Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:09:52

Ospite in un programma televisivo, lo shaykh saudita Saleh al-Maghamsi (6 milioni e mezzo di followers su Twitter, ex imam della moschea di Medina), ha proposto di abbandonare le quattro scuole giuridiche islamiche tradizionali (shafiita, hanafita, hanbalita, malikita) e di crearne una ex novo, capace di «rispondere alle esigenze di sviluppo e modernizzazione» del Paese (qui il video del suo intervento in tv). La notizia è stata rilanciata dal quotidiano panarabo londinese al-‘Arab, che ha contestualizzato e promosso la proposta dello shaykh, ritenendo «l’attuale codice giurisprudenziale […] incapace di rispondere all’evoluzione che il regno sta vivendo». «L’Arabia Saudita spinge per un’apertura globale, non limitatamente all’aspetto materiale, come vorrebbero gli islamisti estremisti, ma che punti anche ad abituare la società saudita all’apertura, all’accettazione dell’altro e della sua cultura, al rispetto delle libertà personali, anche se ciò è in contrasto con la giurisprudenza adottata dal clero ufficiale». Per al-Maghamsi «sottoporre a revisione quanto abbiamo ricevuto è un dovere» dal momento che «lo stesso profeta e le sue mogli erano soliti sottoporre a revisione la giurisprudenza islamica». Degno di nota è inoltre l’accenno dello shaykh agli hadīth ahādī, i detti del profeta trasmessi da singoli narratori e la cui autenticità è pertanto dubbia, già posti sotto accusa due anni fa dal principe ereditario saudita, Mohammad bin Salman (ne avevamo parlato qui).

 

Il clero wahhabita ha risposto allo shaykh al-Maghamsi con un comunicato pubblicato sul quotidiano saudita al-Riyadh. Poche righe, molto chiare, per chiudere definitivamente la questione: «L’istituzione di una nuova scuola di giurisprudenza islamica manca di obiettività e realismo. La giurisprudenza islamica, con le sue [quattro] scuole giuridiche e le sue diverse interpretazioni, risponde a tutte le esigenze della vita moderna, e concilia queste esigenze con la legge islamica».

 

Più polemico e coraggioso è invece il giudizio dello shaykh Essam Talima, esponente dei Fratelli musulmani egiziani, che è intervenuto nella polemica firmando un articolo sul quotidiano filo-islamista ‘Arabi21. Talima ha accusato il chierico saudita di farsi pilotare dai piani alti e di prestarsi alla narrazione dei governanti: «Al-Maghamsi non si discosta dallo spartito musicale ufficiale, e anche il progetto ufficiale non è lontano dall’orientalismo e dall’occidentalizzazione che da decenni agiscono nei nostri Paesi. La Sunna è costantemente sotto attacco, cambiano solo le modalità – a volte è al-Bukhari, a volte è Abu Hurayra, a volte sono gli hadīth ahādī […] La proposta di al-Maghamsi non è espressione del suo pensiero […], ma è espressione di un progetto politico in corso di realizzazione, che sarà annunciato a tempo debito dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman».

 

Sempre il quotidiano al-‘Arab, martedì ha ospitato in prima pagina un editoriale dedicato alla ventata riformista che sembra attraversare anche al-Azhar. La moschea-università egiziana «sta cercando di liberarsi dalla rigidità giuridica» per «affrancarsi dalle pressioni politiche e migliorare l’immagine negativa che negli anni si è radicata nelle menti delle autorità egiziane e della corrente civile». Il grande imam Ahmad al-Tayyib ha auspicato, come già aveva fatto in passato, «il rinnovamento ripetuto e continuo [del discorso religioso]» e ha definito gli sforzi d’interpretazione della giurisprudenza islamica «una necessità» per rimanere al passo con le esigenze del tempo. Secondo l’editorialista, i discorsi tenuti dal grande imam durante il Ramadan testimonierebbero il suo cambio di vedute su molte questioni sociali, che in passato erano state causa di forti divergenze con il governo.

