Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 14/06/2024 12:24:22
Anche questa settimana le prime pagine della stampa araba erano dedicate al conflitto israelo-palestinese e, in particolare, alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per un cessate il fuoco a Gaza, su cui al momento però Hamas e Israele non hanno ancora trovato un accordo. I quotidiani tradizionalmente vicini alla causa palestinese attribuiscono a Israele la responsabilità della mancata intesa, mentre i media filo-emiratini e filo-sauditi ritengono Hamas responsabile del nulla di fatto e colgono come sempre l’occasione per denigrare i movimenti islamisti in generale. Al-Quds al-‘Arabi elogia la buona volontà di Hamas e accusa Israele di sabotaggio e opportunismo – Tel Aviv vuole «garantirsi il rilascio dei prigionieri, continuare la guerra e tenere in vita il suo governo», e non è disposto a concedere nulla. Il governo di Israele, prosegue l’editoriale, «sembra bloccato nella cornice di questa spaventosa scena apocalittica e nei tentativi di ingannare miseramente continuando a comportarsi come se fosse una vittima da un lato, e l’orco del mondo che non ne ha mai abbastanza del sangue di bambini, donne e uomini, dall’altro».
Sullo stesso quotidiano anche il giornalista siriano Bakr Sidqi critica il silenzio di Israele, che non si è ancora espresso chiaramente sulla risoluzione, e l’ipocrisia degli Stati Uniti, che non hanno commentato il silenzio israeliano ma, in cambio, hanno criticato Yahya Sinwar, il capo di Hamas a Gaza, «come se Sinwar e l’ala militare del movimento che rappresentano, scrive candidamente Sidqi, fossero il partito aggressore che non vuole la fine della guerra!»
Significativa anche la vignetta pubblicata ancora su al-Quds al-‘Arabi dall’ironico titolo “Un’iniziativa americana”, in cui si vede Netanyahu ergersi a paladino della libertà sollevando una colomba con un cappello a stelle e strisce.
Fioccano le accuse all’America anche sul quotidiano panarabo al-‘Arabi al-Jadid, dove lo scrittore palestinese Sameer Zapen rimprovera gli Stati Uniti di fare da decenni il bello e il cattivo tempo in tutto il Medio Oriente: «hanno occupato due Paesi e ne hanno attaccati centinaia, qua e là, sempre per il bene della loro sicurezza per poi accorgersi, dopo aver speso centinaia di miliardi di dollari, che questa politica era sbagliata e che dovevano ritirarsi dall’Iraq e dall’Afghanistan, senza peraltro mai scusarsi per le uccisioni e la distruzione causate». Qualcosa di simile accade ora con il loro «sostegno all’occupante [israeliano] nella sua guerra brutale contro i palestinesi di Gaza», scrive l’editorialista. Gli Stati Uniti pensano di «essere gli unici ad avere il diritto di determinare il bene e il male, e che il mondo debba sottomettersi alla loro volontà. Soltanto loro possono determinare chi è la vittima e chi il carnefice, anche se la realtà è diversa dalla loro visione distorta». Questo, commenta Zapen, è ciò che sta accadendo con la guerra a Gaza, che l’America considera difensiva per Israele.
Di segno opposto i commenti pubblicati dalla stampa filo-emiratina e filo-saudita. Sul quotidiano londinese al-‘Arab, il giornalista yemenita Hani Salem Mashour paragona Sinwar a Juhayman al-‘Otaybi, il ribelle saudita che nel 1979 guidò il gruppo di militanti che occuparono la moschea di Mecca per due settimane. Due personaggi uniti «dalla medesima visione dottrinale e dal crimine», scrive l’editorialista, accomunati cioè dall’orientamento ideologico che «rende lecito versare il sangue e utilizzare gli innocenti come scudi umani nelle battaglie per perseguire gli obbiettivi». Questo pensiero, prosegue l’editoriale, era alla base anche dell’azione di Abu Musab al-Zarqawi (uno dei fondatori dello Stato islamico in Iraq), Abu Bakr al-Baghdadi (califfo dell’Isis) e Osama bin Laden. Proprio come questi terroristi «non riconoscevano il valore dell’essere umano e hanno fatto del sacrificio di vite umane un mezzo per raggiungere i loro presunti obiettivi politici e religiosi», così Sinwar «sfrutta i civili palestinesi nella sua lotta contro Israele. Con il pretesto della resistenza, Sinwar utilizza i civili come scudi umani, esponendoli al pericolo e accrescendone le sofferenze». L’antidoto alla violenza, conclude l’editorialista, è «il rinnovamento del discorso religioso» e la promozione a livello del governo e delle istituzioni religiose di «un’adeguata educazione religiosa, che promuova i valori della tolleranza e del rispetto reciproco». Il riferimento è chiaramente alle politiche adottate dagli Emirati, da anni promotore del concetto di «tolleranza religiosa», di cui Mashour è un grande sostenitore, come si evince dalle fotografie che pubblica sui suoi canali social.
Su al-Sharq al-Awsat il giornalista saudita Mashari Althaydi ha commentato l’infelice dichiarazione di Sinwar per cui «la morte e l’uccisione di altri palestinesi infonderanno vita nelle vene di questa nazione spingendola verso livelli più elevati di gloria e onore… Il crescente numero di vittime civili creerà una pressione globale su Israele». Questa, scrive l’editorialista, è la lente attraverso cui il capo di Hamas a Gaza guarda il mondo. E paragona Sinwar ad alcuni dei personaggi più oscuri della storia araba contemporanea, tra cui Hassan Nasrallah, Khomeini, Khamenei, Osama bin Laden, al-Zawahiri, al-Baghdadi, Saddam Hussein e Gheddafi. A unirli la volontà di «trasformare il sangue umano, le vite e il futuro distrutto delle persone, e il rogo dei loro figli [morti] sotto i torrenti di fuoco riversati su di loro dal cielo o dalla terra, in “capitale” politico e munizioni per la mobilitazione mediatica nel mercato della politica». L’editoriale si conclude con una citazione coranica che suona come un monito a Sinwar: «Non gettatevi nella perdizione con le vostre stesse mani» (2,195).
