Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 06/12/2024 16:39:50
Tutte le testate arabe mostrano viva preoccupazione per quanto sta succedendo in Siria. Come noto, i giornali vicini al Qatar simpatizzano con la causa di (parte) dei ribelli, definendoli dei “rivoluzionari”, ma alcuni mantengono un atteggiamento prudente e diffidente nei confronti di Tahrir al-Sham, oppure lamentano la tardiva rinascita del fronte anti-Assad dopo anni di guerre e devastazioni. Le testate filo-saudite e filo-emiratine, invece, attaccano con veemenza i ribelli e Tahrir al-Sham, definendoli “jihadisti”, ma alcune di loro non risparmiano stoccate a un regime in affanno e incapace di trovare una soluzione politica al conflitto.
Cominciamo dai giornali di proprietà qatariota. Su al-‘Arabi al-Jadid il giornalista siriano Ahmad Sado individua tre elementi fondamentali: l’eccellente pianificazione delle operazioni militari da parte dei ribelli; «Il nuovo orientamento internazionale, che pare ormai determinato a espellere definitivamente le milizie iraniane e i loro alleati» dalla Siria; l’alto «degrado e l’erosione dell’esercito governativo, che molti figli della Siria hanno abbandonato nel corso della guerra barbara e oppressiva condotta contro il popolo che si era ribellato con la rivoluzione del 2011». È interessante rilevare che Sado considera «rivoluzionari» solo le milizie filoturche dell’Esercito Nazionale Siriano, anche se ammette che Tahrir al-Sham ha portato avanti da tempo un «mutamento del suo discorso politico e ideologico, inviando numerosi messaggi diretti e indiretti all’Occidente e soprattutto agli americani, con l’obiettivo di essere, grazie al nuovo ruolo, accettato e accettabile per loro». Si può quindi supporre, si chiede Sado, che i ribelli possano arrivare a Damasco e rovesciare il regime? «La lettura obiettiva degli eventi dice che i tempi non sono ancora del tutto maturi» per questo scenario, e che Assad e l’Iran possono riorganizzarsi. Non prova soddisfazione la scrittrice siriana Susan Jamil Hasan: ormai il suo Paese è distrutto ed è sottoposto a troppe influenze straniere: «la realtà sul campo dimostra senza dubbio […] che c’è un conflitto in corso e le attuali battaglie sono sempre più violente». Il suo pensiero va all’incompiutezza della Primavera Araba del 2011: «Che cosa è successo? Fu un grande fallimento, il fallimento della sollevazione di un popolo che aspirava alla rivoluzione […] e che invece si è trasformata in una guerra che ha portato a questa situazione», in cui sono presenti «numerose mani» straniere che distruggono l’identità e l’unità nazionale. Al-Quds al-‘Arabi commenta con sarcasmo la frettolosa ritirata delle forze di Assad da Aleppo: «Soleimani – uno degli artefici della conquista della città nel 2016 – si starà rivoltando nella tomba!». Ma il quotidiano ne ha anche per Tahrir al-Sham, che potrebbe «trasformare Aleppo in un emirato islamista e jihadista simile a ciò che vide Idlib nel momento in cui cadde sotto il controllo di al-Nusra. Non basta che al-Jawlani si tolga di dosso i panni del talebano e indossi, per così dire, i jeans o si metta a interloquire con il presidente del governo iracheno, per dare ai siriani un certo senso di sicurezza».
