Quando, alla metà del XIII secolo, il funzionario copto Ibn al-‘Amīd fu gettato in prigione dal Sultano Baybars, si mise a redigere un compendio di storia universale. La sua opera sarebbe divenuta uno degli esempi più rilevanti di scambio intellettuale tra cristiani e musulmani nell’epoca premoderna

Ultimo aggiornamento: 14/05/2024 15:45:41

Nell’ottobre del 1264 al-Makīn Ibn al-‘Amīd languiva in prigione. Membro di un’influente famiglia di notabili copti, nato al Cairo nel 1206, si era fatto strada nell’amministrazione statale, prima in Egitto e poi in Siria, finché gli era stata affidata una posizione di rilievo nel Dipartimento dell’Esercito (Dīwān al-jaysh) sotto al-Nāsir Yūsuf, l’emiro ayyubide di Aleppo e Damasco. Tuttavia, l’effimera occupazione mongola di Damasco nel 1260 e l’atteggiamento imprudente di un suo nipote in questo snodo delicatissimo ne causarono la caduta. Nel 1262, due anni dopo la riconquista mamelucca della Siria, Ibn al-‘Amīd visse un primo periodo di disgrazia: il Sultano Baybars lo chiamò in Egitto e lo fece punire. Poco dopo, tuttavia, per uno strano gioco del destino il notabile copto fu rilasciato e addirittura promosso ad amministratore capo dell’esercito in Egitto e Siria. Ben presto però fu accusato di cospirare con i mongoli e fu nuovamente arrestato. Anche se l’accusa era stata probabilmente montata ad arte da uno scriba rivale, la sua carriera fu irrimediabilmente rovinata. Trascorse più di dieci anni in prigione e quando fu liberato si ritirò a vita privata. Morì a Damasco, forse nel 1293.

 

Il 23 ottobre 1264 Ibn al-‘Amīd cominciò a scrivere una storia universale dalla creazione del mondo ai suoi giorni, che intitolò semplicemente Kitāb al-Ta’rīkh, “Libro di storia”. Era alla ricerca di una distrazione o forse di una consolazione dalla sua infelicità? Non lo sappiamo, perché l’autore è molto discreto sul proprio conto. Quello che sappiamo, però, è che la sua opera era destinata a riscuotere un grande successo non solo tra i cristiani orientali, ma anche tra gli storici musulmani e gli arabisti europei della prima età moderna.

 

Una compilazione ben assortita

 

Tecnicamente, il libro di Ibn al-‘Amīd è una cronografia universale, cioè un resoconto di eventi passati organizzati in un ordine cronologico di massima e secondo una successione di personaggi. Ideato da Giulio Africano (ca. 160-240), questo genere letterario divenne molto popolare nell’antichità tardiva, in particolare negli ambienti greci e siriaci. Fondendo storia sacra, profana ed ecclesiastica in un’unica narrazione continua dalla creazione al presente, esso rispondeva agli interessi di varie categorie di lettori. Dopo la conquista araba, si iniziarono a produrre cronografie anche in arabo, principalmente ad opera di autori melchiti, come Eutichio (m. 940) e Agapio (m. dopo il 942), e più tardi anche per mano di scrittori siri occidentali e orientali, come Elia di Nisibi (m. 1046) e Bar Hebraeus (m. 1286). Per contro, e con un’unica eccezionale, gli autori copti non praticarono questo genere fino al XIII secolo, quando la riunificazione di Siria ed Egitto sotto gli Ayyubidi creò un nuovo clima culturale. Gli scambi tra il Cairo e il Bilād al-Shām divennero allora molto più facili e un circolo d’intellettuali copti, gli Awlād al-‘Assāl, si mise alla testa di una vivace rinascita culturale, il cosiddetto Rinascimento Copto. Questa rinascita fu favorita, tra le altre cose, anche dall’affermazione dell’arabo come lingua franca dell’intera regione. In questo contesto, molti testi prodotti da cristiani di altre denominazioni, ma anche da ebrei e musulmani, andarono ad arricchire la biblioteca copto-araba. Un primo frutto di questa rinascita fu il Kitāb al-Tawārīkh. Completato nel 1257 dal monaco egiziano Ibn al-Rāhib, il Kitāb al-Tawārīkh tratta dei diversi calendari allora in uso nel Medio Oriente e di come determinare la data delle feste cristiane. Contiene però anche una serie di tavole cronologiche, organizzate per il periodo preislamico in 166 righe, da Adamo a Eraclio, e secondo una successione di califfi, re e sultani per l’epoca islamica, da Muḥammad fino al tempo dell’autore.

