Sono 1300 i morti durante il pellegrinaggio annuale a Mecca. Molti ritengono le autorità saudite responsabili, ma Riyad contrattacca e scarica le colpe sugli operatori turistici e sulle autorità religiose di altri Paesi, che con le loro fatwe hanno autorizzato i pellegrinaggi illegali

Ultimo aggiornamento: 04/07/2024 11:50:00

Si è concluso da pochi giorni lo hajj, il pellegrinaggio a Mecca, che quest’anno ha riunito nella città santa dell’islam 1,8 milioni di musulmani provenienti da ogni parte del mondo. A distanza di due settimane tuttavia non si placano le polemiche in merito all’elevato numero di vittime – oltre 1.300, secondo i dati diffusi dal governo saudita – morte perlopiù a causa di temperature che hanno raggiunto i 51 gradi.  

 

Le autorità saudite si sono difese spiegando che la maggior parte delle vittime, l’83% a essere precisi, non possedeva l’autorizzazione per effettuare il pellegrinaggio. Effettivamente più di 400.000 persone sono arrivate a Mecca con un visto turistico anziché quello per il pellegrinaggio. La modalità d’ingresso ha delle conseguenze pratiche su ciò che le persone possono o non possono fare durante il loro pellegrinaggio. I pellegrini “ufficiali” vengono registrati e quando arrivano a Mecca possono usufruire dei servizi e delle strutture messe a disposizione dei fedeli (navette tra i luoghi in cui si compiono i riti dello hajj, tendoni climatizzati, punti di distribuzione di acqua potabile, servizi igienici, zone d’ombra, assistenza sanitaria). I pellegrini che viaggiano con il visto turistico invece non hanno accesso a questi servizi né possono entrare a Mecca passando dalla strada principale, presidiata dai posti di blocco, e sono perciò costretti a trovare vie alternative per entrare in città, spesso camminando sotto il sole per chilometri in zone desertiche.

 

Nonostante i rischi a cui si espongono i pellegrini senza permesso, molti fedeli decidono comunque di viaggiare con il visto turistico essenzialmente per due ragioni: economica – il pellegrinaggio ha un costo che si aggira tra i 3.000 e i 17.000 dollari a persona, secondo il Paese di provenienza e il pacchetto di viaggio acquistato – e la difficoltà a ottenere un visto per pellegrinaggio. Il governo saudita stabilisce infatti ogni anno un numero complessivo di visti per il pellegrinaggio, che vengono distribuiti in quote diverse tra i Paesi a maggioranza musulmana (generalmente un visto ogni mille residenti). Ciò fa sì che spesso le richieste di visto siano superiori a quelli effettivamente disponibili. È qui che entrano in scena le agenzie di viaggio che propongono pellegrinaggi con il visto turistico e a costi inferiori, ma con rischi maggiori per l’incolumità dei viaggiatori. Questa modalità di pellegrinaggio irregolare è particolarmente diffusa nei Paesi a basso reddito pro-capite.

 

Non a caso, infatti, i Paesi che quest’anno hanno registrato il maggior numero di vittime durante il pellegrinaggio sono l’Egitto (oltre 650), la Giordania (75) e la Tunisia (49), nazioni che versano in gravi difficoltà economiche. Questi dati sono particolarmente significativi se si pensa che la percentuale di pellegrini provenienti dal mondo arabo non è stata particolarmente alta, solo il 22,3% del totale a fronte del 63,3% di musulmani provenienti dai Paesi asiatici (l’11,3% proveniva dai Paesi africani, il 3,2% dall’Occidente).

 

A causa del tragico bilancio, l’Arabia Saudita ha ricevuto molte critiche dai governi degli altri Stati, ma anche dai pellegrini, che hanno lamentato un’organizzazione deficitaria con strutture sovraffollate e servizi inadeguati ad accogliere milioni di fedeli.  