Passiamo ai commenti della stampa filo-saudita. Su al-Sharq al-Awsat, il giornalista libico Jibril al-Ubaydi scrive con livore: con la caduta di Aleppo, i fratelli musulmani «sono stati cacciati dalla porta ma sono rientrati dalla finestra. È così che i gruppi estremisti prodotti dalla Fratellanza nel corso della sua lunga storia sono emersi come incubatori delle organizzazioni takfiri. Utilizzano qualsiasi apertura per infiltrarsi e distruggere la regione». Un altro articolo di al-Sharq al-Awsat “smaschera” la patina di moderazione di cui si è ammantata Tahrir al-Sham, ultima metamorfosi di al-Nusra, a sua volta emanazione di al-Qaida: «Chiunque abbia riorganizzato questa forza sotto lo slogan “prodotto rinnovato e migliorato” desiderava raggiungere tre obiettivi. Primo, trasformarla in qualcosa che assomiglia a un esercito regolare, con tanto di uniformi militari, equipaggiamento e un piano per instaurare un’amministrazione nelle zone occupate. Secondo, allontanarla dall’orientamento jihadista attraverso la decisione di proteggere le minoranze religiose, evitando la classica terminologia jihadista che terrorizza le persone. Terzo, sponsorizzarla come un esercito di liberazione il cui obiettivo principale è quello di cacciare i non meglio specificati “occupanti stranieri”». Oltretutto il nome del gruppo, che in arabo significa “Liberazione del Levante”, è ambiguo: «l’utilizzo della parola Levante (sham) costituisce un punto interrogativo: è un termine medievale che sostituisce la parola “Siria”, che i jihadisti pensavano fosse di origine straniera, in quanto utilizzata durante il Mandato francese». In questo modo l’organizzazione e i suoi sostenitori «negano la garanzia di uno Stato nazionale siriano».
Veniamo alle posizioni del quotidiano al-‘Arab, di area filo-emiratina. Il giornalista siriano Ali Qasim commenta e difende, in controtendenza rispetto a tutta la stampa internazionale, l’operato di Assad: «è troppo presta per annunciare la caduta di Aleppo»: «quella che a prima vista sembrava una vittoria, ha rapidamente alimentato preoccupazioni […]. La facilità con cui le milizie terroriste sono entrate nella città dovrebbero sollevare molti interrogativi. Ma il fallimento delle forze siriane nel difendere Aleppo non sarà l’unico. L’ingresso dei membri di Hay’at Tahrir al-Sham senza incontrare alcuna resistenza avrebbe dovuto suscitare timore perché poteva sembrare una trappola, ed infatti è così. Presto si potrebbe dire che il governo si è comportato in maniera giudiziosa per non esporre la città alla distruzione e la sua gente al massacro». In un altro articolo, Qasim rincara la dose: «in un momento in cui le relazioni turco-siriane ottime, Erdoğan ha svelato la sorpresa che aveva preparato per la Siria con l’aiuto del Qatar, appoggiando movimenti jihadisti armati portati dall’estero per proclamare il jihad spacciandosi per opposizione siriana». La conclusione è meno virulenta: hanno commesso tutti errori, sia Assad che gli oppositori: «il regime ha sbagliato quando ha negato l’esistenza di un’opposizione pacifica all’interno del Paese, non ascoltando le sue richieste. L’opposizione ha sbagliato nel momento in cui ha fatto affidamento a Turchia, Qatar e Stati Uniti e ha assistito a degli omicidi compiuti da mercenari a difesa della democrazia». Il giornalista egiziano Hisham al-Najjar parla esplicitamente di un «asse sunnita moderato guidato da Turchia e Qatar per rimpiazzare l’Iran» e individua nelle due potenze regionali i veri artefici della caduta di Aleppo: «è chiaro che la Turchia, in accordo con il Qatar, ha architettato un buon piano, tornando a giocare un round aggiuntivo dopo una breve pausa per compensare ciò che aveva perso e instaurare la sua influenza sunnita al posto di quella iraniana sciita».
Il quotidiano libanese al-Akhbar, vicino a Hezbollah e all’Asse della Resistenza, sembra invece lanciare una stoccata al regime di Damasco, una posizione che la dice lunga sui cambiamenti in corso: «torna di nuovo la stessa domanda: chi è responsabile di quanto sta succedendo in Siria? Tutte le parti stanno facendo a gara a scaricare la responsabilità sugli avversari […] e nessuno vuole ammettere i propri errori e nemmeno discutere il cuore del problema e della questione […]. La risposta ha a che vedere con la decennale chiusura dello spazio politico e il rinsecchimento dei pozzi dell’attività politica. È questo ciò che ha portato all’esplosione». Discutendo le sorti del governo siriano, l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyed scrive: «il regime non cadrà» e, anzi, «darà avvio alle operazioni per riprendere Aleppo [..] È probabile che ci debba essere un’alternativa all’interno dell’esercito e del regime che scavalchi Bashar e suo fratello, accettando i negoziati sulla base della risoluzione internazionale, altrimenti la Siria rimarrà divisa indefinitamente in tre o quattro blocchi».
