Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale
Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 17:22:01
Mentre prosegue l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza, l’amministrazione statunitense si sta attivando per l’avvio di un processo diplomatico finalizzato all’attenuazione della crisi. Come riporta un documento riservato rivelato dalla CNN, i diplomatici americani di stanza nel mondo arabo stanno intanto evidenziando allarmati che il sostegno del loro Paese «alla campagna distruttiva a Gaza causerà la perdita delle popolazioni arabe per una generazione». Un mese dopo il grave attentato di Hamas si stima siano morti più di diecimila palestinesi. La Striscia di Gaza è una lunga distesa di macerie dove mancano beni e servizi essenziali, tanto che l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) definisce il livello di distruzione «senza precedenti», aggiungendo che vi è il concreto rischio di un trasferimento di massa nel sud del Libano. Ma il premier israeliano Netanyahu esclude categoricamente l’opzione del cessate il fuoco fintantoché gli ostaggi non saranno liberati e pensa a un “controllo a tempo indeterminato” della Striscia per ragioni di sicurezza.
Data la gravità della situazione, il Segretario di Stato americano Antony Blinken e i suoi omologhi occidentali hanno elaborato, in occasione del vertice del G7 dei ministri degli Esteri tenutosi tra il 7 e l’8 novembre a Tokyo, un piano per disinnescare il conflitto. Il comunicato emanato alla fine dell’incontro, pur rispettando il diritto di autodifesa israeliano, chiede delle “pause umanitarie” – termine che causa perplessità e incertezza persino nei leader occidentali – e individua nella “soluzione a Due Stati” «l’unico modo per garantire una pace giusta, duratura ed effettiva».
Blinken ha inoltre precisato che Israele non potrà continuare ad occupare la Striscia: una volta debellata Hamas, il territorio dovrà essere (ri)consegnato ad Abu Mazen, ponendo fine alla dualità della leadership araba e ripristinando il comando dell’Autorità Nazionale Palestinese sui Territori. Si tratta di un passaggio importante, che segna un cambio della strategia americana, come rileva sul New York Times Michael D. Shear: «quello che nei giorni immediatamente successivi al 7 ottobre sembrava la difesa a spada tratta di un alleato, ora è diventata una sfida diplomatica ancora più complicata». Il Wall Street Journal ammette che nell’amministrazione americana sta prendendo corpo una «nuova retorica», ma mostra dubbi sulla fattibilità del piano di Blinken osservando che nessun’altro attore politico eccetto Israele ha mostrato l’intenzione di partecipare alla gestione della sicurezza della Striscia nel dopo-Hamas. Tale proposta sembra tra l’altro non combaciare in toto con la posizione di Biden, che secondo la CNN rimane ancora un fervido sostenitore dello Stato ebraico. Il presidente americano non agirebbe sulla base di logiche elettorali e di calcolo politico, ma per sincera convinzione: «due potenti forze interne lo guidano: la prima è la sua familiarità con la storia del popolo ebraico e l’imprescindibile ruolo di uno Stato ebraico nella lotta all’antisemitismo. La seconda è […] la sensazione che il mondo si trovi di fronte a un punto di svolta, potenzialmente catastrofico, in cui forze pericolose minacciano di superare le norme internazionali stabilite alla fine della Seconda guerra mondiale». Anche la stampa israeliana si è ormai accorta che la politica americana è sempre più divisa tra un gruppo ancora saldamente legato a Tel Aviv e un altro, in crescita, che condanna le violenze con maggiore decisione. Haaretz spiega bene quale sia la strategia di Israele, ossia ricorrere a una “non strategia”: «in assenza di un chiaro, coerente, ben definito obiettivo politico, Israele rimarrà invischiato a Gaza a suo detrimento». Si sta dunque creando un circolo vizioso in cui il governo israeliano punta tutto sui successi militari, che altro non sono che una serie di tattiche sbagliate che suppliscono all’assenza di una strategia e di un piano politico di lungo periodo.
