Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale
Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 12:08:56
Il massacro di più di cento palestinesi, mentre facevano la coda per ricevere cibo, attribuito alle Forze di Difesa Israeliane (IDF) ha suscitato l’indignazione di molti leader internazionali. L’esercito israeliano ha fornito la propria versione dei fatti, pubblicando un video girato da un drone in cui si vedono decine di persone accalcarsi attorno ai camion carichi di aiuti umanitari diretti verso la zona settentrionale della Striscia. Secondo le IDF, la maggior parte dei decessi sono da imputare alla calca della folla e ai camion in movimento; solo dieci persone sono morte per uno scontro a fuoco con gli israeliani. Il New York Times fa però osservare che il video presenta diversi tagli e soprattutto non mostra un momento chiave che precede la tragedia. Incrociando un video di Al Jazeera e le testimonianze dei medici intervenuti sul posto, il quotidiano statunitense riferisce che diverse decine di persone presentavano ferite da armi da fuoco e che la tragedia è avvenuta non distante da una base militare israeliana. «Che sia stato un incidente o meno – commenta la testata israeliana Haaretz – il disastro potrebbe cambiare il corso della guerra», alimentando la rabbia dei palestinesi e aumentando la pressione della comunità internazionale su Israele per l’attuazione di un cessate il fuoco.
In questi giorni che precedono il mese islamico di Ramadan – il cui inizio viene ormai interpretato da stampa e attori politici come “data di scadenza” per il raggiungimento di un accordo su Gaza – il negoziato tra Hamas, Israele, Qatar, Egitto e Stati Uniti sta diventando infatti sempre più complesso e difficile. Il New York Times offre un perfetto ritratto della situazione attuale: il ministro degli esteri qatariota evita di sbilanciarsi con previsioni affrettate; al-Sisi e Biden auspicano il raggiungimento di un accordo a breve. Un wishful thinking che non trova però conferme nella laconica risposta del ministro della difesa israeliano Gallant: «spero che Mr. Biden abbia ragione». In realtà, prosegue l’articolo, «Hamas e Israele sono ancorate alle loro posizioni e non ci sono segnali di svolta. Le due parti stanno svolgendo il negoziato in maniera indiretta, attraverso intermediari nei colloqui tenutisi a Doha, al Cairo e a Parigi. I leader di Hamas continuano a chiedere a Tel Aviv di accettare un cessate il fuoco e il ritiro delle truppe da Gaza; per contro, Israele ha confermato che continuerà a combattere finché Hamas non sarà eliminata, lasciando intendere che lo Stato ebraico non è pronto ad accogliere una tregua a lungo termine». Anche Hamas sembra voler alzare la posta: Ismail Hanyeh da una parte ha ribadito la sua disponibilità a proseguire il dialogo con Tel Aviv, ma dall’altra ha rifiutato una proposta di cessate il fuoco e ha chiamato i palestinesi a marciare verso la moschea di al-Aqsa. Come riporta il Wall Street Journal, inoltre, di fronte alle preoccupazioni del gruppo su un possibile attacco delle IDF a Rafah, Yahya Sinwar, mente del “Diluvio di al-Aqsa”, avrebbe recapitato un messaggio alla leadership di Hamas basata a Doha: «non preoccupatevi, stiamo portando gli israeliani esattamente dove vogliamo», in quanto un’altra catastrofe umanitaria incrementerebbe la pressione della comunità internazionale su Israele. Da tempo Sinwar, prosegue l’articolo, ha rinunciato agli attacchi su vasta scala per adottare una sorta di “strategia della sopravvivenza”, fatta di brevi incursioni e aggressioni. L’obiettivo è quello di «emergere dalle rovine di Gaza una volta che la guerra sarà finita, dichiarare una vittoria storica e reclamare la leadership della causa nazionale palestinese».
