Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:45:45

A dispetto delle piccole dimensioni del Paese, la ricchezza energetica ha accresciuto significativamente il ruolo nella politica globale del Qatar. Ora, la guerra in Ucraina ha fatto sì che l’influenza di Doha sul mercato internazionale dell’energia sia ulteriormente aumentata. Il mondo occidentale è infatti alla ricerca di fonti alternative al gas russo e il Qatar ha tutto da guadagnare da questa situazione. L’Emirato ha in programma lo sviluppo del progetto North Field East, che dovrebbe aumentare la produzione di LNG qatarino dalle attuali 77 milioni di tonnellate all’anno a 110 entro il 2027, ciò che farebbe guadagnare a questa piccola nazione il secondo posto, dietro soltanto agli Stati Uniti, tra i Paesi esportatori di gas. Secondo quanto riportato dal Financial Times l’intenzione di Doha sarebbe quella di dividere le esportazioni da North Field East grossomodo a metà tra l’Asia e l’Europa.

 

Questa settimana Shell, che ha dovuto fare un passo indietro e rinunciare al suo enorme investimento nel progetto LNG russo Sakhalin-2, si è aggiunta a Eni, Total, ExxonMobil e ConocoPhillips, nella joint venture per lo sviluppo del progetto North Field East. Shell ha acquistato il 6,25% delle quote del progetto, segno dell’interesse europeo e occidentale nello sviluppo e nello sfruttamento del giacimento che il Qatar condivide con l’Iran. Secondo quanto scritto da Wayne C. Ackerman (Middle East Institute), anche due società cinesi sono interessate ad acquistare quote minori nel progetto per garantire a Pechino un’ulteriore fonte di approvvigionamento nel medio-lungo periodo.

 

Mentre la situazione economica in Qatar, grazie alle sue risorse energetiche, volge al meglio, un sondaggio effettuato da BBC Arabic e Arab Barometer permette di cogliere l’orientamento dei cittadini arabi riguardo al rapporto tra economia e sistema politico. In particolare, i risultati delle 23.000 interviste realizzate indicano chiaramente che in ciascuno dei Paesi analizzati (Iraq, Tunisia, Libia, Giordania, Mauritania, Libano, Egitto, Marocco, Sudan e Territori Palestinesi) un’ampia maggioranza di persone associa il sistema di governo democratico a un’economia debole. Inoltre, in tutti i Paesi oggetto d’indagine, tranne il Marocco, la maggioranza ritiene che sia necessario un uomo forte al governo. I risultati sono naturalmente influenzati dal caotico decennio seguito allo scoppio delle primavere arabe e probabilmente dal confronto con la ricchezza dei Paesi arabi del Golfo, governati in maniera tutt’altro che democratica. Ma la maggiore prosperità di queste monarchie non deriva certo da una forma di governo che favorisce l’economia, quanto piuttosto dalle ricchezze naturali di cui questi Paesi godono. In Arabia Saudita, in particolare, sono le rendite petrolifere, confluite nel corso degli anni nel Public Investment Fund (PIF) a rendere possibili le riforme che il principe ereditario Muhammad bin Salman intende portare avanti. Il PIF, ha scritto Bloomberg, «sta trasformando l’economia [saudita] con la sua versione di capitalismo di Stato». Il fondo sovrano saudita ha già creato 54 nuove società in ambiti che vanno dal real estate alle crociere di lusso, e grazie a esso il principe ereditario sta riuscendo a ridimensionare l’influenza del ministero delle Finanze, di quello dell’Economia e persino della Banca Centrale.

 

In alcuni casi, i Paesi ricchi di petrolio, che beneficiano dell’aumento dei prezzi energetici, tentano di difendere i propri cittadini dall’inflazione. Gli Emirati Arabi Uniti hanno annunciato l’allocazione di 7,6 miliardi di dollari destinati al sostegno economico delle famiglie a basso reddito, mentre l’Arabia Saudita ha annunciato che 5,33 miliardi di dollari saranno destinati all’accumulo di materie prime e a trasferimenti diretti di denaro verso la popolazione. Secondo la ricercatrice Karen Young questi due annunci sono il segnale di quali enormi somme stiano incassando le petromonarchie grazie alle vendite di idrocarburi a questi prezzi. Ciò rende necessario «fare qualche tipo di concessione» alla popolazione e mostrare che il governo è disponibile spendere una parte di ciò che guadagna per i cittadini che ne hanno bisogno.

