «centinaia dei suoi combattenti avevano appena invaso via aria, terra e mare le località israeliane». Subito dopo, «l’uomo ombra» è scomparso di nuovo.

 

Quanto è coinvolto l’Iran?

 

Subito dopo l’attacco di Hamas a Israele, un articolo del Wall Street Journal ha accusato l’Iran di aver svolto un ruolo di primo piano nella pianificazione dell’offensiva di sabato scorso. Via via, però, sono emersi i dubbi: il New York Times ha pubblicato una ricostruzione secondo la quale i vertici della Repubblica Islamica sono stati «sorpresi» dalle mosse di Hamas, mentre «gli Stati Uniti, Israele e gli alleati chiave regionali non hanno trovato prove secondo cui l’Iran avrebbe direttamente aiutato a pianificare l’attacco». La stessa guida suprema iraniana, Ali Khamenei, ha negato il coinvolgimento iraniano, pur dichiarando apertamente di condividere le azioni di Hamas. Ciò non toglie che l’operazione “Diluvio di al-Aqsa” generi almeno due risultati significativi per l’Iran. Da un lato, se non rende impossibile, quanto meno ostacola lo sforzo di normalizzazione tra Israele e il mondo arabo, il cui frutto più prossimo sembrava essere l’intesa tra Gerusalemme e Riyadh. Dall’altro, il risorgente ruolo di Hamas amplia la portata dei negoziati sul programma nucleare iraniano: sarà difficile per chiunque trattare questo dossier separatamente del ruolo destabilizzante che Teheran svolge nell’area.  Intanto, però, i leader di Iran e Arabia Saudita si sono ritrovati uniti nel «condannare i crimini di guerra contro la Palestina».

 

Al di là della partecipazione diretta, secondo Michael Young (Carnegie Middle East Center), non solo Teheran ha agito per interrompere il processo di normalizzazione tra Israele e Paesi arabi e riaffermarsi come arbitro delle sorti regionali, ma lo ha fatto pienamente consapevole che difficilmente tale intervento avrebbe migliorato le sorti palestinesi.

 

Un articolo dell’Arab Gulf States Institute in Washington a firma Ali Alfoneh riassume i termini del dibattito sul coinvolgimento di Teheran nell’operazione di Hamas. Alfoneh ha sottolineato la smentita dei governi israeliano e americano riguardo a presunte prove del coinvolgimento della Repubblica Islamica, ma al tempo stesso è convinto che gli iraniani fossero quanto meno al corrente dei piani d’attacco. Peraltro, nota Alfoneh, se gli israeliani preferiscono delegare agli Stati Uniti qualsiasi strategia di attacco all’Iran, l’amministrazione Biden ha ancor meno interesse in qualsiasi tipo di conflitto con Teheran.

 

Anche al-Jazeera annovera il ritrovato sodalizio tra Hamas e il regime di Teheran, dopo la rottura causata dal conflitto siriano, come un fattore chiave nella regia degli attacchi. In particolare, la mediazione di Hassan Nasrallah, che ha fatto da spola tra Beirut e Damasco per sanare la ferita siriana e riunire le parti, continua a essere determinante per la coesione del fronte della Resistenza (Hamas-Hezbollah-Siria-Iran). La paventata apertura di un fronte settentrionale è infatti uno dei principali vincoli a un’eventuale invasione via terra di Gaza da parte di Israele.

 

Hezbollah e il fronte libanese

 

L’ombra dell’Iran chiama direttamente in causa il possibile ruolo di Hezbollah. Ancora sulle colonne di L’Orient Le Jour, Mounir Rabih ha stilato gli scenari possibili sul fronte settentrionale di Israele. L’articolo chiarisce che l’allargamento del fronte al Libano dipende da due condizioni. La prima è l’entità della reazione di Israele: se si arrivasse al worst case scenario, ovvero all’invasione via terra di Gaza (che sembra imminente mentre scriviamo), il Partito d Dio dovrebbe intervenire. In tutti gli altri casi (bombardamenti strategici, assedio) Nasrallah, vertice dell’organizzazione e ormai parte integrante dell’establishment iraniano, dovrebbe valutare molto attentamente le sue mosse. Secondo Rabih c’è un secondo aspetto da considerare. Il potenziale bellico di Hezbollah è ben superiore al 2006, la sua influenza militare sulla regione altrettanto notevole, le sue milizie, stanziate ai quattro angoli dello scacchiere mediorientale, sono capaci di destabilizzare l’intera area. Il problema però è che un’offensiva del Partito di Dio sul fronte settentrionale finirebbe inevitabilmente per portare il conflitto sul suolo libanese, con conseguenti scenari «apocalittici» di cui sia la popolazione sia Hezbollah stesso hanno memoria sin troppo fresca.