 

Ibn al-‘Amīd compì il passo successivo. Prendendo da Ibn al-Rāhib l’ordinamento cronologico, vi aggiunse una narrazione storica, ottenuta sintetizzando, per quanto riguarda la parte preislamica, le cronografie melchite di cui era venuto a conoscenza a Damasco. Inoltre, poté beneficiare di una rinascita poco nota degli studi biblici in lingua araba. Come mostrato da Ronny Vollandt, infatti, la Chiesa copta inizialmente adottò una versione araba di scarsa qualità della Bibbia greca dei Settanta, ma gli Awlād al-ʿAssāl fecero rivedere il testo alla luce del Tafsīr di Saadya, la traduzione interpretativa più autorevole della Bibbia ebraica in giudeo-arabo, prodotta dal rabbino egiziano Saadya Gaon (m. 942). In aggiunta a queste fonti, Ibn al-‘Amīd s’imbatté anche nella “Storia di Rūzbihān”, uno specchio per principi di età selgiuchide, ma ambientato in una Persia preislamica di fantasia. Il nostro autore lo prese erroneamente per un documento autentico di storia antica e si precipitò a includerlo nella sua cronografia. Infine, Ibn al-‘Amīd nutriva un suo interesse per i testi ermetici, di cui riportò alcuni brani in citazione, in particolare nel capitolo dedicato ad Alessandro Magno. Per quanto riguarda la sezione islamica, invece, si basò perlopiù sulla storia universale del suo contemporaneo Ibn Wāṣil, a sua volta compendio e continuazione dell’opera del grande storico musulmano al-Ṭabarī, limitandosi ad aggiungere alcune note circa i patriarchi copti.

 

A questo vasta gamma di fonti, che riflette bene la curiosità intellettuale e l’atteggiamento ecumenico degli Awlād al-‘Assāl e del loro circolo, Ibn al-‘Amīd aggiunse anche il proprio contributo personale. Questo è particolarmente evidente nella lita delle trenta Meraviglie del Mondo (cap. 15) e nella porzione dedicata alla storia ayyubide, in cui l’esposizione di Ibn al-‘Amīd diventa «più dettagliata e di un’originalità di gran lunga superiore» (così Claude Cahen, che ne fece l’edizione critica nel 1957). Tuttavia, la volontà autoriale si manifesta lungo tutta l’opera, governando l’assemblaggio di queste varie fonti in una sintesi coerente e ordinata.

 

Lo “storico dei cristiani”

 

Sono probabilmente queste due qualità di chiarezza e (relativa) concisione a spiegare il successo duraturo dell’opera. La sua popolarità è attestata anche solo dal numero di manoscritti conservati: 29 per la sezione preislamica – di questi, ne ho potuti esaminare 25 per la mia edizione – e almeno 15 per la parte islamica. Questi testimoni riflettono recensioni diverse, risalenti all’autore stesso.