 

Nel vicino Kuwait le cose non vanno invece per il verso giusto. Durante la pandemia, il governo ha imposto un tetto ai prezzi dei beni alimentari (per la gran parte importati dall’estero) e ora, a distanza di due anni, le conseguenze si fanno sentire: diversi fornitori hanno abbandonato il mercato, ciò che sta provocando la carenza di alcuni beni. Uno dei beni che è più difficile trovare è la carne di pollo, mentre nelle prossime settimane potrebbe mancare lo zucchero.

 

Allontanandoci dal mondo arabo ricco di petrolio, una delle situazioni peggiori si verifica in Turchia. In questi giorni è stato pubblicato il nuovo dato sull’inflazione nel mese di giugno che, rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, fa segnare un aumento dei prezzi del 78,6%. Il dato è spinto verso l’alto in particolare dagli aumenti dei beni alimentari, il cui prezzo è raddoppiato, e dei trasporti, che stando a quanto riportato dall’Istituto Statistico Turco, fa segnare un +123%. Come hanno scritto Anna Cooban e Isil Sariyuce su CNN Business la Turchia è influenzata dallo stesso scenario inflazionistico globale a cui sono sottoposti tutti i Paesi, ma qui la situazione è peggiorata dalle politiche economiche eterodosse del presidente Erdoğan, che hanno anche portato la lira a perdere il 20% del suo valore nei confronti del dollaro. Minacciando multe salatissime, le autorità turche si rivolgono ai produttori di beni alimentari intimandoli di ridurre i prezzi. È il caso di quanto sta avvenendo in questi giorni con i produttori di uova, come ha documentato Bloomberg. E mentre un cibo elementare come la frutta è diventato un «bene di lusso», ci si domanda se Erdoğan pagherà le sue politiche economiche con la sconfitta alle prossime elezioni, previste per giugno 2023.

 

Accordo con l’Iran: ora o mai più

 

Seil Qatar ha ottenuto un posto al tavolo dei potenti del mercato energetico, l’Emirato non è meno attivo a livello diplomatico, rivolgendosi da un lato verso l’Iran e dall’altro verso i vicini arabi.

 

Motivato in parte anche dal fatto che i piani di sviluppo delle esportazioni di LNG si basano su un giacimento che condivide con l’Iran (South Pars), il Qatar sta svolgendo un importante tentativo di mediazione tra Washington e Teheran. In questo senso avevamo già raccontato dei viaggi svolti in prima persona dall’emiro Tamim e dei colloqui sul nucleare iraniano svolti a Doha. Parallelamente, il Qatar sta lavorando con gli altri Paesi della regione per appianare le divergenze che avevano portato al blocco imposto dal cosiddetto quartetto nel 2017. In quest’ottica si legge la visita a Doha dell’influente Sheikh Tahnoon (noto anche come TbZ), consigliere per la sicurezza nazionale degli Emirati Arabi Uniti, che ha incontrato l’Emiro qatarino. Secondo Amwaj Media, che riconosce come non tutte le divergenze tra Emirati e Qatar siano appianate, la visita di TbZ mostra il pragmatismo che caratterizza Doha e Abu Dhabi in questa fase.

 

A ciò si aggiunge il viaggio a Teheran del ministro degli Esteri di Doha, Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, il quale ha incontrato sia il suo omologo Hossein Amirabdollahian che Ali Shamkani, segretario del Supremo Consiglio per la Sicurezza Nazionale iraniano. Al termine dell’incontro con Al Thani, Amirabdollahian ha tenuto una conferenza stampa in cui ha voluto smentire le notizie secondo cui i colloqui non hanno dato l’esito sperato a causa delle richieste iraniane che andrebbero oltre l’ambito dei negoziati sul nucleare. Intanto il Dipartimento del Tesoro americano continua a esercitare pressione sull’Iran: mercoledì ha introdotto nuove sanzioni contro alcune realtà emiratine e cinesi accusate di aiutare l’Iran a vendere i suoi prodotti in Asia, aggirando le sanzioni.

