Intervista a Yahya Pallavicini, vice-presidente e imam della Coreis, sul conflitto a Gaza
Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 12:06:26
Intervista a cura di Chiara Pellegrino
Quest’intervista fa parte della serie “I musulmani italiani e la guerra a Gaza”. Clicca qui per leggere le altre interviste
Lei rappresenta la Coreis, Comunità Religiosa Islamica Italiana: come viene vissuto da voi il conflitto israelo-palestinese?
Lo stiamo vivendo con sentimenti contrastanti, anche se cerchiamo di far prevalere l’analisi e la lucidità, sia a livello religioso che nelle testimonianze pubbliche. I sentimenti che prevalgono sono l’orrore per quello che è successo il 7 ottobre, una grande tristezza per le vittime della guerra in corso da tre mesi e per la distruzione della Striscia di Gaza, e molta preoccupazione per le conseguenze locali, in Israele e in Palestina, ma anche e soprattutto per le reazioni politiche in Europa e per la percezione popolare del conflitto in Occidente. Da un punto di vista di sensibilità religiosa, il conflitto in sé, come ogni guerra, è sbagliato. È una sconfitta dell’umanità e dell’intelligenza, è un attacco alla fede di ogni credente. In questo caso, poi, la situazione è particolarmente complessa perché è decisamente asimmetrica: da un lato, abbiamo la reazione dello Stato di Israele e del governo Netanyahu a un atto di terrorismo, dall’altro abbiamo un’organizzazione terroristica, Hamas, che fin dalla sua costituzione ha come obiettivo annientare lo Stato di Israele e uccidere gli ebrei con l’uso di azioni criminali e attentati terroristici. Ciò che è successo il 7 ottobre 2023 lo conferma. Inoltre, a complicare le cose c’è la confusione, a volte volontaria, a volte involontaria, tra il modo in cui Hamas si è strutturato nella Striscia di Gaza a livello di infrastrutture, quartieri generali e città sotterranee con i tunnel, e la maggioranza della popolazione palestinese, che non necessariamente è compiacente, collusa o associata a Hamas, e rischia di essere la principale vittima in questo conflitto. È ciò che viene definito con il termine tecnico di “danni collaterali”. Questo conflitto è durato fin troppo e i danni collaterali sono maggiori delle evidenze oggettive di una guerra contro Hamas.
La Coreis ha partecipato alle manifestazioni di piazza, per esempio quelle che si sono tenute a Milano?
No, soltanto una delegazione ha partecipato alla manifestazione promossa dall’UCEI, l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, a Roma, in Piazza del Popolo. Nell’invito era esplicitato l’interesse a coinvolgere tutte le parti religiose, civili e politiche contro il terrorismo. Noi abbiamo partecipato per confermare la nostra opposizione a qualsiasi strumentalizzazione criminale che passi per il terrorismo, che sia quello che abbiamo tristemente vissuto qui in Italia con le Brigate Rosse o la mafia, che sia quello di Hamas. Questa è l’unica manifestazione alla quale una delegazione della Coreis ha preso parte. Abbiamo partecipato a momenti di confronto pubblico nella sinagoga di Milano e promosso la presenza di delegati della Coreis nelle sinagoghe d’Italia durante la Hanukkah. E poi abbiamo preso parte al Consiglio di amministrazione del MJLC, il Consiglio Europeo dei Leader Musulmani ed Ebrei, che si è riunito a Siviglia lo scorso 17 ottobre, in cui si è cercato di far prevalere il dialogo, la collaborazione e il rispetto fraterno tra ebrei e musulmani in Europa nonostante il conflitto. Quello che ci preoccupa, però, sono altre manifestazioni, legittime in termini di solidarietà, che andrebbero bene se fossero veramente soltanto a sostegno del diritto e dell’integrità fisica del popolo palestinese. Il problema è che, secondo noi, si è generata una confusione: l’istanza legittima dei diritti del popolo palestinese, cristiano e musulmano, e della sua indipendenza territoriale, nazionale e culturale, viene confusa con una neanche troppo taciuta compiacenza con Hamas. Per noi Hamas, fin dalla sua costituzione, è qualcosa di contrario al diritto e alla coerenza dottrinale islamica. E dal punto di vista politico rappresenta molto male i diritti e la gestione di un’indipendenza del popolo palestinese. Quello