Ha ragione Amena ElAshkar, ricercatrice presso il Center for Conflict and Humanitarian Studies, quando dice che il negoziato si è trasformato in qualcosa simile a una guerra psicologica: si gioca sui silenzi, sulle tensioni interne – la faglia tra Hamas e Autorità Nazionale, le frizioni tra falchi e colombe dello Stato maggiore israeliano – e sulle incomprensioni per guadagnare tempo prezioso ed evitare un accordo che al momento sembra lontano. Tempo però che è invece agli sgoccioli per quanto riguarda il soccorso umanitario, data la situazione disastrosa in cui versa gran parte della popolazione della Striscia.
Nonostante le evidenti difficoltà nel comporre gli interessi e le aspettative degli attori coinvolti nel processo negoziale, Tamir Hayman, ex capo dell’intelligence israeliano, non ritiene che la normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita sia una “causa persa”: «penso sia fattibile, è parte della grande iniziativa americana, e i sauditi sono molto motivati. Sanno che sarà più semplice per loro avere un accordo di difesa, infrastrutture nucleari civili con l’attuale amministrazione americana». Perché l’accordo sia possibile, però, Riyad avrebbe posto come condizione la riconsegna della Striscia all’Autorità Nazionale Palestinese. C’è poi l’altro fronte caldo, quello con il Libano, da tenere in considerazione: «dal punto di vista israeliano – prosegue Hayman – Hezbollah deve mantenere la stabilità nel nord. Ci immaginiamo che possa applicare un cessate il fuoco informale non appena entri in vigore quello nella Striscia di Gaza». Operazione che però non è così semplice per il quotidiano israeliano Haaretz, perché gli sforzi diplomatici occidentali, in particolar modo Stati Uniti e Francia, non agiscono in sintonia: l’idea di fondo, sostenuta sia da Amos Hochstein – inviato speciale americano autore di una vera e propria “diplomazia della navetta” di kissingeriana memoria secondo la CNN – che dalla ministra degli esteri francese Stéphane Séjourné sarebbe quella di porre al centro dei negoziati la demarcazione delle frontiere israelo-libanesi in modo da neutralizzare le rivendicazioni di Hezbollah e permettere a Beirut di riprendere il controllo del Sud Paese, di fatto amministrato dalle milizie di Nasrallah. Peccato che Hochstein ritenga che «il negoziato con il governo libanese non sarà percorribile in assenza di un cessate il fuoco a Gaza. La Francia, al contrario, pensa che sia possibile raggiungere un cessate il fuoco separato tra Israele e Libano» a prescindere da quello nella Striscia. La disputa tra Parigi e Washington, «che non è esente da considerazioni di rivalità politica e di prestigio» si somma al «rifiuto dell’Arabia Saudita di intervenire con decisione nella politica libanese e all’incapacità dell’Egitto di giocare un ruolo significativo». Per L’Orient-Le Jour – quotidiano libanese che in questi giorni festeggia il centenario della fondazione con una serie di iniziative – Hezbollah sarebbe a favore della de-escalation, visto che non può reggere il confronto militare con Tel Aviv e deve tenere in considerazione le difficoltà economiche dei libanesi. Su questo punto, il “partito di Dio” ha fatto i suoi «calcoli»: punta sul fatto che gli americani non permetteranno l’allargamento del conflitto al sud del Libano e sulle divisioni interne dell’esecutivo israeliano. Foreign Policy, Steven Cook propone un’altra interpretazione. È vero che Israele e Hezbollah hanno evitato l’escalation, ma ciò non significa che entrambi non vogliano la guerra: piuttosto, «i leader del movimento libanese e l’alto comando delle IDF sono alle prese con una serie di vincoli che, fino ad ora, hanno evitato lo scoppio del conflitto. Non si dovrebbe fare troppo affidamento su questi impedimenti […] per poter limitare il conflitto ancora a lungo. Anzi, questi vincoli stanno venendo meno già ora».
Data la pluralità degli attori in gioco e la gravità della situazione tanto sul piano internazionale quanto su quello regionale, sorge spontanea una domanda: esiste solo un negoziato? La risposta, per il Middle East Institute, è che ne esistono altri cinque, oltre a quello tra Israele e Hamas: uno intra-israeliano, uno intra-Hamas tra leadership di Gaza e quella di Doha, uno tra Qatar ed Egitto-Hamas, uno tra Israele e Stati Uniti e infine uno tra Paesi arabi e Stati Uniti.