 

Secondo il ricercatore Ali Vaez (Crisis Group) ci aspetta un’estate simile a quella del 2019: con la tensione elevatissima e «spazio in abbondanza affinché si verifichi un escalation, volontaria o meno». Inoltre, ha proseguito il ricercatore nella sua intervista, l’avvicinarsi delle elezioni di midterm rende l’amministrazione Biden meno incline al raggiungimento di un compromesso con la Repubblica Islamica. Ma dopo le elezioni di midterm è probabile che i repubblicani ottengano il controllo del Congresso, ciò che renderebbe a loro volta gli iraniani meno disponibili a un accordo con un’anatra zoppa. Teheran a questo punto sarebbe incline ad aspettare l’insediamento di una nuova amministrazione a Washington (2024). Ma considerando che nel 2025 si vota in Iran, sarebbe a quel punto la Casa Bianca a voler negoziare con la nuova presidenza della Repubblica iraniana. Un circolo vizioso che porta Vaez a concludere che o l’accordo verrà raggiunto in tempi brevissimi (ciò che appare molto difficile) oppure non se ne farà niente prima di sei anni. Ma considerando quanto già oggi Teheran sia vicina ai livelli di arricchimento dell’uranio necessari per lo sviluppo di una bomba atomica, il rischio di un’escalation in questo periodo sarebbe elevatissimo. Soprattutto perché più sale la tensione più è probabile che si generino incomprensioni e fatti che possono innescare lo scontro: si noti ad esempio che questa settimana era stata diffusa la notizia che i Guardiani della Rivoluzione avevano arrestato il vice dell’ambasciatore britannico in Iran. Notizia poi smentita, ma che per alcune ore aveva innalzato la tensione.

 

Rassegna della stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

L’Algeria festeggia 60 anni di indipendenza

 

Il 5 luglio l’Algeria ha festeggiato in grande stile il sessantesimo anniversario della sua indipendenza dalla Francia. Al di là della sua dimensione puramente celebrativa, l’evento è stato carico di significati politici. La grande parata organizzata ad Algeri dalle forze armate algerine è diventata, secondo al-Quds al-‘Arabī, «un’occasione […] per confermare la posizione del Paese contro la normalizzazione [con Israele], attraverso lo speciale invito rivolto da Tebboune al presidente palestinese Mahmoud ‘Abbas e ai leader di Hamas [presenti alla cerimonia] a condividere con gli algerini il clima di festa». Non a caso, infatti, nel corso della parata accanto alla bandiera algerina sventolava anche quella palestinese. La sfilata è stata anche l’occasione per le forze armate algerine di fare sfoggio della propria forza: l’aeronautica militare ha solcato i cieli di Algeri con alcuni caccia, l’esercito ha sfilato lungo il percorso designato a bordo di moderni carri armati facendo mostra di un’artiglieria di ultima generazione e dei missili russi S-300, mentre la marina ha esibito un veliero, un moderno sottomarino e alcune fregate. Sul quotidiano sono disponibili alcune fotografie e video dei momenti più significativi della parata.

 

La presenza dei leader palestinesi ad Algeri non è però stata apprezzata da tutti: sul quotidiano londinese al-‘Arab, il giornalista libanese Khairallah Khairallah ha contestato il paragone fatto da Tebboune tra la causa palestinese e la causa sahrawi, quest’ultima sostenuta dal Polisario e dal suo Segretario generale Brahim Ghali. Secondo Khairallah, Mahmoud ‘Abbas si è lasciato strumentalizzare dal presidente algerino, il quale ha sfruttato la (giusta) causa palestinese ai fini della “guerra fredda” che da anni combatte contro il Marocco per i territori del Sahara Occidentale.   

 

Ancora al-Quds al-‘Arabī ha celebrato gli sforzi condotti dal governo algerino per «contrastare l’influenza culturale della Francia». Il 3 luglio, si legge nell’editoriale, lo stesso Tebboune ha pubblicato un articolo sulla rivista del ministero della Difesa in cui invitava a «non dimenticare mai la miserabile condizione in cui versava il Paese all’indomani dell’indipendenza, a tutti i livelli ma, in particolare, l’ambito dell’istruzione» e aggiungeva che il colonialismo francese si è lasciato alle spalle un tasso di analfabetismo del 90%. Secondo lo storico algerino ‘Amir Rakhil, molto è stato fatto per contrastare l’influenza francese: a partire dalla campagna di arabizzazione dell’istruzione lanciata negli anni ’70, per arrivare alla campagna lanciata nel 2021 contro l’uso del francese nelle istituzioni governative e al progetto presentato quest’anno che prevede, per la prima volta nella storia del Paese, l’insegnamento dell’inglese fin dalla scuola primaria. L’editoriale parla inoltre della grande moschea di Algeri, inaugurata nell’agosto 2020, presentandola come un simbolo della rivincita algerina sulla Francia e sul cattolicesimo. La moschea, infatti, è stata edificata sulle rovine di una delle maggiori scuole cattoliche aperte dal vescovo Charles Lavigerie nel 1886 e viene definita «un simbolo religioso contro la tendenza coloniale crociata», «una fortezza simbolica, segno della vittoria dell’Islam sulla croce in terra algerina».

