Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 17/01/2025 15:25:36

I quotidiani arabi questa settimana hanno commentato abbondantemente l’elezione del presidente libanese Joseph Aoun, avvenuta lo scorso giovedì, e la nomina del giurista sunnita Nawaf Salam alla carica di Primo ministro. In generale prevalgono soddisfazione e fiducia, con l’eccezione dei media vicini a Hezbollah, piccati per la vittoria di questi due candidati. 

 

Su al-Sharq al-Awsat il giornalista libanese Rami Rayes riassume e commenta i punti cardine del discorso pronunciato dal neoeletto presidente ai libanesi. Tra questi, il rafforzamento dell’autorità statale, il ripristino del monopolio governativo delle armi e delle decisioni di guerra e pace, l’avvio di un processo di digitalizzazione dell’amministrazione, il sostegno all’istruzione pubblica e alle università, la lotta alle droghe e al contrabbando, il ripristino dell’indipendenza della magistratura, il rafforzamento delle relazioni con i Paese arabi e l’apertura di un dialogo con Damasco per la gestione dei rifugiati siriani. Il giornalista ha particolarmente apprezzato la volontà del nuovo presidente di riportare la gestione delle armi e della violenza sotto il controllo dello Stato, ritenendolo un segnale del nuovo orientamento del Paese. Per la prima volta, commenta Rayes, abbiamo sentito un «discorso davvero libanese», a differenza di quello pronunciato ai tempi dall’ex presidente Michel Aoun (in carica fino al 2022), secondo il quale lo Stato non poteva rinunciare alle armi di Hezbollah perché l’esercito nazionale non ne aveva abbastanza per difendersi da Israele. «Questa idea ha portato alla completa sovrapposizione tra il discorso dello Stato libanese e quello di Hezbollah, e nel tempo ha perturbato le relazioni arabe del Libano facendogli perdere il margine di manovra politica su cui un tempo aveva fatto affidamento», prosegue l’articolo. La grande speranza, conclude il giornalista, «è che gli arabi tornino al Libano e il Libano torni agli arabi, perché l’identità araba del Libano è stata sancita nell’Accordo di Ta’if. È arrivato il momento di ricongiungersi alla carovana della civiltà, di cui il Libano è sempre stato avanguardia, ma da cui è rimasto indietro per cento e più ragioni».

 

Lo stesso quotidiano ha pubblicato una vignetta in cui da una bottiglia appena stappata si libra in volo una colomba sulla quale spiccano le parole «Stato libanese».

 

Sulla piattaforma d’informazione libanese Asasmedia Khairallah Khairallah riassume il cambiamento sopraggiunto nel suo Paese «in quattro parole» arabe, come dice lui stesso: «La Siria ha vinto, il Libano è cambiato». A differenza di altri giornalisti che attribuiscono l’elezione del presidente alla guerra lanciata da Israele nel sud del Libano e alla necessità di Beirut di far rispettare i termini della tregua, Khairallah pensa che a rendere possibile questa evoluzione sia stato il cambio di regime a Damasco. In Libano, continua con toni trionfanti, «la parola d’ordine è Siria». Quest’ultima «è stata liberata dal dominio alawita», e il Paese dei cedri è stato liberato da «tre decenni di tutela siriana diretta e due decenni di tutela iraniana indiretta, esercitata da Hezbollah». Con una certa soddisfazione il giornalista punzecchia a più riprese il Partito di Dio, che «rifiuta di vedere la realtà», non accetta la fine «della tutela siriana» e non ha altra scelta se non «riconsiderare il suo approccio alla situazione libanese». 

 

Gli eventi che hanno portato il comandante dell’esercito alla presidenza ricordano la modalità con cui Fu’ad Shihab divenne capo dello Stato nel 1958, scrive il giornalista libanese Tawfik Shouman su al-‘Arabi al-Jadid. Shihab era solito ripetere di «non essere il “presidente risolutivo”, ma di essere arrivato alla presidenza dopo che la classe politica locale non era stata in grado di trovare una soluzione». Così, «Aoun II» è finito a fare il presidente «per l’incapacità dei “politici professionisti” di ricoprire quel ruolo». Ma le affinità tra le due figure presidenziali non finiscono qui. Anche i discorsi che hanno pronunciato in occasione dei rispettivi insediamenti condividono «lo stesso spirito», prosegue l’articolo. «Il futuro del Libano non può essere costruito con le pietre del passato» è la «frase storica» di Aoun, il cui spirito si ritrova anche nelle parole del generale sulla «crisi del governo e dei governanti» e sulla necessità di «far evolvere le leggi elettorali in modo tale da rafforzare le possibilità di circolazione del potere, una rappresentanza adeguata, la trasparenza e la responsabilità». Questo discorso riflette l’ambizione del generale di mettere il Paese in condizione di iniettare nuova linfa nella politica creando nuovi volti politici.

 

Michelle Tueni, il cui padre Gebran ha pagato con la vita la dura opposizione all’influenza siriana in Libano, racconta sul giornale “di famiglia” al-Nahar di un popolo «fiducioso» per l’elezione di Aoun, che «li ha liberati dal duo sciita», e per la nomina di Salam, «un volto nuovo, esterno al circolo dei primi ministri, con una visione nuova e un approccio nuovo». Questa evoluzione «ha ridato fiato a un popolo che era strangolato da anni».