 

Tunisia tra nostalgie del passato e crisi odierna [a cura di Mauro Primavera]

 

La crisi della Tunisia non accenna a fermarsi, anzi entra in una nuova fase: come anticipato nella rassegna della scorsa settimana, Kaies Saied ha infatti interrotto il negoziato avviato con il Fondo Monetario Internazionale per l’erogazione di un prestito da 1,9 miliardi di dollari e sta cercando nuovi creditori nel tentativo di alleviare la situazione interna e stemperare le proteste popolari. Da più parti le manovre del presidente sono state paragonate al suo illustre predecessore, Habib Bourghiba, padre fondatore della Tunisia contemporanea e capo dello Stato dal 1957 al 1987, di cui il 6 aprile ricorreva il ventitreesimo anniversario dalla morte. Un editoriale di al-Quds al-‘Arabi a firma dell’accademico libanese Gilbert Achar ricorda come lo stesso Bourguiba si fosse trovato a gestire tra il 1983 e il 1984 una “rivolta del pane”: anche all’epoca «la decisione di eliminare i sussidi al prezzo di pane e farina agiva in ottemperanza a una delle condizioni poste dal Fondo Monetario Internazionale nel quadro di politiche di austerità», previste dalle ricette dei «Paesi sviluppati e neoliberisti». Quell’episodio, nota il giornale, segnò l’inizio del declino politico di Bourguiba, che tre anni dopo venne deposto da Ben ‘Ali; allo stesso modo, Saied «approfitta dell’anniversario per ricordare la rivolta che portò l’ex presidente alla destituzione», una sorta di «giustificazione al rifiuto delle condizioni del Fondo Monetario». Paralleli storici a parte, per il quotidiano panarabo questa scelta è dovuta non tanto «a convinzioni o a metodi di lavoro», quanto alla «paura delle masse». Allo stato attuale, infatti, il ra’īs «non ha politiche alternative; ciò rischia di approfondire ulteriormente la crisi sociale, politica ed economica della Tunisia». Il concetto viene sottolineato in un altro editoriale di al-Quds scritto dall’anchorman di al-Jazeera Mohamed Krichen: la decisione del presidente tunisino di rompere il negoziato con l’organizzazione monetaria più importante del mondo utilizzando lo slogan «contare su noi stessi» appare «insensata»: nessuno «sa se Saied si presenterà a breve in pubblico per spiegare al suo popolo cosa intende con “contare su noi stessi”». Anche l’iniziativa del governo italiano che mirava a creare una “cordata” di salvataggio «con il sostegno dell’Unione Europea, dei Paesi del Golfo e persino di Israele!!» non ha chance di successo, senza la “luce verde” del FMI.  

 

Il settimanale indipendente Al-Shari‘ al-Magharibi (“La strada maghrebina”) dedica un intero numero alla situazione tunisina e, come al-Quds, rievoca il passato mettendo in copertina la foto del “padre della patria” accompagnato dal titolo: «Bourguiba, l’eterno punto di riferimento»; a sinistra, la domanda di attualità: «esiste un’alternativa al FMI?». La rivista dedica all’ex presidente le prime pagine, con toni al limite della nostalgia: «Bourguiba oggi è un simbolo culturale necessario […] un simbolo eterno che fa parte dei “geni” della Tunisia immortale. Non è azzardato sostenere che il nostro attuale declino verso il gradino più basso nella scala degli Stati, verso l’inazione nazionale, verso l’incapacità di essere autosufficienti, verso le scuole che diffondono l’ignoranza, verso gli ospedali che diffondono malattie, verso strade tetre, verso giovani disperati che preferiscono la morte alla terra del loro Paese non è che il punto d’arrivo del nostro allontanamento dall’orizzonte delle ambizioni che aveva delineato Bourguiba». L’articolo si conclude con un implicito accenno alla contemporaneità: «forse l’ultimo bagliore di speranza rimasto è che il “bourghibismo” in quanto punto di riferimento ideologico e corrente politica, trovi nuovi sostenitori, dopo che questi hanno visto a quale destino vada incontro una Tunisia che si allontana dal burghibismo e hanno capito che la sua esemplarità non è un simulacro fisso ed immobile, quanto un insieme di grandi valori originari capaci di rispondere all’evoluzione del tempo e dello spazio».