 

L’Algeria, uno Stato sulla sessantina ha titolato al-Arabī al-Jadīd, ricordando che nessun algerino oggi è soddisfatto di quanto è stato realizzato in sessant’anni d’indipendenza. «Gli errori commessi – ha spiegato il giornalista algerino Othman Lahiani – sono il risultato di fattori oggettivi legati principalmente alle condizioni per la formazione delle moderne istituzioni dello Stato e alla mancanza di funzionari con le competenze necessarie. Allo stesso tempo, gli sbagli sono anche il risultato di tendenze autoritarie e individualiste, di lotte per il potere e per il governo, […] e dell’assenza di un progetto e di una visione».

 

In Tunisia continua la diatriba sulla Costituzione

 

Il tema delle tendenze autoritarie ci porta necessariamente nella vicina Tunisia, dove da giorni si discute del nuovo progetto di Costituzione presentato dal presidente della Repubblica Kais Saied il 30 giugno scorso.

 

Nei giorni scorsi, Sadiq Belaid – presidente della Commissione incaricata da Saied di redigere la nuova Carta – ha fatto pervenire al quotidiano nazionale al-Sabāh una lettera indirizzata a tutti i tunisini in cui prendeva ufficialmente le distanze dal progetto presentato dal capo dello Stato. La versione pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, ha spiegato Belaid, «non rispecchia il testo che abbiamo preparato e presentato al presidente» e nasconde grandi rischi, tra cui quello di distorcere l’identità tunisina e di ripristinare l’articolo 80 della Costituzione del 2014, che garantisce ampi poteri al presidente in caso di pericolo imminente. Essa inoltre non prevede l’indipendenza dei giudici e non considera la dimensione economica, sociale, culturale e ambientale del Paese. Oltre alla lettera, Belaid ha consegnato al quotidiano per la pubblicazione anche la versione della Costituzione presentata il 20 giugno a Saied dalla Commissione che presiedeva.   

 

La decisione di Belaid di dare in pasto alla stampa nazionale la sua opinione personale non è però piaciuta a tutti. Il giornalista tunisino Hakim Marzouqi, su al-‘Arab, giornale vicino agli Emirati, ha contestato questa scelta definendola inopportuna e ingiustificabile. E ha spiegato che questa è la seconda volta che Belaid fa arrabbiare i tunisini. La prima volta è successo ai tempi di Bourguiba, quando Belaid era a capo della commissione che doveva rappresentare la Tunisia nella disputa con la Libia per la delimitazione della piattaforma continentale spettante a ciascuno dei due Paesi ai fini dello sfruttamento di una zona marittima condivisa. All’epoca, la Tunisia finì per perdere la causa davanti alla Corte dell’Aia «a causa dell’ostinazione di Belaid» – ha scritto Marzouqi.

 

Nel frattempo, sono continuate le riflessioni sui responsabili della crisi politica tunisina. Secondo il giornalista marocchino ‘Ali Anuzla, Saied non è l’unico colpevole: «l’assurdità politica in cui è entrata oggi la Tunisia, con un presidente che pensa da solo, governa da solo e prepara da solo la Costituzione di un Paese […] è il risultato naturale di dieci anni di tempo politico sprecato durante i quali l’élite politica tunisina non è riuscita a costruire una vera democrazia in grado di immunizzarsi dalle scosse e dai tumulti politici che attraversa ogni democrazia nascente».

 

Mecca riprende vita con il pellegrinaggio

 

A due anni dall’inizio della pandemia, l’Arabia Saudita sembra aver ritrovato un po’ di normalità. Giovedì è iniziato il pellegrinaggio a Mecca, che durerà dal 7 al 12 luglio. Sono un milione quest’anno i pellegrini autorizzati dalle autorità saudite a prendervi parte, contro i 60.000 residenti nel Regno autorizzati nel 2021 e i 10.000 nel 2020. Certo, un numero che è ancora ben lontano dalle cifre pre-pandemia – nel 2019 i pellegrini erano stati 2,5 milioni, ricorda al-Quds al-‘Arabī.