«Che farsa», questa Pax Americana, commenta indignato Marwan Beshara, analista di Al Jazeera. Il fatto di pensare a un piano di pace con i bombardamenti ancora in corso è di per sé paradossale. Sbalorditiva, per l’autore, la dabbenaggine dell’Autorità Nazionale Palestinese e di Abu Mazen nell’abboccare alle promesse di Blinken: «la semplice idea che l’Autorità faccia ritorno a Gaza a bordo dei jet e dei carri armati israeliani che hanno raso al suolo la città è assolutamente folle».
Il vertice del G7 ha anche avuto l’effetto di accelerare un mutamento della politica estera del Paese che ha ospitato l’incontro. Michael Macarthur Bosack, diplomatico americano che in passato ha collaborato con il governo nipponico, scrive sul Japan Times che la «posizione sfumata» di Tokyo, storico sostenitore del diritto di autodeterminazione dei palestinesi ma allo stesso tempo molto legato a Israele, non sembra più percorribile. Secondo l’autore occorre infatti servirsi di un’azione umanitaria più incisiva, dato che il Giappone, che detiene la presidenza di turno del G7, «ha una postura unica, che gli permette di fare quello che altre potenze non possono fare». Il tradizionale antimilitarismo, l’ordinamento democratico, le cospicue risorse finanziarie e la lontananza geografica dal Medio Oriente sono tutti elementi che ben si adattano al ruolo di un attore super partes e votato alla risoluzione della crisi umanitaria. Un’iniziativa del genere sta peraltro apportando anche benefici di natura geostrategica. A tal proposito, il primo ministro Fumio Kishida ha dispiegato a Gibuti alcuni aerei delle Jeitai – le forze di auto-difesa giapponesi (JSDF) – in preparazione per un piano di evacuazione dei connazionali rimasti a Gaza; ciò serve certamente a sottolineare l’impegno del Paese nelle operazioni di peacekeeping, ma al contempo rappresenta «una rara opportunità di cooperazione e coordinamento con altri partner asiatici».
Per Foreign Policy, invece, le prospettive sono molto meno ottimiste: la guerra in Medio Oriente non è una buona notizia per Taiwan, Giappone, Filippine o qualsiasi altro Paese che subisce pressioni dalla Cina. Anche gli Stati Uniti stanno distraendosi da altri scenari: «ci sono ventiquattr’ore in un giorno e sette giorni in una settimana. Il presidente Joe Biden, il Segretario di Stato Antony Blinken e gli altri ufficiali statunitensi non possono volare avanti e indietro verso Israele e altri Paesi mediorientali e continuare a dedicare un’adeguata attenzione ad altre zone».
L’Asse della resistenza è veramente un asse? [a cura di Claudio Fontana]
Lo scorso venerdì gli osservatori internazionali e, soprattutto, gli abitanti di tutto il Medio Oriente, erano con il fiato sospeso nell’attesa che Hassan Nasrallah, leader del partito-milizia sciita libanese Hezbollah, prendesse la parola per comunicare intenzioni e prossime mosse del “Partito di Dio”. Il timore era che Hezbollah entrasse in guerra contro Israele, provocando l’allargamento e l’ulteriore inasprimento del conflitto. Questo per fortuna non è avvenuto, come abbiamo commentato a caldo nel precedente Focus attualità: siamo in guerra dall’8 ottobre, ha detto il chierico sciita, lasciando intendere che Hezbollah sta già svolgendo il suo compito e non è necessario immaginare un coinvolgimento più ampio. Naturalmente Nasrallah si è speso in grandi lodi per quanto fatto da Hamas ma, almeno per ora, non intende aiutarlo maggiormente. «Sembrava un guerriero, ma non ha dichiarato guerra», ha sintetizzato Kim Ghattas (Columbia University) sul Financial Times. D’altro canto, secondo Randa Slim (Middle East Institute) il destinatario principale del discorso è il pubblico interno di Nasrallah, tanto nella comunità sciita quanto in quelle sunnita e cristiana. Il discorso è servito a dare forma alla narrazione dei fatti di Hezbollah, secondo la quale l’obiettivo del Partito di Dio è difendere «persone disarmate e indifese» dall’attacco israeliano, ma anche opporsi agli Stati Uniti, ritenuti i veri responsabili del conflitto in corso – in piena sintonia con la narrazione iraniana. Sabato 11 è previsto un nuovo intervento di Nasrallah e vedremo se questi fornirà ulteriori informazioni sul ruolo di Hezbollah.