 

Attraverso uno studio dettagliato delle note di lettura e di possesso dei manoscritti, mi è stato possibile illustrare come il Kitāb al-Ta’rīkh si sia diffuso rapidamente fuori dall’Egitto, in Siria e Libano, ma anche in Etiopia, dove la storia di Wäldä Amid (questo il nome con cui il nostro autore si acclimatò nell’Acrocòro etiopico) fu tradotta almeno due volte tra il XV e il XVI secolo. L’aspetto di gran lunga più interessante nella fortuna del libro è comunque la sua recezione da parte degli intellettuali musulmani. Finora sono stati identificati cinque casi, tra i quali uno spicca in particolare: il nostro autore copto fu letto a fondo da Ibn Khaldūn, che lo cita più di 70 volte nella seconda parte del suo Kitāb al-ʿIbar (“Libro delle lezioni [della storia]”).

 

Lo storico maghrebino, che conferì al suo predecessore l’altisonante titolo di “storico dei cristiani”, scoprì il Kitāb al-Ta’rīkh in Egitto, dove visse per quasi un quarto di secolo, dal 1382 fino alla morte, avvenuta nel 1406. In quest’ultima parte della sua vita, Ibn Khaldūn si propose di trasformare il suo Kitāb al-‘Ibar in una vera storia globale, forse la prima del suo genere. Per raggiungere questo obbiettivo, si rese conto di necessitare di maggiori informazioni circa la storia biblica, ebraica, greco-romana e del Cristianesimo primitivo. E fu soprattutto nell’opera di Ibn al-‘Amīd che le trovò. Ibn Khaldūn cita il nostro storico copto insieme allo Josippon (una versione rielaborata della Guerra giudaica di Giuseppe Flavio) e alla traduzione araba di Orosio, armonizzando in tal modo, per la prima volta nella cultura araba, la storiografia bizantina e latina in un’unica presentazione del passato greco-romano. In questa operazione, Ibn al-‘Amīd, accanto allo Josippon e all’Orosio arabo, si rivelò fondamentale, permettendo allo storico maghrebino di allargare i propri orizzonti. Lo stesso si può dire per il discepolo di Ibn Khaldūn al-Maqrīzī, il quale si fondò sulle stesse tre fonti per quanto riguarda la storia antica. In particolare, come dimostrato da Mayte Penelas, al-Maqrīzī considerava Ibn al-‘Amīd come un’autorità in materia di storia copta e del Cristianesimo primitivo, e questo malgrado la sua pronunciata animosità contro i cristiani egiziani.

 

È opinione comune che gli studiosi musulmani non conoscessero direttamente la Bibbia, viste le loro riserve a proposito della sua integrità testuale, e preferissero affidarsi a tradizioni orali trasmesse da convertiti ebrei o cristiani. Tuttavia, una lettura congiunta di Ibn Khaldūn o al-Maqrīzī da un lato e di Ibn al-‘Amīd dall’altro mostra che alcuni di loro furono in realtà familiari con la narrazione storica sottesa alle pagine dell’Antico e Nuovo Testamento, nella forma mediata dagli autori arabi cristiani. In altre parole, gli storici musulmani del periodo mamelucco conoscevano la Bibbia più di quanto si pensi abitualmente e alcuni di loro la usarono come un documento attendibile, nella misura in cui non si scontrava con la presentazione coranica degli stessi eventi. Alla luce delle polemiche che continuano a circondare il testo biblico nel mondo islamico, questa non è una scoperta da poco.

 

Da Ibn al-‘Amīd a Elmacinus

Ritratto di Erpenius

 

Circa due secoli e mezzo dopo Ibn Khaldūn, Ibn al-‘Amīd torna alla ribalta, questa volta nei Paesi Bassi, grazie a Thomas Erpenius (1584-1624). L’arabista olandese era allora alla caccia di materiali d’insegnamento per la neo-istituita cattedra di arabo a Leida. Il suo piano originario era di recarsi in Oriente per raccogliere alcuni nuovi codici, ma non riuscì ad andare oltre Venezia. Sulla via del ritorno per Leida, a mani vuote, Erpenius si fermò a Heidelberg, dove trovò un manoscritto che conteneva la sezione islamica della storia di Ibn al-‘Amīd – come fosse arrivato lì è un’altra storia affascinante, che coinvolge l’umanista e cabalista francese Guillaume Postel (1510-1581). Postel aveva acquistato il codice durante il suo secondo soggiorno nel Levante (1549-1550) in qualità d’inviato del re di Francia e gli attribuiva molta importanza. Ma a partire dal 1547 aveva cominciato a dare segni di squilibrio mentale finché, sospettato di eresia e in gravi difficoltà finanziarie, era stato costretto a vendere tutti i suoi manoscritti arabi, compresa la cronografia di Ibn al-‘Amīd, all’Elettore Palatino Otto-Heinrich (1502-1559).