 

Ad ogni modo, anche se si sono allentate le restrizioni degli anni scorsi, la volontà dei musulmani di adempiere al quinto pilastro dell’Islam deve fare i conti quest’anno con l’aumento dei prezzi. In tutti i Paesi islamici la pandemia e la guerra in Ucraina hanno fatto lievitare i tassi d’inflazione e oggi organizzare un pellegrinaggio è diventato proibitivo per molti musulmani. Come ha rilevato al-Jazeera, nel 2022 per un libanese il costo medio del pellegrinaggio è aumentato del 300% mentre è cresciuto soltanto del 5% per i giordani. Stando alle rilevazioni, i musulmani più in difficoltà a recarsi a Mecca oggi sono i tunisini (il cui costo medio a persona sfiora i 10.000 dollari), seguono a ruota i libanesi, i marocchini, i kuwaitiani, i bahreniti e gli egiziani. Comunque la situazione non è molto migliore per gli altri Paesi, basti pensare che un mauritano spende in media 6.000 dollari a testa, un iracheno quasi 4.000 contro i 1.800 di un omanita. A spendere di più in assoluto sarebbero i qatarioti e gli emiratini, che superano il tetto dei 10.000 dollari a testa, ma nel loro caso questa spesa è probabilmente riconducibile a scelte di lusso. I qatarioti, peraltro, dal 2017 – anno in cui è scoppiata la crisi del Golfo – non avevano accesso a Mecca, ha ricordato il quotidiano londinese al-‘Arab.

 

Il giorno prima dell’inizio del pellegrinaggio, il quotidiano saudita al-Riyadh ha reso noto il nome dello shaykh che oggi avrebbe pronunciato il sermone e guidato la preghiera sul monte ‘Arafah, uno dei momenti centrali del pellegrinaggio. Si tratta di Muhammad al-‘Issa, ex ministro della Giustizia saudita, attualmente membro del Consiglio degli Ulema e Segretario generale della Lega mondiale islamica. Al-‘Issa è da qualche anno il volto del rinnovamento dell’Islam saudita e consigliere della famiglia reale.   

 

Questa nomina ha però suscitato il malcontento degli islamisti, che su Twitter hanno lanciato l’hashtag “Fate scendere al-‘Issa dal pulpito” – ha scritto il quotidiano londinese al-‘Arab criticando la loro presa di posizione. La battaglia contro il predicatore designato da MbS è stata combattuta soprattutto dai Fratelli musulmani che, attraverso Muhammad al-Saghir – Segretario generale dell’Organizzazione internazionale a sostegno del Profeta dell’Islam e membro dell’Unione mondiale degli Ulema – hanno addirittura emesso una fatwa secondo cui non è lecito pregare dietro Muhammad al-‘Issa.  

 

Draghi in visita di Stato nella Türkiyye di Erdoğan

A cura di Mauro Primavera

 

Martedì 5 luglio il premier Mario Draghi si è recato, insieme ad alcuni ministri e funzionari, in visita ufficiale ad Ankara – la prima di un presidente del Consiglio italiano dopo dieci anni – incontrandosi con il presidente della repubblica turca Recep Tayyip Erdoğan. Il protocollo cerimoniale di benvenuto è, da qualche anno a questa parte, sempre lo stesso: costumi e simboli del periodo ottomano, riferimenti al nazionalismo kemalista (è di pochi mesi il cambio ufficiale del nome del Paese in inglese, da “Turkey” a “Türkiyye”) e passaggio in rassegna delle formazioni schierate; lo stesso Draghi si è rivolto ai militari in turco con la formula di rito merhaba asker “saluti, soldato”. Appare quindi chiaro l’intento, da parte di entrambi i leader, di superare la crisi diplomatica del 9 aprile 2021, quando il neonominato primo ministro italiano, commentando l’incidente del Sofagate, bollò Erdogan come «dittatore».