L’Algeria arresta il romanziere Boualem Sansal, i media arabi accusano gli “scrittori in missione” [a cura di Chiara Pellegrino]
Sui media arabi è nato un dibattito attorno all’arresto del romanziere algerino Boualem Sansal, fermato all’aeroporto di Algeri la scorsa settimana con l’accusa di aver attentato alla sicurezza del suo Paese in seguito ad alcune dichiarazioni rilasciate in Francia in merito ai confini dell’Algeria. Sansal, noto per le sue posizioni critiche verso il governo algerino e l’islamismo, è l’autore del romanzo 2084: La fine del mondo, vincitore del Gran premio di letteratura della Académie Française.
Lo scrittore, spiega su al-Quds al-‘Arabi il sociologo algerino Nacer Djabi, è figlio di una famiglia marocchina povera, originaria della regione del Rif e arrivata nell’Algeria occidentale alcune generazioni fa per lavorare come braccianti agricoli, in questa parte del Paese ricca di terreni, che in passato furono di proprietà dei coloni francesi. Nonostante le origini marocchine, Boualem che in arabo significa «possessore della bandiera», è figlio a tutti gli effetti del suo Paese, spiega Djabi: con la fine del colonialismo molti algerini chiamarono con questo nome i loro figli e le loro città nella regione sud-occidentale del Paese, come segno di vendetta nei confronti dei francesi, che in epoca coloniale avevano impedito loro di usare i simboli nella nazione, tra cui la bandiera nazionale. Ma questo figlio dell’Algeria, prosegue l’editoriale, ha dichiarato a un media francese che quella fetta di terra in cui è cresciuto era originariamente «una parte del Marocco, che la colonizzazione francese ha ritagliato in favore dell’Algeria». Djabi accusa Boualem di far parte di quel gruppo di intellettuali algerini assoggettati alla Francia che «attaccano l’Algeria e gli algerini, la storia, la società e la cultura per servire le tesi dell’estrema destra, che è tornata prepotentemente in politica, nella narrativa e nell’arte, e insiste nel vendicarsi degli algerini, che un tempo osarono scacciare la Francia da un paradiso chiamato Algeria». Il fermo di Sansal, conclude il giornalista, è tuttavia un fallimento anche per l’Algeria, perché testimonia «le difficoltà che vive il Paese a livello del sistema politico e delle élite politiche e culturali nel creare una vita culturale aperta al dibattito e alle divergenze tra le sue componenti». Questo sistema fa sì che si sia costretti ad aspettare il romanzo pubblicato in Francia, o le dichiarazioni rilasciate a quotidiani e tv francesi «sulla nostra cultura e la nostra storia», «perché abbiamo deciso di chiudere i nostri giornali e le nostre televisioni ai nostri scrittori e romanzieri che così sono sottoposti a forme di ricatto finanziario e politico in Francia».
Su al-‘Arabi al-Jadid un altro algerino, l’universitario Mohamed Si Bashir denuncia «gli scrittori in missione», quegli intellettuali che con le loro opere letterarie «sostengono l’impresa francese nella sua narrazione storica». Si Bashir sostiene che a questi scrittori è stata assegnata una missione «sotto la copertura della letteratura maghrebina francofona e in nome della libertà di espressione da un lato, e per promuovere la nascita di un processo di riconciliazione delle memorie storiche franco-algerine dall’altra, ma con contenuti diversi rispetto a quelli che erano stati concordati». Tra questi scrittori in missione, Si Bashir ne cita cinque in particolare – i marocchini Tahar Ben Jelloun e Laila Slimani, e gli algerini Kamel Daoud, Boualem Sansal e Yasmina Khadra. Questi intellettuali, prosegue l’editoriale, sono alleati dei partiti francesi che «esprimono nostalgia per l’Algeria francese ogni volta che ne hanno l’occasione» e operano per «consolidare la dottrina francese della memoria in una struttura che contraddice la narrazione algerina, concentrandosi sulla dicotomia tra la positività del progetto coloniale […] da un lato, e la negazione della responsabilità per le conseguenze di questo progetto, tra cui i massacri, la distruzione dell'identità e persino gli esperimenti nucleari e chimici, come quelli condotti dalla Francia nel deserto algerino, dall’altro».