che ci preoccupa non è soltanto che questa confusione dilaghi, con una conseguente crescita dell’antisemitismo, ma soprattutto che porti a confondere l’identità islamica e la cultura araba con la mentalità e l’organizzazione terroristica di Hamas. Questo rischio lo abbiamo denunciato a Bruxelles nell’incontro che si è tenuto recentemente tra i leader religiosi europei sull’impatto del conflitto in Medio Oriente in Europa. Sui social media e nelle piazze d’Europa e del mondo si sta facendo sempre più strada l’idea che Hamas sia l’eroe della resistenza dei palestinesi e dei musulmani, e che questi siano tutti vittime di una persecuzione israeliana, americana e occidentale. La Coreis, almeno dal punto di vista intellettuale, si oppone a questa confusione, strumentalizzazione e polarizzazione. Sui social media si fa a gara per far vedere le brutalità peggiori e si moltiplicano le immagini che cercano di demonizzare l’altro. Sembra che ci sia un campionato a chi sia la peggiore vittima, più barbaramente e brutalmente attaccata dall’altro.
Questa escalation è un problema vissuto anche dai suoi colleghi negli altri Paesi europei?
Tra i teologi, i giuristi e i docenti musulmani nel mondo c’è la consapevolezza del fatto che Hamas presenta delle incongruenze con il diritto e la dimensione religiosa. Però quello che vedo nei colleghi di tutto il mondo islamico, dall’Asia al Nord Africa, all’Europa, all’America, è che comincia a esserci una pressione tale per cui non si denuncia più Hamas e, soprattutto non si riesce più, giustamente, a tacere la propria solidarietà nei confronti delle famiglie palestinesi. Accanto c’è una narrazione che chiede, direi anche in modo equilibrato, la fine della guerra, la liberazione degli ostaggi, la tutela dei civili. C’è però chi dice che l’unico che difende questa narrazione sia Hamas e quindi Hamas diventa la resistenza eroica e buona, l’unico che dà la vita per difendere questa libertà dalla ingiustizia. Allora devo necessariamente ribadire che non è così. Io ritengo che i palestinesi, che hanno scelto liberamente di farsi rappresentare da Hamas, abbiano sbagliato dal punto di vista politico e anche religioso. Penso che oggi l’unica soluzione sia formare una nuova classe dirigente palestinese, seria e indipendente, che davvero rappresenti gli interessi di sviluppo educativo e infrastrutturale della Palestina, che non serbi rancore e odio nei confronti degli ebrei e dello Stato di Israele. Non faccio il politico, ma il consiglio che ho dato in passato e di nuovo recentemente al vicepresidente della Commissione europea Schinas e al vicepresidente del Parlamento europeo Karas è stato proprio quello di fare una formazione politica a una nuova possibile classe dirigente palestinese che prescinda da Hamas e dalla sua propaganda dell’odio.
Lei quale soluzione vede per il conflitto?
Non saprei rispondere… la soluzione dei due Stati mi ha sempre lasciato perplesso. Tecnicamente potrebbe essere una soluzione, ma se uno dei due Stati è ostaggio di una milizia jihadista, quello Stato non sarà mai ben governato, e lo Stato confinante non sarà mai al sicuro. Il problema si risolve soltanto se i palestinesi riescono a dare fiducia e credibilità a un’alternativa politica. Se non ci sono uomini che governano con saggezza e onestà, la soluzione dei due Stati, dal mio punto di vista, è un’utopia. Io penso che Israele, dando la cittadinanza a cristiani e musulmani arabi, ha comunque aperto a un modello interessante di cittadinanza plurale, anche se chiaramente la matrice dello Stato di Israele moderno è sionista e perciò vuole tutelare l’identità ebraica. Israele, quindi, è uno Stato democratico sionista: una situazione complessa, politicamente originale. Quanto meno, però, il fatto che siano garantiti pari diritti tra cristiani, musulmani ed ebrei in Israele e non vi sia un’educazione all’odio nei confronti del diverso e del vicino è qualche cosa di positivo. Il problema è che nella Striscia di Gaza, a livello educativo, si insegnava ai bambini a odiare gli ebrei, a odiare gli israeliani. Quindi c’è un problema educativo, oltre che di sviluppo delle infrastrutture o di rappresentanza dell’identità culturale palestinese.