In attesa del possibile accordo, nella quiescente Autorità Nazionale che “governa” la Cisgiordania, si è verificato il primo cambiamento politico dall’inizio del “Diluvio di al-Aqsa”: lunedì 27 febbraio il presidente Abu Mazen ha accettato le dimissioni presentate dal suo primo ministro, Mohammad Shtayyeh, in conseguenza della insostenibile crisi umanitaria e del “genocidio” dei palestinesi di Gaza. Il presidente ha chiesto a Shtayyeh di rimanere in carica per il disbrigo degli affari correnti: non è ancora chiaro chi sarà il successore e quando verrà nominato, anche se tra i media palestinesi circola il nome di Mohammed Mustafa, membro esecutivo dell’Olp e consigliere di Abbas per le questioni economiche. Al Jazeera e The Times of Israel concordano sul fatto che la decisione del primo ministro è frutto della diretta influenza dell’amministrazione americana, intenzionata a “risvegliare” l’Autorità e a rinnovarla, conferendole un ruolo centrale per la gestione del dopoguerra a Gaza. E infatti, come scrive il Washington Post, le dimissioni sono state senza dubbio uno “scossone”, un segnale di vita da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese che da tempo è accusata di inerzia e scarsa iniziativa diplomatica. Si tratta certamente di un segnale positivo, commenta il giornale, anche se, finché Abu Mazen resterà «abbarbicato al potere» sarà difficile pensare al rinnovamento della classe dirigente della Cisgiordania. Se mai l’ottantasettenne e impopolare presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese dovesse rassegnare le dimissioni, sarebbero pochi i sostituti disponibili: tra questi spicca Marwan Barghouti, «rivale di lunga data di Abu Mazen», al centro del delicato e complesso negoziato tra Israele e Hamas. Non a caso il governo israeliano non sembra intenzionato a rilasciare una figura così emblematica e carismatica, anzi l’estrema destra alleata di Netanyahu minaccia di uscire dalla coalizione di governo qualora Barghouti venisse rilasciato. Nel frattempo, anche Qatar ed Egitto stanno lavorando per favorire la nascita di un “governo tecnico” che coinvolga tutte le fazioni politiche palestinesi, inclusa Hamas.
Chiese e moschee colpite in Burkina Faso, ma il presidente silenzia gli oppositori [a cura di Claudio Fontana]
Domenica 25 febbraio è stato l’ennesimo giorno di sangue per il Burkina Faso. Un attentato jihadista ha infatti colpito una chiesa cattolica, provocando almeno 15 morti, mentre un altro ha preso di mira una moschea nella zona orientale del Paese. Nel caso dell’attentato in moschea non è chiaro quante siano precisamente le vittime: la maggior parte dei media scrive di “decine di morti” (come Jeune Afrique o la BBC), mentre l’agenzia turca Anadolu è un po’ più precisa e parla di «almeno 14 persone uccise». Ad ogni modo, il duplice attentato evidenzia un costante deterioramento della sicurezza nel Paese saheliano dove, come ha ricordato Wassim Nasr (France24), solo nel mese di gennaio sono morte 439 persone. Inoltre, nei giorni precedenti al duplice attentato a chiesa e moschea, una serie di attacchi a postazioni militari nel nord del Paese potrebbe aver provocato più di cento morti. Ciononostante, la stampa internazionale ha dedicato tutto sommato scarsa attenzione al caso. Ufficialmente nessun gruppo ha rivendicato gli attacchi, ma tutti gli osservatori li attribuiscono all’insorgenza islamista attiva nel Sahel. La zona dell’attacco alla chiesa (Essakane, nel nord del Paese) coincide con l’area dove solitamente opera ISIS, mostrata chiaramente in questo video (minuto 2:08). Nonostante la presenza di ISIS e al-Qaida, è tutt’altro che scontato che le motivazioni di fondo di questi attacchi siano religiose, ha spiegato a La-Croix Caroline Roussy, direttrice del programma sull’Africa all’Istituto francese di Studi internazionali e strategici: «è difficile determinare se gli eventi di questa settimana siano dipendano da motivi religiosi o se si iscrivano in un insieme di attacchi indiscriminati. I giovani che si uniscono ai ranghi dei jihadisti lo fanno per opportunismo, spesso per fini economici. La lotta religiosa è solo uno strumento». La regione vive infatti una generalizzata fase di violenze iniziata con l’offensiva jihadista del 2012 in Mali, che dal 2015 è traboccata in Niger e Burkina provocando oltre 20.000 morti e più di 2 milioni di sfollati (lo ha ricordato tra gli altri il Guardian).