 

In sostanza, scrive Rabih, Hezbollah può fare molto male a Israele e al Libano stesso, ma senza dubbio anche il partito-milizia sciita rischia di perdere moltissimo.

 

Lo stesso giornale, riportando le dichiarazioni di quadri delle brigate Qods iraniane, di Hamas, del Jihad Islamico e di Hezbollah, sostiene tra l’altro che probabilmente Beirut è stata la sede della pianificazione degli attacchi del 7 ottobre. Secondo la testata libanese, il grande successo di Hezbollah finora è consistito nel distrarre l’attenzione securitaria israeliana da Gaza verso Nord. L’operazione “Megiddo” (una simulazione oltreconfine per accertare lo stato dell’arte della difesa israeliana) e la dimostrazione militare nel villaggio di Araamta nel sud del Libano nello scorso marzo, pur prive di impatto militare, hanno avuto, all’indomani degli attacchi, grande valore strategico. Entrambe, infatti, sono servite a far temere alle IDF che l’attacco sarebbe giunto da nord, con conseguente abbassamento della guardia su Gaza, ritenuta meno pericolosa.

 

Il gruppo guidato da Nasrallah adesso attende «l’incendio» cisgiordano (finora non verificatosi) o l’invasione via terra di Gaza, limitandosi per il momento ad azioni di disturbo (sono già stati evacuati alcuni villaggi israeliani sul confine). Il fronte libanese rimane altamente imprevedibile: all’uscita della nostra rassegna, le autorità militari libanesi avevano individuato le posizioni da cui mercoledì la milizia sciita avrebbe lanciato due razzi in territorio israeliano. Bombardati alcuni villaggi in risposta, le Israel Defense Forces (IDF) non hanno per il momento annunciato un’offensiva;  sul fronte settentrionale, secondo Haaretz, non è (ancora) guerra.

 

Il fronte interno israeliano

 

C’è poi naturalmente il fronte interno a Israele. Una parte della stampa israeliana, soprattutto il quotidiano Haaretz, ha subito puntato il dito contro l’esecutivo in carica.

 

Al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sono rivolte in particolare due accuse. La prima è quella di aver esacerbato il rancore palestinese, nella convinzione che reprimendo le richieste palestinesi si sarebbe giunti all’ accettazione dello status quo. Al contrario, l’estrema violenza praticata da Hamas e la sua strategia sarebbe anche l’esito dell’esacerbazione degli stati d’animo nella Striscia. Secondo Dmitry Shumsky (Haaretz), l’ascesa militare e politica di Hamas va imputata a Netanyahu stesso. A partire dal 2009 il premier israeliano avrebbe formulato una dottrina che, se da un lato identificava in Hamas il nemico pubblico numero uno, dall’altro ne consentiva il finanziamento da parte del Qatar (circa un miliardo di dollari sarebbe stato trasferito alla Striscia tra il 2012 e il 2018). Netanyahu avrebbe «giocato sulla pelle dei propri concittadini» una fatale scommessa: che la faida tra Gaza e Cisgiordania, fomentata dall’ascesa del movimento islamista e dalla conseguente delegittimazione dell’ANP, avrebbe portato al definitivo tramonto della soluzione dei due Stati per l’assenza di un interlocutore credibile con cui discuterla.

 

La seconda accusa è di carattere sia politico che tecnico. In un efficacie parallelo con la vicendadel 1973, Foreign Policy sostiene che la falla strategica che ha consentito l’attacco (lo spostamento delle truppe in Cisgiordania e la sottovalutazione del fronte di Gaza) è frutto di una esuberanza politica che ha finito per trascurare lavoro dell’intelligence umana, affidandosi al monitoraggio tecnologico più che a una attenta analisi dei fattori sul campo. Una situazione aggravata dalla negligenza dei vertici militari che, come riportato da Axios, hanno ignorato segnali di attività inusuali da parte di Hamas a Gaza giunti nella notte precedente all’aggressione. Fino a sabato, infatti, sia al governo che tra i vertici delle IDF dominava l’ottusa convinzione che l’isolamento di Gaza, la netta superiorità tecnica israeliana e la politica del divide et impera portata avanti da Netanyahu fossero garanzie sufficienti nei confronti di qualsiasi attacco a sud-ovest. Secondo un’inchiesta condotta dal Jerusalem Post, i cittadini israeliani sono tuttavia pienamente coscienti delle responsabilità della politica, anche se ciò difficilmente costerà a Netanyahu una perdita immediata dell’incarico. 