Negli ultimi anni però anche in Israele l’idea di convivere in maniera pacifica con i palestinesi era vista con difficoltà. La situazione si è evoluta in maniera negativa anche da parte israeliana.
Sono d’accordo, ma questo non giustifica una guerra con questa intensità di bombardamenti. E questo lo vediamo anche in Europa nella crisi di una visione e di una cultura politica democratica liberale. Emergono sempre più correnti politiche che coltivano e promuovono una cultura oltranzista ed esclusivista, anche se fortunatamente restano minoritarie. I coloni in Israele e la loro visione di vita, le nuove generazioni di israeliani di estrema destra e alcuni ministri del governo Netanyahu e le loro dichiarazioni, non ultimo appoggiate purtroppo anche da rabbini estremisti, dimostrano che effettivamente il male di questa pseudocultura e di questa pseudopolitica si è infiltrato anche nel governo e nel pensiero del popolo israeliano. La maggioranza degli israeliani, degli ebrei e dei rabbini con cui sono in contatto, però, non è d’accordo con il governo Netanyahu e con alcuni colleghi rabbini che strumentalizzano la Bibbia per legittimare la persecuzione dei palestinesi. Invece a Gaza temo che per complicità, per atteggiamento mafioso o per leggerezza, si sia diffusa a livello di massa una cultura di misconoscimento della dignità ebraica israeliana che arriva persino a legittimare la violenza fratricida.
Secondo lei che cosa può fare l’Italia in questo conflitto?
L’Italia da decenni continua a perdere la sua occasione di poter sviluppare una sensibilità culturale e politica euro-mediterranea che potrebbe permetterle di essere protagonista anche in questa situazione. Il governo italiano non ha voluto urtare la suscettibilità degli alleati americani astenendosi in alcune decisioni alle Nazioni Unite. Cerca di sostenere in qualche modo gli aiuti umanitari per i palestinesi e questo le fa onore, ma politicamente mantiene una posizione più vicina al governo israeliano. In questa situazione, il rischio è di essere inconcludente: essere mediatori è un’ottima possibilità, ma è una prova di coraggio, non bisogna necessariamente schierarsi contro qualcosa o per qualcuno, ma bisogna cercare di essere chiari e coerenti con una visione e una proposta politica sostenibile. Invece ho l’impressione che nella sua moderazione, mediazione e astensione il governo Meloni stia ai margini anche del dibattito politico internazionale quando potrebbe rilanciare la sua tradizione e storia e persino ispirare una cultura ecumenica e una politica di fratellanza senza mai scadere nel buonismo e nella demagogia: l’Italia ha vinto la lotta al terrorismo, sta combattendo contro la mentalità e l’organizzazione criminale delle mafie, perciò può rappresentare un modello europeo e mediterraneo di dialogo e cooperazione tra civiltà tradizionali senza compromessi con la barbarie e gli estremismi delle ideologie corrotte. Lo Stato di diritto e la salvaguardia dei diritti fondamentali, che comprende la libertà di culto e il conseguente rispetto del pluralismo religioso, vengono sempre menzionati per esaltare le radici occidentali dell’Europa, mentre in Oriente la sete e la ricerca della luce spirituale ha ispirato ed è diventata ragione di vita di molti credenti appartenenti a tradizioni e confessioni diverse. Dall’incontro tra legge e luce nascono le declinazioni delle civiltà in Oriente e Occidente. Ridurre questa armonia alla soluzione territoriale dei due Stati, associando quello moderno esclusivamente all’ “impero del diritto d’Occidente” e la Palestina all’ “impero confessionale d’Oriente”, rappresenta un artificio e un’illusione da prevenire con maggiore senso della realtà dei popoli e del loro buon governo a favore del bene comune.
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