 

A pagina 7 la rivista affronta la delicata questione degli aiuti internazionali ricorrendo, ancora una volta, ai parallelismi storici: «tra il 1993 e il 2013 la Tunisia non ha preso in prestito un solo dollaro dal Fondo Monetario, anzi nel 1993 è riuscita a ripagare l’ultimo debito» contratto nella seconda metà degli anni Ottanta; dopo la relativa stabilità della presidenza di Ben ‘Ali, la situazione economica è tornata a peggiorare a seguito della Primavera Araba del 2011, costringendo lo Stato a richiedere nuove e onerose linee di credito. Il nodo della questione per al-Shari‘ è proprio questo: anche se Saied ha rifiutato di cooperare con il Fondo Monetario, deve comunque saldare nel prossimo quadriennio i vecchi debiti contratti, il cui valore ammonta a circa 2,4 miliardi di dollari; da qui l’amara considerazione finale: «la Tunisia vive in un oceano di contraddizioni che sta portando all’inevitabile […] aggravamento della crisi economica, finanziaria e sociale».

 

La critica al presidente Saied si stempera tuttavia di fronte alla considerazione che la Tunisia deve fare i conti con un clima internazionale avverso, provocato dalla «feroce aggressione dell’asse europeo-africano che spinge il Paese a umilianti concessioni». Si ritorna quindi alla domanda di copertina: esiste un’alternativa? Per al-Shari‘ al momento la risposta è no, ma una soluzione va cercata al più presto, purché avvenga nel rispetto della sovranità nazionale e del coinvolgimento di tutte le parti sociali e della popolazione, evitando iniziative personali e autonome da parte del capo dello Stato.  

 

La questione siriana è il bilanciere mediorientale [a cura di Mauro Primavera]

 

Prosegue il dibattito intra-arabo sull’opportunità (o necessità, a seconda dei punti di vista) di reintegrare la Siria di Assad all’interno della Lega Araba, progetto che però incontra alcune importanti resistenze, tra cui quella del Qatar. Per il quotidiano panarabo e al-Quds al-‘Arabi,  che ha legami con Doha, «il Qatar canta fuori dal coro». Più che di un articolo si tratta di una rivendicazione di intenti, obiettivi e strategie: i continui successi hanno trasformato Doha da piccolo e ininfluente Paese ad attore geopolitico regionale e globale. Il successo più grande rimane tuttavia quello nell’ambito dell’informazione grazie alla nascita del canale satellitare “Al Jazeera” «che ha avuto sufficiente coraggio da cantare fuori dal coro (alla lettera “cinguettare fuori dal gregge”) arabo per lasciar che le opposizioni potessero esprimere le loro opinioni; ciò ha permesso al Qatar di espandere le relazioni con i Paesi arabi ospitando i capi delle opposizioni sullo schermo di Al Jazeera. Questa impostazione “anti-governativa” è proseguita con maggiore intensità durante le Primavere Arabe, la cui copertura mediatica «ha mostrato con evidenza le proteste popolari, a differenza di quegli Stati che sin dall’inizio hanno sostenuto la contro-rivoluzione cercando di far fallire le manifestazioni». Il discorso tocca inevitabilmente la crisi siriana, che costituisce un «punto saldo» e coerente della politica estera di Doha, laddove la posizione dell’Arabia Saudita – che, ricorda con un pizzico di malizia l’autore, un tempo sosteneva le milizie salafite di Jaysh al-Islam, con l’intento di rovesciare il regime di Damasco – è completamente mutata, essendo promotrice del processo di reintegro della Siria nella Lega Araba. Diametralmente opposta la visione del quotidiano saudita al-Sharq al-Awsat che nell’articolo “Il ritorno di Siria e Iraq” definisce le Primavere Arabe una «catastrofe» che ha causato «molto sudore, sangue e lacrime». Da qui la necessità di re-includere nel consesso arabo due Paesi simbolo di guerre civili e fenomeni di terrorismo, ossia Siria e Iraq: il primo dimostra che l’esperienza rivoluzionaria è giunta a un «vicolo cieco», il secondo che il terrorismo si può sconfiggere solo grazie alla presenza di un forte apparato statuale. Anche Muhammad al-Shadhaly, scrivendo per il quotidiano egiziano al-Ahram, considera il ritorno della Siria come un’azione necessaria, una «possibilità di ripristinare il coordinamento e la cooperazione araba a livelli appropriati sia per il contesto regionale che per quello internazionale»; di più, potrebbe costituire «la rinascita di un progetto nazionalista arabo» funzionale alla creazione di un polo geopolitico indipendente. Dal punto di vista egiziano c’è infatti grande interesse nel riavvicinamento tra il Cairo e Ankara, che si inserisce nel più ampio processo di normalizzazione dei rapporti con Damasco e di apertura nei confronti dell’Iran.