Come ha ricordato Luke Coppen su Pillar Catholic, c’è poi un altro aspetto: sebbene complessivamente i cattolici burkinabé siano circa 4 milioni (più o meno il 20% della popolazione del Paese), nella diocesi di Dori dove è avvenuto l’attentato, situata nella cosiddetta zona delle tre frontiere, i cattolici rappresentano soltanto l’1,4% della popolazione. Considerando che si stima che gli islamisti siano ormai in controllo di circa il 40% del Paese, non stupisce purtroppo che sia tutto sommato “semplice” colpire una minoranza così esigua. D’altro canto, ha osservato correttamente Coppen, «la minoranza cattolica del Burkina Faso è esposta alle violenze tanto quanto la popolazione generale». L’attacco alla moschea, avvenuto lo stesso giorno nelle regioni orientali del Paese, ne è la tragica dimostrazione. Lo ricorda anche al-Jazeera che sottolinea come anche i leader religiosi siano bersaglio delle violenze: il grande imam della città Djibo è stato rapito e poi trovato morto nel 2021, stessa sorte toccata al missionario cattolico Cesar Fernandez, mentre un altro sacerdote è stato rapito nel 2019 ed è ancora sotto sequestro.
La gestione dell’insorgenza jihadista (o meglio, l’incapacità di farlo) ha portato a una serie di colpi di Stato nella regione: solo nel Burkina Faso se ne sono verificati due nel giro di un anno e ora la gestione del potere è nelle mani del capitano Ibrahim Traorè. Quest’ultimo, però, sembra più concentrato a silenziare gli oppositori politici che a riconquistare il territorio perduto. Come ha raccontato Jeune Afrique, infatti, gli arresti sono all’ordine del giorno, così come le umiliazioni nei confronti di figure come Ablassé Ouédraogo, settantenne ex ministro degli esteri arruolato a forza per combattere contro l’insorgenza e ritratto in video con tuta mimetica e kalashnikov.
La protesta arabo-americana può costare la rielezione a Biden?
La crisi umanitaria e la guerra a Gaza possono incidere sulle chance di rielezione di Joe Biden? Forse sì. Questa settimana il presidente ha vinto le primarie democratiche nell’importante Stato del Michigan con l’81% delle preferenze, di fatto correndo senza rivali. Tuttavia, la notizia è un’altra: il 13% degli elettori democratici ha infatti scelto di votare “uncommitted”, ovvero ha espresso un voto per il partito, ma non l’impegno a favore dei candidati presenti sulla scheda elettorale. In termini assoluti, scrive la BBC, sono poco più di 100.000 le persone che hanno effettuato questa scelta, che esprime la protesta contro le politiche americane di sostegno incondizionato a Israele. Il 13% di schede “uncommitted” è il risultato della campagna “Listen to Michigan” lanciata a inizio febbraio per «respingere con forza il finanziamento da parte di Biden della guerra e del genocidio a Gaza». Come ha ricordato al-Monitor, a capo della campagna c’è Layla Elabed, sorella della deputata Rachida Tlaib, prima donna palestinese-americana eletta al Congresso. Il risultato della campagna è superiore alle aspettative: l’obiettivo di 10.000 schede “uncommitted” dichiarato dai promotori, è stato ampiamente superato. «I risultati di oggi e la nostra delegazione rappresentano un punto di inflessione storico per la creazione di un Partito Democratico che si allinei con la maggioranza dei suoi elettori, che vogliono un cessate il fuoco e la fine del finanziamento senza restrizioni delle armi per la guerra e l’occupazione di Israele contro il popolo palestinese», ha dichiarato enfaticamente Elabed. «È mia speranza, signor Presidente, che lei ascolti noi, che scelga il popolo americano e non Benjamin Netanyahu», ha dichiarato Abdullah Hammoud, sindaco di Dearborn, un sobborgo di Detroit con una grande presenza arabo-americana. Secondo Patricia Lopez (Bloomberg) “Listen to Michigan” ha attuato una strategia intelligente: è efficace e fa a meno di violenza o blocchi stradali, che rischierebbero di alienare potenziali alleati.