 

Sulle colonne di Haaretz, Anshel Pfeffer s’interroga invece sui prossimi sviluppi. Nel «portare la guerra dentro Gaza» l’esecutivo (che da mercoledì è costituito da un gabinetto di guerra in seguito all’accordo con il leader dell’opposizione Benny Gantz) si trova davanti a tre sfide. La prima: chiarire qual è l’obiettivo militare della controffensiva. La violenza delle parole che hanno fatto seguito agli attacchi, comprensibile dal punto di vista emotivo, deve essere incanalata in una chiara direzione onde evitare inutili spargimenti di sangue e una reazione negativa dell’opinione pubblica mondiale, al momento solidale con Israele. La seconda sfida consiste nello scongiurare, moderando la propria rappresaglia, l’apertura di un secondo fronte in Libano, Cisgiordania o, eventualmente, nelle città israeliane a composizione etnica mista. In terzo luogo, è necessario secondo Pfeffer ricomporre la faida politica interna all’esecutivo di emergenza, marginalizzando Ben Gvir. Occorre infine evitare che il calcolo politico di un Netanyahu, probabilmente alla fine della sua carriera politica, prolunghi ulteriormente le sorti della guerra.

 

Un fattore determinante in senso strategico è la questione degli ostaggi. Al-Monitor, intervistando Mick Mulroy e Zohar Palti, rispettivamente ex-funzionario del Pentagono ed ex-capo del Mossad, sottolinea che il salvataggio degli ostaggi nella Gaza sotterranea (chilometri di tunnel corrono sotto la Striscia) è «tra tutte le operazioni di combattimento, la più difficile». Ed è proprio lungo tale fronte di intelligence che gli Stati Uniti metteranno a disposizione le proprie competenze (CIA inclusa), contando in parallelo sulla mediazione di Qatar ed Egitto (per il momento infruttuosa).


 

Gli USA reiterano il sostegno a Israele. Che fa l’Arabia Saudita? [a cura di Claudio Fontana]

 

Il salto di qualità nel conflitto tra israeliani e palestinesi ha naturalmente conseguenze a livello regionale, mentre tutti i principali attori internazionali hanno preso una posizione al riguardo. Ma soprattutto, questa nuova ondata di violenze pone un grosso punto interrogativo sulla tenuta degli Accordi di Abramo e sull’effettiva convenienza, per i Paesi arabi, di avere relazioni formali con Israele. Inoltre, oggi ancora più attenzione è prestata all’Arabia Saudita, che sarebbe stata in procinto di normalizzare i rapporti con lo Stato ebraico, su spinta dell’amministrazione Biden. Lo stesso principe ereditario saudita aveva dichiarato durante l’intervista a Fox News del 20 settembre che ogni giorno che passa avvicina Israele e Arabia Saudita. In questi giorni, tuttavia, la lettura unanime è che la guerra abbia bloccato questo processo diplomatico, almeno nel breve periodo.

 

Se da un lato, fa notare Kristian Coates Ulrichsen, la questione palestinese è una delle poche sulle quali ancora si può intravedere qualche piccolo segno di discontinuità all’interno della famiglia reale saudita, dall’altro i comunicati emessi da Riyad hanno utilizzato un lessico piuttosto inequivocabile, parlando per esempio di «forze di occupazione israeliane» a cui si contrappongono «un numero di fazioni palestinesi». Riyad, dunque, ha evitato l’esplicito riferimento ad Hamas, di cui comunque non condivide l’ideologia e che, non a caso, sui suoi media viene contrapposto alle forze che nella regione cercano soluzioni pacifiche alle crisi. La posizione filopalestinese dei sauditi sembra rafforzata dal fatto che il principe ereditario Mohammed Bin Salman ha avuto un colloquio con il presidente della Repubblica iraniana Ebrahim Raisi, durante la quale MbS ha «espresso profonda preoccupazione per la tragica situazione umanitaria a Gaza e sottolineato la posizione incrollabile del Regno nel sostenere la causa palestinese». Raisi e MbS hanno anche sottolineato la necessità di «porre fine ai crimini di guerra contro la Palestina».

 

I leader dei Paesi del Golfo temono l’escalation e il potenziale allargamento del conflitto. È per questo che il ministro degli Esteri emiratino ha avuto una telefonata con l’omologo iraniano, nella quale sono stati evidenziati «i pericoli della continua escalation». Come ha ricordato Ulrichsen, anche il ministro degli Esteri saudita ha sottolineato la necessità di un «piano di azione comune» per impedire l’escalation e l’ampliamento del conflitto. Una direzione condivisa da Emirati, Qatar ed Egitto e un obiettivo funzionale ai piani di Riyad: «la leadership saudita potrebbe cercare di posizionare il Regno al cuore della risposta diplomatica regionale alla crisi in corso a Gaza. Ciò sarebbe coerente con l’enfasi posta dal 2021 nel ritrarre Mohammed bin Salman come uno statista, e con la centralità dell’Arabia Saudita nell’affrontare le questioni regionali e internazionali» evidenziata anche dai colloqui sull’Ucraina svoltisi a Gedda. L’Arabia Saudita, ha proseguito Ulrichsen, ha bisogno di raffreddare ogni situazione di crisi, che altrimenti potrebbe danneggiare lo sviluppo economico interno, basato in larga parte sull’afflusso di milioni di stranieri nel Paese. Una preoccupazione simile, anche se su scala minore, è quella degli Emirati Arabi Uniti che temono per lo svolgimento della COP28, programmata a Dubai per il 30 novembre.