 

La Sfinge egiziana [a cura di Mauro Primavera]

 

A proposito dell’Egitto, la sua posizione è delicata. Al-Quds – che come abbiamo visto, non è mai tenero con i governi ostili alle Primavere arabe – ci tiene a ricordare come il Paese si trovi in una posizione assai delicata, considerata la grave crisi economica. Il Cairo da tempo fa affidamento sui consistenti finanziamenti dei sauditi, ma adesso le cose potrebbero cambiare: «è finito il tempo del denaro a pioggia?» si chiede con fare retorico (e ironico) il giornale. In effetti «l’ultima visita di al-Sisi a Riyad, compiuta in maniera repentina e improvvisa, senza alcuna pianificazione, indica che l’impegno di donare generosamente miliardi a sostegno dell’economia del regime egiziano potrebbe essere ritirato». A pesare sul presunto «fallimento» della visita ci sarebbe, similmente al caso della Tunisia, il rifiuto di sottoscrivere le condizioni dei Paesi del Golfo e del Fondo Monetario Internazionale, che chiede la liberalizzazione dell’economia e la fine del dirigismo statalista e militare; altre fonti di preoccupazione sono la svalutazione della sterlina egiziana e le recenti voci di una produzione segreta di missili da vendere alla Russia. Per al-‘Arabi al-Jadid, il malessere tra egiziani e sauditi non riguarda solo il pompaggio di soldi e l’approvazione dei piani di finanziamento: «Riyad fa i suoi conti sugli aiuti forniti al regime di al-Sisi» che, almeno all’inizio, era considerato come un «“investimento politico” dopo la cacciata della Fratellanza Musulmana» dal potere. La conclusione a cui sarebbero giunti i sauditi è perentoria: non solo il Cairo non accenna a dare segni di miglioramento in ambito economico, ma ha addirittura posizioni divergenti dalle loro sulla questione siriana e su quella yemenita. Per la testata al-‘Arab, l’Egitto ha un vero e proprio problema nel «comprendere il nuovo Golfo», una sorta di incapacità nel leggere i rapidi cambiamenti in atto nelle petromonarchie. Risulta pertanto necessario studiare e seguire l’esempio di questi Stati, in particolare Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati. Essi, nota con ottimismo il giornale, «a prescindere dal loro pragmatismo, vedono nell’Egitto una buona opportunità economica», anche se le criticità intrinseche del sistema egiziano costituiscono, come visto, un serio ostacolo allo sviluppo e agli investimenti. Per questo, ammonisce il giornale, una volta che il Cairo avrà compreso il Golfo, dovrà poi «lavorarci insieme» per uscire definitivamente dalla stagnazione.