 

Vedendo che le critiche non accennavano a diminuire, una settimana dopo la fine dello hajj, conclusosi il 19 giugno, il Segretario generale del Consiglio degli ulema Fahd bin Salah al-Majid – la più alta istituzione religiosa dell’Arabia Saudita, dipendente direttamente dal re, che ne nomina i membri – ha emesso un comunicato, diffuso dalla tv satellitare saudita al-‘Arabiyya e dal quotidiano panarabo al-Sharq al-Awsat in cui sostanzialmente scaricava la responsabilità dei morti sulle autorità religiose islamiche che con le loro fatwe hanno autorizzato i pellegrinaggi illegali, rendendosi così colpevoli di un «grave crimine», e sugli operatori turistici complici della strage. Il comunicato ribadiva il primato del Consiglio degli ulema nelle decisioni che attengono alla sicurezza del pellegrinaggio (lasciando invece alle scuole giuridiche il compito di normare i rituali dello hajj), e metteva in guardia le istituzioni religiose e i mufti dei Paesi musulmani dall’emettere pareri legali su questo tema senza il consenso del re dell’Arabia Saudita. A questi è infatti  affidata la custodia delle città sante, come ricorda il titolo di cui egli si fregia – “Custode dei due luoghi sacri”. Il comunicato definiva inoltre le fatwe emesse al di fuori del quadro istituzionale saudita «una violazione contro il sovrano e una trasgressione dei limiti che Dio ha stabilito e ordinato di rispettare», sulla base del versetto coranico che esorta i credenti a ubbidire «a Dio, al Suo inviato e a quelli di voi che detengono l’autorità» (Cor. 4,59), e del detto del Profeta dell’islam secondo cui «ciascuno di voi è un pastore, ciascuno di voi è responsabile del proprio gregge», intendendo re Salman unico «pastore e responsabile» dei pellegrini.

 

Nell’ultima settimana sono proseguiti i tentativi di scagionare le autorità saudite agli occhi dell’opinione pubblica con una serie di articoli pubblicati sui quotidiani di proprietà saudita o filo-sauditi. Ancora su al-Sharq al-Awsat, la giornalista Amal Abdulaziz al-Hazzani ha celebrato la macchina organizzativa allestita dalla Mezzaluna rossa saudita per far fronte alle emergenze (370 ambulanze, 7 eliambulanze, 150 golf cart, 150 scooter elettrici, decine autobus) e ricordato come il pellegrinaggio sia, fin dalle sue origini, un’esperienza impegnativa e faticosa, da quando «Hagar, [madre di Ismaele], corse avanti e indietro tra le colline di Safwa e Marwa, in una valle arida e incolta di Mecca». La giornalista rievoca un episodio della storia islamica secondo la quale Abramo avrebbe abbandonato la moglie Hagar e il figlio Ismaele (da cui discendono gli arabi) nel deserto per mettere alla prova la loro fede. Hagar per sette volte corse avanti e indietro, a gran fatica, tra le due alture alla ricerca di acqua per dissetare il figlio. E quando tornò dal figlio vide che sotto i suoi piedi era sgorgata una pozza d’acqua, poi chiamata Zamzam. Una tappa del pellegrinaggio consiste infatti nello spostarsi tra queste due alture, oggi inglobate all’interno del complesso della Grande moschea di Mecca, proprio in ricordo di quella vicenda.

 

Infine, sulle pagine social degli internauti sauditi è circolato l’hashtag #Processo_ai_mandanti_e_assassini_dei_pellegrini, con l’invito rivolto alle autorità dei Paesi musulmani ad arrestare i religiosi che con le loro fatwe hanno legittimato il pellegrinaggio irregolare, e gli operatori turistici che hanno organizzato i viaggi. In effetti diversi Stati hanno preso provvedimenti molto severi. In Egitto il Primo ministro Mostafa Matbouly ha ritirato la licenza a 16 agenzie di viaggio accusate di aver portato i pellegrini a Mecca con il visto turistico; con la stessa accusa la Giordania ha arrestato diversi operatori turistici, mentre in Tunisia il presidente Kais Saied ha destituito il ministro degli Affari religiosi.

 

Il governo saudita non è disposto ad assumersi la responsabilità delle vittime e, anzi, ha elogiato il proprio operato definendo il pellegrinaggio un «successo». Le autorità hanno mostrato di essere disposte a usare tutti gli strumenti a loro disposizione, dalle fatwe, alle minacce velate, ai quotidiani, ai social media, per proiettare un’immagine quanto più positiva del Paese e della sua capacità organizzativa, risultare rassicurante e attrarre un numero crescente di pellegrini. La Vision 2030, il piano di diversificazione economica lanciato nel 2016 dal principe ereditario saudita, Mohammad bin Salman, prevede infatti, tra le altre cose, un incremento del numero annuale di pellegrini, che nel 2030 dovrebbero raggiungere i 30 milioni. Il Regno non può dunque permettersi di fallire in un ambito che è fonte della sua legittimità religiosa e contribuisce alla sua prosperità economica presente e ancor più futura.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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