Intanto ha parlato anche il suo vice, Naim Qassem, il quale ha concesso un’intervista all’emittente americana NBC News in cui ha dichiarato che la milizia «partecipa [al conflitto] con l’obiettivo di diminuire la pressione su Gaza», mantenendo Israele impegnato sulla sua frontiera nord. Qassem ha spiegato che la postura di Hezbollah è quella della «deterrenza». Una posizione che poteva essere comprensibile all’inizio della guerra, quando non era chiaro se lo Stato ebraico sarebbe entrato a Gaza oppure no. Ma ora che l’invasione di terrà è avvenuta, a cosa serve la deterrenza di Hezbollah? A ogni modo, come hanno commentato Matt Bradley e Natasha Lebedeva, anche Qassem ha accuratamente evitato di prendere impegni nei confronti di Hamas. L’interrogativo di Hezbollah è sintetizzato da Mohanad Hage Ali (Carnegie Middle East Center) su Arab News: da un lato il gruppo sciita è minacciato dalla presenza di due portaerei americane nella regione, che in caso di allargamento del conflitto concentrerebbero i loro attacchi proprio su Hezbollah, dall’altro è spinto dagli alleati libanesi «a risparmiare al Libano una distruzione che avrebbe un impatto di lungo periodo per la popolazione». Tuttavia, secondo Hage Ali il Partito di Dio si trova di fronte a un dilemma strategico: partecipare al conflitto oggi, a un prezzo probabilmente altissimo in termini di vite umane, oppure non farlo, ma «trovarsi in una posizione molto difficile nella prossima fase».
Il parziale attendismo di Hezbollah potrebbe però significare qualcosa di più che una semplice impasse. Secondo l’analisi del discorso di Nasrallah elaborata da Salah Hijazi per il quotidiano libanese L’Orient Le Jour, il fatto che Nasrallah abbia auspicato la vittoria di Hamas «per Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme» è in realtà l’espressione di una posizione più «moderata» rispetto alla «consueta minaccia di cancellare semplicemente Israele dalla carta geografica per consentire la creazione di uno Stato palestinese su tutto il territorio della Palestina mandataria, dal Giordano al Mediterraneo». Secondo Hijazi, l’attuale posizione di Hezbollah è ancora più significativa se si considera che il Primo ministro libanese Najib Mikati, «il cui principale sostenitore è Hezbollah, [ha proposto di] includere l’Iran nell’iniziativa di pace araba del 2002». Ciò che implicitamente vorrebbe dire riconoscere l’esistenza di Israele e lavorare per la soluzione a due Stati.
La posizione espressa una settimana fa da Nasrallah è significativa anche dal punto di vista regionale perché mostra i limiti del cosiddetto “Asse della Resistenza”: in Libano, ha scritto Michael Young (Carnegie Middle East Center) «c’è simpatia per i palestinesi, [ma] il collasso economico del 2019 ha reso impossibili espressioni più avanzate di solidarietà». Del resto, se ci spostiamo al livello degli alleati internazionali di Hezbollah e di Israele, «fin dall’inizio è stato chiaro che gli iraniani e gli americani condividono l’obiettivo di non permettere che il conflitto a Gaza sfugga di mano e sfoci in una guerra regionale che potrebbe coinvolgere entrambi i Paesi». Ciò sembrerebbe confermato dal fatto che dopo il discorso di Nasrallah, i vertici e i media iraniani hanno lodato l’«intelligente strategia» del movimento libanese e, al tempo stesso, hanno invitato a Teheran il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, il quale ha incontrato la Guida suprema Ali Khamenei. In realtà, secondo fonti citate da Amwaj Media, all’inizio dell’estate a Teheran sono state riunite le principali fazioni dell’Asse ed è stata creata una “Camera operativa congiunta” che avrebbe dovuto guidare i componenti dell’alleanza verso quello che Khamenei ha definito l’obiettivo principale: la liberazione di Gerusalemme. Tuttavia, sono piuttosto componenti minori dell’Asse ad aver intrapreso azioni militari dirette, come è il caso del movimento yemenita Ansarullah (gli Houthi) o della nuova formazione irachena nota come Resistenza islamica in Iraq. Il significato politico del mancato coinvolgimento diretto di Hezbollah e dell’Iran è che Teheran «ha speso gli ultimi 44 anni usando la causa palestinese per promuovere i propri interessi e migliorare la sua posizione con gli Arabi […] ma l’elemento palestinese della strategia sembra aver fatto il suo corso» con l’attacco di Hamas del 7 ottobre, ha commentato Ghattas sul Financial Times.