Va da sé che la stampa nazionale algerina riecheggia le accuse delle autorità algerine, e titola “Sansal, un burattino della corrente revisionista anti-algerina”. «Il clamore comico sollevato da alcuni ambienti politici e intellettuali francesi sul caso di Boualem Sansal è un’ulteriore prova dell’esistenza di una corrente “astiosa” nei confronti dell’Algeria, una lobby che non perde occasione per mettere in discussione la sovranità dell’Algeria» scrive l’autore dell’articolo.
Di segno opposto sono invece le riflessioni dello scrittore marocchino Talaa Saoud al-Atlassi, a conferma della rivalità che regna tra i due Paesi maghrebini. L’arresto di Sansal, scrive il giornalista sul quotidiano filo-emiratino al-‘Arab, è un ulteriore segnale della «Maroccofobia» dei governanti algerini, che hanno accusato il loro intellettuale di essere «un sionista francese e un agente del Marocco». L’Algeria sta scivolando sempre più verso il basso, continua al-Atlassi, «ha già perso una scommessa ai danni dal Marocco durata mezzo secolo» finendo per essere lei la parte danneggiata, e ora con l’arresto di Sansal «ha aggiunto un’altra crisi alla crisi», e rischia di danneggiare ulteriormente le sue già fragili relazioni con la Francia. Gli algerini «hanno usato Boualem come strumento per condurre la loro consueta campagna violenta contro il Marocco e la Francia». I media algerini «lo hanno privato dello status di algerino e lo volevano soltanto francese e un agente del Marocco. Così il suo arresto ha assunto una dimensione internazionale, uscendo dagli affari interni algerini».
Un altro editoriale pubblicato sullo stesso quotidiano mette l’accento su una particolare coincidenza: proprio nei giorni in cui Sansal è in stato di detenzione ai sensi dell’articolo 87 bis del codice penale algerino, che prevede anche la pena di morte, in Francia la casa editrice Gallimard ha pubblicato alcune lettere di Albert Camus in cui il filosofo francese nato in Algeria chiedeva l’amnistia per gli algerini condannati a morte in Francia quasi sette decenni prima. L’editoriale riporta inoltre alcune dichiarazioni che Sansal rilasciò nel 2010 alla rivista francese l’Humanité in merito a Camus: «Adoro questo scrittore e lo considero un rappresentante della letteratura algerina. Per un caso della vita, quando ero bambino vivevo nel suo quartiere e incontravo sua madre. Lui è stato il mio primo scrittore, il primo scrittore di cui ho letto le opere».
Sulle teste dei libanesi pende una spada di Damocle [a cura di Chiara Pellegrino]
Dopo alcune violazioni della tregua in Libano, i giornali arabi si sono interrogati sulla sua tenuta e i suoi risultati. Per al-Quds al-‘Arabi il cessate il fuoco è frutto di «un accordo bizzarro, che non è all’altezza di questo nome e che riflette l’aggravarsi dello squilibrio dopo l’ultima guerra», ma che al tempo stesso cerca di evitare che la situazione vada di nuovo fuori controllo. I 60 giorni previsti dall’accordo non sono una garanzia in assoluto, ma una fase di transizione che dovrà concludersi con la dissoluzione di Hezbollah – secondo la regola del «o uno, o l’altro» – pena la ripresa della guerra, scrive su al-‘Arabi al-Jadid il giornalista libanese Bassel Saleh. La guerra è infatti «una spada di Damocle che continuerà a pendere sulle teste degli intransigenti fino a quando non si vedrà un approccio diverso in tutti i dossier, ciò che significa smettere di imporre le condizioni politiche iraniane, […] e il principio politico per cui “o si fa come dico io, o non se ne fa nulla”», tipico dello «sciismo politico» libanese. Il giornalista teme che i 60 giorni siano il periodo concesso dai decisori politici al Libano per cambiare atteggiamento e rappresenti quindi un messaggio subliminale: «O i libanesi, primi fra tutti Hezbollah, capiscono la situazione, o il prossimo febbraio 2025 non sarà migliore dei mesi che hanno preceduto la firma del cessate il fuoco temporaneo».