 

L’Iraq vent’anni dopo [a cura di Mauro Primavera]

 

Per rimanere in tema di ricorrenze storiche, chiudiamo con una serie di articoli dedicati al ventennale della presa di Baghdad da parte delle truppe angloamericane nell’aprile 2003 che pose illusoriamente fine all’operazione militare “Iraqi Freedom”. Al-Sharq al-Awsat svela, con l’aiuto di un “supertestimone” anonimo, il retroscena dei giorni dell’occupazione, rivelando che quando gli americani abbatterono la statua del dittatore in piazza Firdaws, «Saddam si trovava lì vicino»; Al Jazeera rievoca, com’è nel suo stile, i fasti passati della città di Baghdad, fulcro culturale e politico del mondo arabo-musulmano nel Medioevo. Al-‘Arab ha invece inaugurato una rubrica a puntate che ripercorre in dettaglio la vita di Saddam Hussein: il racconto della giovinezza segnata dai primi fatti di sangue, seguita dall’iscrizione al partito Ba‘th nel 1959, che segnò l’inizio della sua carriera politica e l’ascesa al potere. Eppure la testata nota, con una considerazione da “Gattopardo”, come il cambiare tutto non abbia in realtà cambiato niente, come si evince dal titolo dell’articolo “Il tempo si è fermato in Iraq”: «i partiti sciiti – scrive il giornalista curdo iracheno Muhammad Wany – e le loro milizie confessionali sono convinte che il sistema di governo migliore per gli iracheni sia una dittatura simile a quella di Saddam Hussein, visto che tentano continuamente di salire al potere da soli, di scacciare gli altri e di porre sotto il loro controllo le più importanti istituzioni governative […] Proprio come Saddam era avverso agli sciiti e ai curdi e li opprimeva con durezza, ugualmente si comportano questi partiti totalitari contro sunniti e curdi […] e se Saddam promuoveva l’arabismo e lo sciovinismo, Nuri al-Maliki e i successivi capi di Stato hanno promosso un programma confessionale e arabo-sciovinista». Il risultato è che l’Iraq «vive in uno stato di abbandono e di perdita di identità senza precedenti nella sua lunga storia; dalla caduta del totem baathista, non si è verificato alcun cambiamento concreto nella struttura dello Stato. Lo scorrere del tempo si è completamente arrestato. Nessuno sa dove si andrà a finire!».             

 

Polemiche di Ramadan [a cura Chiara Pellegrino]

 

Oltre a essere un tempo di digiuno, il Ramadan è anche un mese di iniziative culturali, sociali e ricreative in tutto il mondo islamico. Questa settimana al-Azhar ha ospitato i festeggiamenti in ricordo della “Conquista di Mecca” avvenuta nel 630 per mano del profeta Muhammad. Una data importante nella storia dell’Islam, che ha segnato la fine degli scontri tra i musulmani e i politeisti meccani e che «ha avuto un grande impatto sulla costruzione dello stato islamico», ha ricordato il quotidiano egiziano al-Youm7.

 

Un altro aspetto caratteristico del periodo di Ramadan è l’uscita, ogni anno, di alcune serie tv realizzate appositamente per l’occasione, che finiscono quasi sempre per alimentare intensi dibattiti sui social e sui quotidiani. Anche questo Ramadan non fa eccezione. A suscitare il dibattito è stata in particolare la serie tv che ripercorre la vita dell’imam al-Shafi‘i (qui il trailer), uno dei padri fondatori della giurisprudenza islamica, eponimo della scuola giuridica shafiita. Ne ha parlato su al-Jazeera il giornalista e produttore cinematografico Hani Beshr, secondo il quale la serie manca di accuratezza storica. Ma il principale tallone d’Achille di questa produzione sarebbe la sceneggiatura, scritta a sette mani (tre siriane, quattro egiziane). Da questo processo di scrittura collettiva è scaturito un pot pourri di visioni diverse e un po’ incoerenti. Questo difetto originario avrebbe finito per ripercuotersi negativamente anche sull’interpretazione degli attori che, pur essendo nomi noti, non sono riusciti a interpretare al meglio i personaggi. L’immagine che esce di al-Shafi‘i, interpretato da Khaled al-Nabawi, è quindi quella di un personaggio dalla personalità indefinita, di cui «non sono state davvero messe in luce le doti giurisprudenziali e linguistiche».