Arabia Saudita: la normalizzazione con Israele è ancora sul tavolo [a cura di Claudio Fontana]
Su iniziativa dell’Arabia Saudita, l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC) ha convocato un vertice d’emergenza a Riyad per discutere della situazione a Gaza. Per l’occasione, anche il presidente iraniano Ebrahim Raisi si recherà in Arabia Saudita. La posizione saudita è particolarmente complessa, come abbiamo già illustrato in altre puntate del nostro Focus. Il Regno, ha scritto Amélie Zaccour su L’Orient Le Jour, si trova nella stessa difficoltà di chi «cammina sulle uova»: mentre negli ultimi mesi Riyad ci aveva abituato a un certo attivismo diplomatico, riguardo a Gaza Riyad si è limitata a convocare due riunioni, della Lega Araba e dell’OIC, «due istituzioni poco influenti, ma che hanno generato una forma di unità araba e musulmana di cui il Regno si è fatto garante». L’obiettivo saudita sarebbe soprattutto mediatico: «vogliono che il mondo esterno capisca che la loro importanza all’interno del mondo musulmano resta fondamentale», ha scritto Zaccour. Tuttavia, mentre condanna le azioni di Israele e l’estremismo del governo guidato da Netanyahu, l’Arabia Saudita «non vuole correre il rischio di alienarsi le capitali occidentali che mostrano il loro sostegno allo Stato ebraico, in particolare gli Stati Uniti. Anche se sospesa, la normalizzazione con Israele è ancora sul tavolo».
Ecco perché Riyad ha scelto di non utilizzare gli strumenti di cui dispone, come il controllo della produzione e dell’esportazione di petrolio, per premere su Israele e gli Stati Uniti affinché si fermi la guerra. È stato il ministro degli Investimenti sauditi Khalid Al-Falih, a precisare che il progetto di normalizzazione con Israele non è venuto meno, ma il percorso diplomatico è legato «alla soluzione pacifica della questione palestinese». Del resto, come ha spiegato su Foreign Affairs il grande esperto di affari sauditi Gregory Gause III, «gli incentivi che hanno portato l'Arabia Saudita a considerare il riconoscimento di Israele non sono scomparsi». Gli ambiziosi obiettivi economici di MbS, che vanno sotto l’etichetta di Vision 2030, possono essere raggiunti solo in un Medio Oriente stabile e «con forti legami con gli Stati Uniti»; è «questo obiettivo di lungo termine a influenzare la linea d’azione [saudita] nell’attuale conflitto».
In Occidente la guerra a Gaza divide politica e società [a cura di Francesco Pessi]
La violenza della risposta israeliana all’attacco del 7 ottobre sta comportando una crescente difficoltà per diversi Paesi occidentali, che mentre sostengono il diritto all’autodifesa dello Stato ebraico devono gestire, sia all’interno che all’esterno, critiche e polemiche sul modus operandi del loro alleato. Oltre all’appello a «pause umanitarie» volte ad alleviare le sofferenze dei civili palestinesi, l’Unione Europea ha annunciato lo stanziamento di 25 milioni di euro in aggiunta agli 80 già spesi in aiuti umanitari per Gaza. La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha lamentato la lentezza del flusso di aiuti attraverso il valico di Rafah, e ha annunciato che «l’UE sta lavorando su rotte alternative per far[li] pervenire, inclusa la consegna via mare da Cipro», scrive Al-Jazeera.