La tregua, scrive il giornalista palestinese Mueen Taher su al-Arabi al-Jadid sancisce la sconfitta di Hezbollah, che tenterà di riorganizzarsi come partito politico per non essere escluso dalla vita politica del Paese. In questo momento la priorità del Partito di Dio è riorganizzarsi per «mantenere il potere rappresentativo della sua confessione». La reintegrazione all’interno del sistema politico libanese tradizionale infatti «lo priva dei suoi punti di forza, costituiti principalmente dall’idea della resistenza, e lo rende più vulnerabile alle influenze interne ed esterne».
Ma l’Iran accetterà che Hezbollah deponga le armi e si trasformi in un partito politico? – domanda Abdul Jaleel al-Saeed sul quotidiano emiratino al-‘Ayn al-Ikhbariyya. La risposta del giornalista è negativa, perché la trasformazione da milizia a partito rappresenterebbe per l’Iran «la fine del progetto iraniano in Libano, cosa che l’Iran non vuole e non accetterà». Pertanto, conclude l’editoriale, il discorso della trasformazione di Hezbollah «è solo un’illusione e un sogno, una falsità che i politici libanesi corrotti stanno diffondendo per guadagnare più tempo e avere la possibilità di allearsi con nuovi attori della milizia di Hezbollah».
Sono molti i giornalisti che non si fanno troppe illusioni. Il giordano Abdel Moneim Saeed puntualizza su al-Sharq al-Awsat che l’accordo sancisce una tregua temporanea, non è un cessate il fuoco definitivo. E scrive: «la guerra con altri mezzi è ancora in corso», ed è probabile che entrambe le parti in causa considerino la tregua «un’opportunità per riprendere fiato e raccogliere le forze in vista di un nuovo round». La guerra non è conclusa perché nessuna delle due parti ha raggiunto i suoi obbiettivi, «Israele non ha schiacciato le milizie ostili e le milizie non sono riuscite a smembrare Israele». Il destino della regione, conclude l’editoriale, dipende dagli arabi, non dalle potenze straniere. La pace ci sarà solo quando gli Stati nella regione saranno «Stati di diritto, quando le loro autorità si assumeranno la responsabilità del loro territorio e avranno il monopolio dell’uso delle armi».
Nel frattempo, il Segretario Generale di Hezbollah, Sheikh Naim Qasim, ha pronunciato l’ennesimo discorso dal titolo “Promessa e impegno”, dedicato principalmente al processo di ricostruzione del Paese come «parte del consolidamento della vittoria», e ha annunciato che il Partito di Dio affiancherà lo Stato libanese nella ricostruzione. Qasim ha ribadito la centralità del Partito di Dio nelle dinamiche politiche del Paese: «Hezbollah è forte nella sua struttura, nella sua rappresentanza parlamentare, popolare e istituzionale. È una componente importante nel Paese e rimarrà tale, perché è forte nel suo progetto sovrano finalizzato a costruire uno Stato giusto collaborando con tutte le parti, forte nel suo sostegno al diritto dei palestinesi e dei libanesi di liberare la loro terra, forte nel suo rifiuto dell’insediamento e dell’uso del Libano come piattaforma per gli altri». Il Segretario generale ha invitato gli arabi a unirsi contro il «genocidio in atto a Gaza» e contro i ribelli siriani «che fanno il gioco del nemico israeliano», e ha concluso con un monito: «ogni guadagno di Israele è una perdita per voi, non solo per la Palestina, la Siria o il Libano; questo avrà delle ripercussioni sui vostri Paesi e sul futuro dei vostri figli, perché siamo di fronte a un progetto espansionistico israeliano mediorientale molto pericoloso».