 

Più o meno cinquant’anni dopo la disavventura di Postel, la cronografia di Ibn al-‘Amīd attirò subito l’attenzione di Erpenius. L’arabista olandese prese in prestito il manoscritto per 200 talleri, con l’impegno di restituirlo alla Biblioteca Palatina. Poco dopo, però, scoppiò la Guerra dei Trent’anni, la Biblioteca fu spostata da Heidelberg a Roma ed Erpenius, protestante, si ritenne libero dal giuramento. A Leida, cominciò a editare il testo con una traduzione latina a fronte. Si trattava di un tentativo pioneristico, non da ultimo nelle sue dimensioni materiali, in quanto l’arabista olandese dovette incidere da sé i caratteri arabi per la stampa. Tuttavia, Erpenius non ebbe la fortuna di vedere coronata la sua opera, perché morì prematuramente nella Grande Peste del 1624. Fu il suo discepolo Jacob Golius (1596-1667) a continuare l’edizione fino a un punto d’arresto adatto, che individuò in una pagina, a due terzi circa della parte islamica del Kitāb al-Ta’rīkh, in cui Ibn al-‘Amīd racconta la sua storia familiare. Golius supervisionò inoltre la stampa del libro nel 1625.

La Historia Saracenica di Elmacinus – questo il titolo scelto da Erpenius – rappresentò un punto di svolta nella cultura europea, andando a saziare la fame di informazioni più oggettive sul mondo islamico. Nei decenni successivi, fu tradotta in inglese e francese ed Elmacinus rimase una referenza abituale fino a Edward Gibbon (1737-1794). Di contro, gli arabisti europei furono comprensibilmente meno interessati alla prima parte della storia di Ibn al-‘Amīd: non avevano bisogno di leggere il nostro storico copto-arabo per sapere chi fossero Alessandro Magno, Augusto o Costantino. Per questa ragione, e malgrado alcuni tentativi precoci dell’orientalista svizzero Johann Heinrich Hottinger (1620-1667) e più recentemente di Gaston Wiet e Michel Breydy, la parte preislamica di Ibn al-‘Amīd ha cominciato a essere editata soltanto ora. Nel 2019 ho iniziato un progetto in questo senso durante un soggiorno di ricerca all’Istituto di Studi Avanzati di Princeton e nel 2023 ho pubblicato la porzione che va da Adamo alla fine degli Achemenidi con testo a fronte inglese e ampia introduzione, mentre spero che la sezione da Alessandro Magno a Eraclio possa vedere la luce nel 2025, esattamente quattrocento anni dopo l’edizione di Erpenius (e di nuovo a Leida!).

 

Molti altri elementi si potrebbero aggiungere alla vicenda affascinante di questa storia universale che riuscì a mediare materiale biblico, tardo-antico e islamico a pubblici disparati: studiosi arabi cristiani, storici musulmani, arabisti della prima modernità protestanti e cattolici. Ma spero che anche solo questa breve rassegna possa lasciar intuire in che modo Ibn al-‘Amīd/Wäldä Amid/Elmacinus agì da mediatore culturale, da passeur de cultures. Nei suoi vari avatar, ha ancora qualcosa da dire al nostro mondo interconnesso.

 

 

* Questo articolo è stato pubblicato originariamente in inglese sul blog Leiden Arabic Humanities

 

 

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