Una forte polemica nei confronti della posizione dell’UE si registra da parte turca. Fin dal 7 ottobre il presidente Recep Tayyip Erdoğan si era posto in palese contrasto con gli Stati del Vecchio Continente, descrivendo Hamas come un movimento di «liberazione». La risposta europea è arrivata questa settimana, nell’ambito delle lunghe procedure per la valutazione dell’ammissione turca all’Unione. Il report prodotto dall’apposita commissione, oltre a segnalare «i passi indietro delle istituzioni democratiche turche», descrive «la retorica [della Turchia] a supporto del gruppo terrorista Hamas» come «in totale disaccordo con l’approccio dell’Unione Europea», come riporta tra gli altri il Financial Times. Malgrado il duro rimprovero, il ministro degli Esteri turco ha tenuto a ribattere affermando che l’Unione Europea «si trova dalla parte sbagliata della storia rispetto a un massacro di civili […] che le politiche basate su valori universali, diritto internazionale e principi umanitari dovrebbero essere valide non solo in Ucraina […] ma in tutto il mondo, incluso il Medio Oriente.» Il parlamento intanto ha messo in atto il boicottaggio di alcuni marchi occidentali accusati di sostenere Israele: ristoranti e caffetterie non servono più prodotti Coca-Cola e Nescafé. «All’Assemblea Nazionale non useremo alcun prodotto delle compagnie che supportano l’aggressione israeliana», ha detto il portavoce del parlamento Numan Kurtulmus. In parallelo a tale dichiarazione, Al-Monitor segnala la rottura dei rapporti tra diverse istituzioni accademiche turche e quelle israeliane, accusate di «rimanere silenti o di supportare il trattamento dei civili palestinesi da parte di Israele.» Alcuni ristoranti McDonald’s in Turchia hanno subito atti di vandalismo, e la compagnia ferroviaria nazionale ha ritirato i prodotti Starbucks dalle proprie caffetterie sui treni.
Oltre al fronte diplomatico, la guerra tra Israele e Hamas impegna l’Occidente anche sul piano interno. In Francia, dove le ricadute sociali del conflitto sono state evidenti fin dall’inizio (ne avevamo parlato qui), aumenta la preoccupazione per la crescita dell’antisemitismo a seguito del tentato omicidio di una donna ebrea a Lione questo martedì. L’attentatore, dopo aver ferito la donna con due coltellate, ha presumibilmente inciso una croce uncinata sulla sua porta di casa prima di scappare. Sui muri di Parigi sono anche comparse circa duecentocinquanta stelle di Davide all’ingresso di vari condomini del decimo e sedicesimo arrondissement. In questo caso però non si tratterebbe di gesti di odio suscitati dalla tragedia di Gaza, ma di un vero e proprio piano a regia russa. A dipingere i graffiti sono stati infatti tre cittadini moldavi formalmente in visita turistica in Francia, i quali hanno diffuso le immagini attraverso la piattaforma online Döppelganger. Secondo la ricostruzione di Le Monde, il gesto avrebbe dunque poco a che vedere con l’antisemitismo crescente nella società francese, e molto con l’ambizione russa di fomentare le divisioni interne alle società europee per destabilizzarle politicamente.
Un episodio di natura analoga si è verificato negli Stati Uniti. In una cittadina delle California due manifestazioni, una di sostegno a Israele e l’altra alla Palestina, si sono incrociate degenerando in un violento alterco tra un anziano ebreo e alcuni manifestanti filopalestinesi. Secondo quanto riporta il Wall Street Journal, uno di essi avrebbe colpito l’anziano con il proprio megafono, uccidendolo. Il sindaco di Los Angeles Karen Bass ha invitato i cittadini «a evitare di saltare a conclusioni affrettate, sensazionalizzare la tragedia a scopi politici, o diffondere voci che potrebbero incrementare inutilmente la tensione, già giunta a un livello senza precedenti.» Oltreoceano l’acceso dibattito sul sostegno militare e politico a Israele, che vede le frange democratiche e repubblicane più estreme paradossalmente unite nell’avversione alla linea adottata dall’amministrazione Biden, ha portato alla “censura” della deputata democratica di origini palestinesi Rashida Tlaib da parte della Camera dei Rappresentanti. Il provvedimento riguarda una dichiarazione da parte di Tlaib accusata di «promuovere narrazioni false e inneggiare alla distruzione dello Stato di Israele.» Come riporta il Financial Times, da parte sua «Tlaib ha ammonito Biden che la sua posizione sulla guerra potrebbe costargli il supporto dei democratici nel vitale Stato in bilico del Michigan nella corsa alla Casa Bianca 2024».