 

Quanto ai contenuti della visita, gli accordi italo-turchi firmati non sembrano rivestire un particolare peso: il riconoscimento bilaterale delle patenti di guida, il partenariato per le piccole e medie imprese e il rafforzamento della cooperazione tra i ministeri degli interni sembra essere poca cosa di fronte alle dinamiche geopolitiche del Mediterraneo e dell’Ucraina, vero argomento dei colloqui. In primo luogo, la crisi libica ha un’alta rilevanza strategica sia per Roma che per Ankara, unite nell’appoggiare il governo di Tripoli in funzione anti-Haftar, anche se – va osservato – la presenza militare turca è decisamente maggiore ed efficace rispetto a quella del suo partner europeo. In secondo luogo, vi è la questione energetica, dal momento che l’Italia, obbligata a diversificare il più possibile i suoi approvvigionamenti, si è mostrata interessata al giacimento gassifero di Sakaraya, nel Mar Nero, e in quelli del Mediterraneo orientale, i quali hanno generato periodicamente frizioni tra Turchia, Grecia e Cipro. E infatti, stando a quanto riportato dal Corriere della Sera del 5 luglio 2022, (p. 8), i progressi in questo ambito sarebbero pressoché nulli.

 

Il confronto con la Grecia è una costante della politica di Erdoğan: il leader ha infatti attaccato, per l’ennesima volta, Atene, definendola «una minaccia per l’Italia» per il modo con cui sta respingendo i migranti nell’Egeo. A tal proposito Draghi ha risposto, in quello che sembra un goffo tentativo di giustificare l’alleato ellenico, che il sistema di accoglimenti va ripensato: «La gestione dell'immigrazione deve essere umana, equa ed efficace. Noi cerchiamo di salvare vite umane. Ma occorre anche capire che un paese che accoglie non ce la fa più. È un problema che il ministro Lamorgese ha posto in Europa, lo ha detto qui e lo diremo alla Grecia quando la incontreremo. Forse noi siamo il paese meno discriminante e aperto, ma anche noi abbiamo limiti e ora ci siamo arrivati».

 

In Italia la visita non poteva che destare perplessità e polemiche. Le testate di area progressista, e anche Avvenire, hanno condannato la rivalutazione di Draghi su Erdoğan e le affermazioni sulla questione dei migranti, tema ampiamente sfruttato dai partiti populisti italiani per incrementare voti e consensi. Tuttavia, alcuni analisti sostengono che una rottura, oppure un semplice raffreddamento, delle relazioni tra i due Paesi lederebbe gli interessi di Roma. Come afferma Nathalie Tocci per Politico, il ruolo della Turchia, già fondamentale negli anni passati per la gestione dei flussi migratori provenienti dalla Siria, è cresciuto ancora di più a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina: «lasciare la porta spalancata rinunciando allo stato di diritto renderebbe il leader turco più spregiudicato, ma chiudergliela in faccia gli permetterebbe di alimentare ancora di più il nazionalismo. Nessuna di queste scelte sarebbe d’aiuto per i democratici turchi». Lo stesso presidente turco si è auto-investito della carica di mediatore tra Russia e Ucraina, cosa che dovrebbe favorire in pochi giorni lo sblocco dei “corridoi del grano” nel Mar Nero.

 

L’incontro sembra quindi seguire la linea politica degli altri Stati europei, tra cui si segnala la Svezia che, per evitare il veto di Ankara sull’ingresso nella Nato, ha rinunciato a offrire protezione agli esponenti curdi in esilio. Se, invece, lo si considera come lettura degli affari italiani, l’atteggiamento di Draghi è ben lungi dalla linea internazionale che aveva espresso a inizio mandato. Anche se lo stesso premier aveva sostenuto, ai tempi del Sofagate, la necessità di cooperare con i dittatori se ciò andava a favore dell’interesse nazionale.

 

In breve

 

Dopo anni, la Francia ha cambiato la sua politica e ha rimpatriato 16 donne mogli di jihadisti dal campo di al-Hol in Siria (New York Times).

 

Secondo l’approfondimento del Financial Times, il Niger è il nuovo baluardo dell’Occidente contro il jihadismo e la presenza russa in Africa.

 

Secondo un report delle Nazioni Unite la milizia libica Kaniyat si è resa responsabile tra il 2016 e il 2020 di diverse violazioni dei diritti umani (Al-Jazeera).

 

Si moltiplicano le crisi in Etiopia: come ha scritto il New York Times nuovi massacri su base etnica si sono verificati nella regione di Oromia.

 

 

 

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