A Biden potrebbe convenire ascoltare il suggerimento del sindaco: nel 2020, come ha ricordato al-Jazeera, l’attuale presidente ha strappato il Michigan a Donald Trump per soli 150.000 voti, in gran parte provenienti da due gruppi: gli arabo-americani e i musulmani americani, tutt’altro che favorevoli alle politiche messe in atto dal presidente uscente. Sono proprio questi, oggi, a guidare la protesta contro la politica estera americana. Le principali richieste del movimento degli “uncommitted” sono sintetizzate dall’emittente qatarina: gli Stati Uniti dovrebbero sostenere gli sforzi per un cessate-il-fuoco, per la liberazione degli ostaggi, dei prigionieri politici palestinesi, interrompere il sostegno militare allo Stato ebraico, riprendere i finanziamenti all’UNRWA e fare di più per combattere il crescente risentimento anti-arabo e anti-palestinese. La protesta contro la politica estera di Biden potrà davvero limitarne le possibilità di rielezione? Di certo, la frustrazione per aver sostenuto in passato l’attuale presidente, senza essere ascoltati oggi, potrebbe influenzare l’orientamento del voto. D’altro canto, però, è difficile pensare che nel momento della verità (elettorale) queste persone scelgano, di fatto, di favorire Trump, fautore di politiche ancora più favorevoli a Israele, che darebbero carta bianca a Tel Aviv. Non manca comunque chi, come Zeidan, un cristiano palestinese americano, ha già deciso che non sosterrà Biden a novembre: «non si può strumentalizzare l’idea che, poiché non si è repubblicani, si è il partito migliore, soprattutto quando si sta aiutando un genocidio».
Ma di che corpo elettorale stiamo parlando? Lo US Census non tiene conto degli arabi-americani, ma secondo quanto riportato da Axios si tratta di almeno due milioni di persone, una stima ampiamente al ribasso per i gruppi arabi organizzati. Al-Jazeera, che cita i dati dell’Arab American Institute, afferma che il 65% di questi è cristiano, il 30% musulmano e una piccola parte ebrea. Oltre al già citato Michigan, importanti comunità arabo-americane sono concentrate in Florida, Georgia, Pennsylvania e Virginia. L’esito delle votazioni in almeno tre di questi Stati – Georgia, Michigan e Pennsylvania – sarà con ogni probabilità decisivo nel decidere il prossimo presidente americano.