Ma la conflittualità sociale interna all’Occidente ha anche importanti ricadute sul piano politico. In Francia, il Front National di Marine Le Pen, tra i più fermi sostenitori di Israele fin dal 7 ottobre, ha immediatamente aderito alla marcia contro l’antisemitismo indetta per domenica dal presidente del Senato Gérard Larcher e dalla presidentessa dell’Assemblea Nazionale Yaël Braun-Pivet. «Una posizione singolare tenuto conto delle radici di un partito co-fondato da un ex-membro delle Waffen-SS e a lungo guidato da Jean-Marie Le Pen, condannato sei volte per affermazioni antisemite e negazionismo», scrive Le Monde.
La situazione nel Regno Unito ricalca parzialmente quella francese, ma a parti invertite. A Londra, a far discutere sia la politica che le istituzioni è infatti il nullaosta concesso dalle autorità di polizia alla manifestazione pro-Palestina, prevista per sabato. Malgrado la forte pressione sul segretario agli Interni Suella Braverman perché la manifestazione venisse vietata, il capo della polizia Sir Mark Rowley ha insistito «sull’insufficienza di indizi che esista un serio rischio di disordine pubblico.» Come scrive il Guardian, anche se «il commissario in capo può chiedere al segretario agli Interni di vietare manifestazioni pubbliche», Rowley ha affermato che «l’uso di tale facoltà è estremamente raro e deve essere fondato su indizi concreti». Ma anche oltremanica la polarizzazione è forte, e le polemiche sono continuate con ulteriori appelli da parte del movimento “Campagna contro l’antisemitismo” per impedire la marcia, al momento senza esito.
Foreign Policy offre una panoramica delle divisioni tra «radicali e i socialdemocratici» che il conflitto mediorientale sta creando in seno alla Sinistra europea. Se La France Insoumise di Jean-Luc Melanchon, rifiutandosi di definire Hamas un movimento terrorista, rischia di frammentare definitivamente la già fragile alleanza progressista con Verdi e Socialisti, il leader del partito laburista britannico Keir Starmer ritiene che «Israele abbia il diritto di privare Gaza di acqua ed elettricità», un’affermazione che va letta nell’ambito delle «cicatrici lasciate dagli scandali a sfondo antisemita che hanno afflitto il partito pochi anni fa», ma che potrebbero allo stesso tempo alienare al Labour i numerosi elettori di fede musulmana. In Spagna, il ministro degli Esteri del governo guidato da Pedro Sánchez ha dovuto prendere le distanze dall’alleata Ione Ibarra, leader di Podemos, che aveva paragonato la campagna militare israeliana a «un genocidio». L’estrema sinistra tedesca di Die Linke si è invece schierata compatta con la linea di pieno sostegno a Gerusalemme decisa dal cancelliere Olaf Scholz, che si è tradotta nel decuplicarsi delle vendite di armi da parte della Germania a Israele nel 2023 rispetto al 2022.
In breve
Benjamin Netanyahu lo chiama “morto che cammina” ma, dopo 22 anni nelle carceri israeliani, Yahya Sinwar ne è uscito e ha ingannato tutti: prima ha ammesso la superiorità israeliana e invocato una tregua, poi ha organizzato i devastanti attacchi del 7 ottobre. Oggi è l’uomo più ricercato di Gaza. Il Financial Times ha descritto la parabola del “macellaio di Khan Younis”.
Mercoledì l’esercito azero ha tenuto una parata militare nell’ex-capitale del Nagorno-Karabakh, Stepanakert, alla presenza del presidente Ilham Aliev. Dall’enclave armena, conquistata da Baku a ottobre, sono fuggiti in Armenia oltre centomila rifugiati (L’Orient le Jour).
Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo, ha espresso la propria preoccupazione a proposito della dichiarazione del ministro del Patrimonio Amihai Eliyahu riguardo la possibilità di sganciare una bomba atomica su Gaza, che tradirebbe il possesso di ordigni nucleari da parte di Israele (Al-Jazeera).