 

Nella tradizione islamica, inoltre, il Ramadan è anche il mese migliore per compiere il pellegrinaggio minore, la ‘umra. Vi proponiamo allora una bella galleria di fotografie scattate nei giorni scorsi presso la grande moschea di Mecca, che ritraggono i pellegrini giunti nella città santa.

 

Ci spostiamo ora nel vicino Oman, dove il ministero degli Affari religiosi ha emesso una circolare che limita il ricorso agli altoparlanti esterni delle moschee alla sola chiamata alla preghiera (adhān) e minaccia multe di 2600 dollari a chi infrange la norma. La decisione ha suscitato diverse polemiche sui social tra i favorevoli e i contrari, una controversia che peraltro è stata alimentata anche dalle dichiarazioni del gran muftì del Sultanato, Ahmad al-Khalili. Quest’ultimo prima si è detto d’accordo a limitare l’uso degli altoparlanti per non arrecare disturbo ai cittadini, poi è ritornato sui suoi passi con un comunicato diffuso sul suo account Twitter: «Mentre alcune capitali occidentali si aprono ai rituali dell’Islam e la preghiera del Ramadan viene fatta nelle piazze pubbliche, ci rammarica e ci lascia molto sorpresi il fatto che in alcuni Paesi islamici le istituzioni responsabili delle questioni religiose impongano restrizioni a questi rituali, in modo che la voce dell’imam non abbia a risuonare al di fuori della moschea» (qui il tweet).

 

Il giornalista omanita Yousuf al-Habsi ha cercato di mettere fine alle polemiche spiegando sul quotidiano nazionale ‘Oman che gli altoparlanti non sono «un pilastro della preghiera», ma sono semplicemente funzionali ad avvisare le persone dell’inizio della preghiera, la quale «non viene inficiata» dal loro mancato utilizzo. E ricorda le polemiche che accompagnarono anni fa il processo inverso di introduzione dei microfoni nelle moschee, all’epoca guardati con grande sospetto e da molti ritenuti «un’innovazione estranea alla religione». 

 

I quotidiani arabi di fronte al sionismo religioso [a cura di Chiara Pellegrino]

 

In questi giorni si è parlato ancora delle violenze scoppiate intorno alla moschea di al-Aqsa la scorsa settimana e della crisi politica in Israele. La situazione continua a essere esplosiva: il quotidiano filo-saudita al-Sharq al-Awsat ha pubblicato una vignetta che ritrae Netanyahu intento a lanciare fuori da Israele le bombe innescate dentro il suo Paese.

 

Per al-Quds al-‘Arabi, quotidiano fondato dalla diaspora palestinese a Londra, «Netanyahu ha illuso la società israeliana che sarebbe riuscito a imporre l’effettiva divisione spaziale della moschea di al-Aqsa e poi a realizzare il sogno di assumerne il controllo totale, scatenando la mano del sionismo religioso sotto la guida del suo alleato Ben-Gvir e allo stesso tempo continuando ad attrarre più arabi e musulmani nel circolo della normalizzazione».

 

Lo stesso quotidiano ha inoltre riportato gli stralci di una dichiarazione firmata martedì da alcuni ulema mauritani, secondo i quali «il jihad sulla via di Dio è l’unico modo per liberare al-Aqsa e la Palestina. Esso è un obbligo e una necessità; tutte le altre soluzioni sono soluzioni inutili che conferiscono legittimità all’occupazione e fanno dell’entità [sionista] una realtà, comprese le risoluzioni delle Nazioni Unite che prevedono la spartizione, e gli accordi di pace e (normalizzazione) bilaterali e regionali». 

 

Su al-‘Arabi al-Jadid Mohammed Ahmed Bennis ha parlato della «sconfitta del sionismo laico e della sua possibile estromissione dai centri decisionali, ciò che finirà per subordinare la “democrazia israeliana” all’ebraismo di Stato e aprirà la strada a uno stato religioso sul modello teocratico, il cui obiettivo principale è rimodellare la struttura dello Stato e della società».

 

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