 

I toni entusiasti che si ritrovano in molti articoli sono più smorzati nell’editoriale del politologo libanese Gilbert Achcar pubblicato su al-Quds al-‘Arabi. «Il volto del Libano è cambiato in cinque giorni», scrive l’autore, ma è ancora troppo presto per dire con certezza che cosa ne sarà del futuro del Paese dei cedri. L’elezione di Aoun ha sicuramente ricevuto la luce verde da Washington, che da anni «scommette sull’esercito libanese per riabilitarlo in modo da eliminare il doppio potere in Libano, rappresentato dalla presenza dello “Stato di Hezbollah” all’interno dello Stato libanese, e soprattutto dell’esercito di Hezbollah in parallelo con l’esercito ufficiale del Paese». Nonostante il sostegno internazionale, Aoun dovrà guardarsi le spalle in patria e non è scontato che riuscirà a trovare un compromesso con tutte le forze interne: è pur vero, spiega il politologo, che Hezbollah ha sostenuto Aoun soltanto al secondo turno mentre si è sempre opposto alla nomina di Nawaf Salam a Primo ministro, annunciata lunedì. Giurista di fama e intellettuale di spicco, la candidatura di Salam è stata sostenuta dai Paesi occidentali e dal Golfo.

 

In effetti, l’ostilità sciita verso la figura di Nawaf Salam si percepiva chiaramente sulle pagine di al-Akhbar di lunedì. Poche ore prima l’annuncio della sua nomina, il quotidiano filo-Hezbollah titolava “La corsa alla carica di Primo ministro: siamo davanti a un totale colpo di Stato americano?” L’articolo ripercorre molto dettagliatamente tutti i giri di consultazioni che hanno portato all’incarico a Salam, tra cui «la notizia trapelata nell’ambiente dell’opposizione che sia stata l’Arabia Saudita a caldeggiare un cambio del Primo ministro, ciò che fino a pochi giorni prima non sembrava essere nell’aria». Riyadh «vuole apportare un cambiamento radicale nel Paese attraverso il potere esecutivo», conclude l’articolo.

 

Vincitori e vinti dopo la tregua a Gaza

Oggi, venerdì 17, i maggiori quotidiani panarabi aprono con la notizia del raggiungimento di un accordo sulla tregua a Gaza. Riportiamo qui alcuni titoli e un paio di editoriali più significativi, riservandoci di trattare il tema più approfonditamente nella rassegna della prossima settimana, quando il quadro sarà più definito.

Grande soddisfazione e speranza trapela dai quotidiani sauditi, in parte già proiettati sulla ricostruzione e sul sostegno umanitario che servirà alla popolazione della Striscia. «La guerra più lunga e dura della lotta con Israele è finita ed è arrivato il momento di fornire supporto e assistenza umanitaria a due milioni di persone», commenta l’ex direttore di al-Sharq al-Awsat, ‘Abdel Rahman al-Rashid. La fine del conflitto è l’inizio di una nuova era per tutto il Medio Oriente, prosegue l’editoriale. «La guerra di Gaza ha realizzato l’impensabile»: ha eliminato buona parte del potere e della leadership di Hezbollah, portato alla caduta del regime di Bashar al-Assad, e ha messo fine «al sogno espansionistico iraniano e all’egemonia del regime di Teheran nel Mashreq», offrendo una nuova opportunità per costruire una pace regionale. Una delle lezioni che arriva da Gaza è che «non si può lasciare un problema nel vuoto affinché se ne occupino altri. Non ci può essere pace per Israele senza pace per i suoi vicini. Non basta firmare una mezza pace, perché il risultato sarà mezza guerra», conclude al-Rashid.

 

Toni opposti su al-Jazeera, i cui editoriali sono da giorni  tutti dedicati alla prospettiva della tregua. Lo scrittore e giornalista palestinese Mounir Shafiq ricorda le violazioni e «il genocidio» messo in atto dallo «Stato canaglia» israeliano contro Gaza, i «50.000 martiri» morti negli scontri e le «vittorie che la Resistenza continua a riportare sul campo». Dall’accordo della tregua dev’essere chiaro che «l’Asse della Resistenza ha vinto la guerra», prosegue l’editoriale, e che Netanyahu non ha potuto esimersi dall’accettare la tregua «per paura di Donald Trump».

 

Vinti e vincitori è il grande tema alla fine di ogni guerra. Ma determinare chi ha vinto e chi ha perso a Gaza non è scontato come sembra, commenta il giornalista palestinese Hussein ‘Abdul Aziz su al-‘Arabi al-Jadid. Tra gli stessi palestinesi la risposta può variare a seconda dell’interlocutore. A Gaza c’è chi sostiene che «il prezzo pagato nella Striscia è stato molto alto, superiore a qualsiasi vantaggio strategico per i palestinesi e la loro causa, ma c’è anche chi crede che sia valsa la pena pagare questo prezzo, perché il “7 ottobre” ha mosso la causa palestinese riportandola in prima linea nelle questioni globali». Inoltre, continua l’editoriale, molto dipende da ciò che si intende per «vittoria». Se con questa s’intende la distruzione totale della Striscia, l’uccisione del maggior numero possibile di palestinesi e l’indebolimento della Resistenza, allora Israele ha vinto. Ma se con vittoria si intende l’imposizione delle condizioni israeliane, allora Tel Aviv ne è uscita sconfitta. L’occupazione israeliana, conclude il giornalista, «ha ottenuto alcune vittorie dal suo punto di vista, ma ha fallito miseramente nel raggiungere altri obiettivi di grande importanza. E lo stesso vale per la Resistenza palestinese». Ma guardando il conflitto nella prospettiva della storia, gli eventi di Gaza «rimarranno uno spartiacque importante a favore della causa palestinese, a prescindere da quanto alto sia stato il prezzo».

 

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