Iran: elezioni in tono minore
Più di 61 milioni di iraniani sono chiamati alle urne oggi, venerdì 1° marzo, per eleggere i membri del nuovo parlamento (Majles-e showra-ye islami) e dell’Assemblea degli Esperti (Majles-e Khebregan), l’organo composto da 88 chierici incaricati, tra le altre cose, di eleggere la Guida Suprema qualora l’Ayatollah Ali Khamenei, ormai ottantaquattrenne e malato da tempo, dovesse morire. Tutti i candidati, come previsto dalla Costituzione della Repubblica Islamica, sono stati preventivamente valutati dal Consiglio dei Guardiani, un organo i cui componenti sono selezionati dalla Guida suprema e dalla magistratura (qui la spiegazione del funzionamento del “sistema duale” iraniano). Il Consiglio ha squalificato dalla competizione la maggior parte dei candidati riformisti e moderati, ciò che con ogni probabilità influenzerà negativamente l’affluenza alle urne, storicamente piuttosto alta in Iran, almeno fino al 2020. Per avere un’idea di quanto si sia ristretta la possibilità di scelta basta pensare che 105 su 144 candidati totali per l’Assemblea degli Esperti sono sostenuti da gruppi clericali conservatori, mentre i rimanenti i rimanenti 39 corrono come “indipendenti”. Secondo i dati riportati da al-Monitor, per il parlamento sono state invece presentate 49.000 candidature e ne sono state approvate soltanto 15.200. Del resto, già alle ultime elezioni presidenziali (2021) e parlamentari (2020) l’affluenza era significativamente calata. Come ha ricordato al-Jazeera, oltre al ruolo del Consiglio dei Guardiani, altri fattori incidono sulla disaffezione nei confronti delle urne: la crisi economica e la svalutazione della moneta, le sanzioni ancora in vigore, ma soprattutto l’eco delle proteste del 2022 seguite alla morte di Mahsa Amini. Le donne intervistate dalla BBC, per esempio, tutte membri del movimento di protesta per i loro diritti, hanno scelto di non partecipare al voto. Un altro tema riguarda poi la corruzione del ceto politico, l’incompetenza e l’assenza di speranza per un futuro migliore, ha scritto DW. «Ci sono state fasi nella storia della Repubblica Islamica […] durante le quali la popolazione ha creduto nella [possibilità di] riforme delle leggi e degli standard all’interno del sistema, e ha usato le elezioni come un semplice modo per protestare. L’obiettivo era andare contro i leader religiosi e rafforzare gli elementi democratici. Ma il risultato non ha mai portato a riforme effettive, perché il sistema non ha mai seguito la volontà della società», ha dichiarato il sociologo Mehrdad Darvishpour a DW. Così, sintetizza il giornale tedesco, con il tempo il sistema politico iraniano è diventato sempre più radicale ed estremo, e lo spazio per le critiche si è ridotto. Al momento del voto, infatti tutti i centri di potere in Iran sono controllati da figure oltranziste, e ci si aspetta che questa situazione si riproponga anche in seguito a questa tornata elettorale.
Tra coloro ai quali è stata impedita la candidatura figura anche Hassan Rouhani, ex presidente della Repubblica e membro uscente dell’Assemblea degli Esperti, che ha chiesto «un voto di protesta», senza spingersi fino a un esplicito riferimento al boicottaggio delle elezioni. Cosa che invece hanno fatto molti altri, tra cui il premio Nobel Narges Mohammadi, l’attivista Abolfazl Qadiani e il chierico sunnita iraniano Abdolhamid Esmailzehi, noto come Molavi Abdolhamid. Come ha ricordato Amwaj Media, è stato lo stesso fondatore della Repubblica Islamica, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, a dire nel 1979 che il «voto delle persone» è la «misura» delle politiche dello Stato. Ecco perché il suo successore Khamenei anche in questi giorni ha continuamente invitato la popolazione a recarsi alle urne: «l’adempimento di questi doveri e responsabilità [elettorali] è un atto di jihad nell’affrontare il nemico, perché [egli] non vuole che questi doveri siano adempiuti», si legge sul Teheran Times. Secondo Foad Izadi, professore dell’Università di Teheran intervistato dalla CNN, un aiuto agli sforzi del regime potrebbe venire dalla guerra a Gaza: alcuni esponenti politici, come il consigliere del capo dei Guardiani della Rivoluzione Hamidreza Moghadamfar, hanno chiesto di esprimere il voto proprio come protesta contro Israele e i suoi alleati. Alla luce di quanto avviene in Palestina, ha detto Izadi, «una buona percentuale di queste persone, che non amano l’attuale governo iraniano, non accettano quando sentono un funzionario del governo americano parlare di diritti umani in Iran». Secondo Izadi, che ovviamente sorvola sulle responsabilità del suo governo, l’Occidente ha perso il diritto di parola dopo aver permesso il massacro dei palestinesi a Gaza.