Le dichiarazioni di Sinwar sono state però smentite da Ghazi Hamad, membro dell’ufficio politico di Hamas a Gaza, intervistato mercoledì da Rasha Nabil, giornalista dell’emittente saudita al-‘Arabiyya. Secondo Hamad, «tutte le fughe di notizie sul desiderio di Yahya Sinwar di prolungare la guerra sono false». Sinwar, come le altre fazioni palestinesi impegnate nel conflitto, «vorrebbe porre fine alla guerra e fermare l’aggressione».
Il Libano in balia di un «demone» e «sull’orlo del baratro»
Un altro fronte che da diverse settimane preoccupa i media arabi è il Libano. Il livello di tensione tra il Paese dei cedri e Israele è alle stelle, a questo si aggiungono il vuoto politico, la crisi finanziaria ed economica. «Gli scontri iniziati lo scorso 8 ottobre su iniziativa di Hezbollah hanno cominciato ad assomigliare a una vera guerra», scrive su al-Nahar il giornalista libanese Ali Hamade, soprattutto dopo che nei giorni scorsi Israele ha ucciso uno dei comandanti di Hezbollah. Il rischio escalation sarà elevato soprattutto durante l’estate per due fattori: le dimissioni di Benny Gantz dal gabinetto di guerra israeliano; le primarie americane, che segnano un declino dell’interesse statunitense per la guerra a Gaza a fronte di una maggiore concentrazione sulle questioni interne, e una minore capacità del presidente Biden di esercitare pressioni sulle parti coinvolte nel conflitto. Il Libano «è in bilico tra l’orlo del baratro e il baratro stesso», con la possibilità che il Paese entri in guerra. Hamade conclude la sua riflessione rivolgendo una domanda a Hezbollah, se «non sia ancora giunto il momento di mettere fine a una guerra che rappresenta un pericolo per Libano più che per Israele».
Fino a poco tempo fa, le due principali preoccupazioni dei libanesi erano la presenza massiccia di rifugiati siriani nel loro Paese e l’incapacità del governo di esprimere un presidente della Repubblica. Nelle ultime settimane però lo scenario è cambiato, scrive Khairallah Khairallah sul sito d’informazione Asasmedia, perché il Libano è rimasto coinvolto nella guerra di Gaza e la domanda ora è che cosa accadrà al Paese. Il timore è che Beirut possa diventare per sempre un feudo iraniano, anche perché al momento «non esiste una forza libanese coesa capace di trovare un equilibrio con una fazione armata [Hezbollah] legata alla Guardia rivoluzionaria iraniana, che ha trasformato il Libano in un’“arena” in cui la “Repubblica islamica” fa ciò che vuole». Oggi la questione della diaspora siriana e della nomina del presidente sono diventate dei diversivi per distrarre dai veri problemi del Paese, scrive l’editorialista: «La presidenza della Repubblica è diventata una sorta di labirinto utilizzato per immergere il Paese in una preoccupazione che non è la sua vera preoccupazione. Non ha molto senso avere un presidente della repubblica se la repubblica non esiste più».
«Il futuro del Libano è nella mani di un demone [Hezbollah]», scrive ancora Khairallah Khairallah su al-‘Arab. Un demone che fa il bello e il cattivo tempo, «decide per la guerra o per la pace, e impedisce l’elezione del presidente della Repubblica». Il Libano è sull’orlo di una catastrofe che nessuna forza al suo interno può prevenire: il Paese «sta pagando a caro prezzo l’assenza di cristiani e sunniti, mentre il leader druso Walid Jumblatt non ha altra preoccupazione se non proteggere la sua confessione dall’estinzione in questo mondo brutale e in una regione in cui prevale la legge della giungla». Il destino del Libano dipenderà anche dalle condizioni che l’Occidente vorrà imporre a Teheran, ma comunque il rischio è che il Paese dei cedri sia abbandonato «al desiderio iraniano di controllarlo sempre di più da un lato, e alla brutalità israeliana, che non conosce limiti, dall’altro».
Il già citato Hani Salem Mashour solleva il problema dell’identità nazionale del Paese e del suo sistema politico. Ricordiamo che fino a oggi le tre cariche principali dello Stato (Presidente della Repubblica, Primo ministro e Presidente del Parlamento) sono divise tra le tre confessioni maggioritarie (cristiani maroniti, sunniti e sciiti), così come i seggi in Parlamento sono divisi in quote fisse distribuite tra le diverse confessioni riconosciute dallo Stato. Questo sistema però è a rischio, spiega l’editorialista, perché, da un lato, Nasrallah chiede «una conta demografica» del Paese e continua «a ricordare ai libanesi che il suo partito, che rappresenta la più grande base popolare, dispone di 100.000 combattenti e di armi sofisticate», e dall’altro «le voci cristiane continuano a chiedere la secessione o l’istituzione di un sistema federale». Queste due culture, commenta Mashour, si scontrano con violenza e costituiscono «un passo pericoloso verso l’indebolimento della «Carta di convivenza» su cui è stato fondato lo Stato libanese» e sollevano delle domande sull’unita del Paese. «Può il Libano tollerare un solo capo al comando, che stabilisce la direzione politica del Paese, come nel modello iraniano, fondato sull’autorità del giurista (wilāyat al-faqīh)? O invece il suo vero valore risiede nella pluralità delle sue componenti?»