 

È anche con questa chiave di lettura che è possibile leggere la decisione saudita dello scorso marzo di riallacciare i rapporti con l’Iran. Al tempo stesso, però, il ruolo dell’Iran nel sostenere Hamas e l’interesse di Teheran a sabotare la normalizzazione tra il Regno saudita e Israele, mostrano anche tutti i limiti e le incognite dell’accordo mediato dalla Cina.

 

Ad ogni modo, secondo il Times of Israel la posizione dei Paesi che hanno firmato gli Accordi di Abramo si farà via via più complicata a causa di un’opinione pubblica araba fortemente filo-palestinese. Da questo punto di vista, è la posizione emiratina a distinguersi per una presa di posizione che condanna esplicitamente le azioni di Hamas e che sembra puntare in maniera più chiara il dito contro il gruppo terrorista palestinese. I timori per un allargamento della guerra hanno peraltro spinto Abu Dhabi a lanciare un monito alla Siria di Bashar Assad a non intromettersi nel conflitto, e a non permettere che il territorio siriano sia utilizzato per portare attacchi a Israele (intanto per l’ennesima volta Israele ha bombardato gli aeroporti di Damasco e Aleppo). Un messaggio simile è giunto da Stati Uniti, Francia, Germania, Italia e Regno Unito, che hanno intimato ogni attore esterno a non sfruttare a proprio favore ciò che sta avvenendo in Palestina.

 

Intanto però Netanyahu ha incassato il sostegno americano, meno scontato del solito vista la freddezza dei rapporti tra la leadership democratica e il governo di estrema destra israeliano. Il presidente Joe Biden ha pronunciato un deciso discorso a sostegno di Israele e ha inviato la portaerei Ford nella regione per «rendere molto chiaro il nostro intento di dissuadere chiunque stia pensando di compiere un’ulteriore aggressione contro Israele», come ha affermato il Segretario di Stato Antony Blinken nel corso di una conferenza stampa congiunta con il premier Netanyahu. Al tempo stesso Blinken ha provato anche a mettere un freno alla rappresaglia israeliana: «Israele ha il diritto, anzi l’obbligo, di difendersi [ma] il modo in cui Israele lo fa è importante. Noi democrazie ci distinguiamo dai terroristi perché cerchiamo di raggiungere uno standard diverso. Ecco perché è così importante prendere tutte le precauzioni possibili per evitare di colpire i civili». Un appello che al momento Israele ha ignorato. Nel frattempo Washington, d’accordo con Doha, ha nuovamente bloccato i 6 miliardi di dollari che erano stati scongelati nell’ambito dell’accordo per la liberazione di prigionieri americani detenuti dall’Iran. Una ritorsione per i legami tra l’Iran e Hamas.

 

Anche l’Unione Europea ha preso posizione a sostegno dello Stato ebraico, ma – spiace dirlo – come al solito in maniera confusionaria. A Ursula von der Leyen (e attraverso di lei all’intero Occidente) è stato rimproverato il solito doppio standard: perché la presidente della Commissione non ha condannato l’assedio di Israele nei confronti di Gaza (con la dichiarata intenzione di lasciare la Striscia senza acqua, cibo, medicinali, energia elettrica, gas) come aveva fatto quando la Russia bombardava le infrastrutture civili ucraine? Un caso politico è stato poi sollevato dalle dichiarazioni del Commissario per il vicinato e l’allargamento, l’ungherese Oliver Varhelyi, che aveva reso noto che la Commissione avrebbe sospeso i pagamenti nei confronti dei palestinesi e sottoposto a revisione tutti i progetti di cooperazione presenti e futuri. Una posizione che non solo è stata poi rettificata, ma che presupporrebbe che i fondi dell’Unione Europea siano indirizzati ad Hamas, e non all’Autorità Palestinese. Infatti, come ha scritto il giornalista Martin Konečný, «sospendere l’aiuto dell’Unione Europea non punirebbe Hamas, che non riceve fondi dall’UE. Punirebbe soltanto l’Autorità Palestinese, cioè i rivali di Hamas, UNRWA [l’agenzia ONU di sostegno a profughi e rifugiati palestinesi] e la popolazione civile. Sarebbe controproducente e si tratterebbe di punizione collettiva». Una posizione su cui ha convenuto anche Joseph Borrell: «la sospensione dei pagamenti – ciò che punisce l’intero popolo palestinese – avrebbe danneggiato gli interessi dell’UE nella regione e avrebbe solamente incoraggiato i terroristi».

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