Intervento di Marco Impagliazzo alla conferenza internazionale “Cambiare rotta. I migranti e l’Europa”
Ultimo aggiornamento: 07/02/2024 11:03:18
Per contribuire a “cambiare rotta” – come recita il titolo del convegno – riguardo l’approccio e la gestione di un fenomeno così complesso come l’immigrazione, la Comunità di Sant’Egidio ha realizzato, dal 2016, il programma dei cosiddetti corridoi umanitari. Nati in Italia e promossi insieme alla Federazione delle Chiese Evangeliche e la Caritas, sono oggi diffusi anche in altri paesi europei: Francia, Belgio e Andorra. Si tratta di una via legale per accogliere e integrare migranti in stato di vulnerabilità, che andiamo a conoscere e a verificare sul posto: nei campi profughi del Libano, per quanto riguarda i siriani, in diversi siti di Addis Abeba, per coloro che vengono dal Corno d’Africa, e nei campi profughi – anche se la definizione è alquanto impropria – in Pakistan e in Iran per chi è fuggito dall’Afghanistan dopo il ritorno dei talebani. Accanto a questo programma esiste anche un’operazione portata avanti con il ministero dell’Interno: le cosiddette evacuazioni dai campi di detenzione in Libia.
I corridoi umanitari sono uno strumento legale che ha avuto l’appoggio dei diversi governi italiani succedutisi negli ultimi anni, a partire dal 2016, in particolare dei ministeri dell’Interno e degli Esteri e della Cooperazione internazionale, che sono competenti per la questione visti e immigrazione. La loro realizzazione è stata possibile perché nel regolamento visti del Trattato di Schengen è presente una clausola che consente ai vari Stati europei di concedere i cosiddetti VTL [permessi di ingresso a validità territoriale limitata, ndr] per motivi di protezione umanitaria. Si tratta di una possibilità che ha ricevuto una buona attenzione istituzionale da parte italiana.
Il risultato è che, negli ultimi sette anni, sono giunte in Europa quasi 7.000 persone attraverso questo strumento, che è sostanzialmente basato sulla volontà dei cittadini, molti dei quali cristiani appartenenti alle comunità citate prima: parrocchie, associazioni, semplici famiglie che si sono organizzate in forma di sponsorship, possibilità non prevista in Italia dalla legge sull’immigrazione (a differenza di altri Paesi, in particolare Canada e Stati Uniti), e che, a spese loro, ospitano e fanno viaggiare in sicurezza i rifugiati.
Il costo che ricade sul governo italiano è solo quello relativo ad alcune unità della polizia di frontiera, atte a verificare l’identità dei profughi nei consolati italiani dei Paesi citati, quindi Libano, Etiopia e Pakistan. È l’unica spesa del governo: tutto è a carico dei cittadini, ed è un sistema che funziona molto bene, perché ha stimolato la responsabilità di centinaia di migliaia di persone toccate dalle continue tragedie che avvengono nel mare Mediterraneo, “il più grande cimitero d’Europa”, di cui parla spesso Papa Francesco. Quasi una rivolta spirituale di fronte al male terribile di vedere donne, bambini, anziani, uomini morire perché non ci sono vie legali o quantomeno sono insufficienti.
Questa rivolta ha originato una grande mobilitazione, in particolare in quelle aree interne del nostro Paese che si stanno spopolando. Infatti, alla crisi demografica che subisce l’Italia si accompagna l’abbandono di molte aree interne. Regioni come la Calabria, per esempio, stanno sviluppando in maniera molto intelligente un sistema di accoglienza e integrazione dei migranti che ripopola tanti piccoli centri. Grazie alla presenza dei numerosi bambini che arrivano tramite i corridoi umanitari, in alcuni Comuni le scuole non chiudono più. Un’operazione preziosa, perché in molti casi, laddove sono già stati eliminati servizi come le poste, le banche e tanti altri, la perdita della scuola significa la quasi certa scomparsa di un’autonomia locale.
I corridoi umanitari ci hanno quindi portato anche a conoscere tanti sindaci di piccole o medie città, non poche parrocchie e preti che hanno sollecitato l’invio di immigrati e che continuano a farlo perché la loro presenza favorisce la rinascita dei loro Comuni, oltre a promuovere la solidarietà e l’idea di dare una risposta diversa e umana all’immigrazione. Una risposta che assume caratteri rilevanti: intere famiglie che donano la loro seconda casa e si prodigano per l’accoglienza, che insegnano l’italiano ai genitori, mentre i bambini vengono immediatamente iscritti a scuola, appena arrivano in Italia.
Inoltre il continuo arrivo a piccoli gruppi - sempre programmati con i ministeri competenti - danno un’idea nuova e diversa del fenomeno: l’immigrazione come una risorsa. Si comincia salvando vite umane, là dove l’Europa, nel suo complesso, sembra avere dimenticato di attivare un qualsiasi tipo di missione di salvataggio in mare, pur conoscendo la gravità della situazione. Solo l’Italia, la Guardia costiera – e in minima parte le ONG o le navi di passaggio – recuperano oggi persone nel Mediterraneo, ma non esiste un pensiero europeo – nonostante si tratti della nostra frontiera meridionale – che preveda un impegno almeno a salvare le vite umane. In questo modo si assiste impotenti e complici alla morte di migliaia di esseri umani.
I corridoi umanitari sono – è vero – una risposta numericamente relativa, ma come dice la grande sapienza ebraica – e anche quella cristiana e musulmana – «chi salva una vita salva un mondo intero». In Italia, ma successivamente anche in Francia, Belgio e Andorra, hanno ormai salvato migliaia di vite e quindi migliaia di mondi. Come abbiamo fatto e continuiamo a fare con gli ucraini, con i quali l’Europa ha manifestato giustamente una grande solidarietà, questo programma, che oggi è tutto a carico dei cittadini italiani e delle Chiese, dovrebbe essere assunto come strumento del nostro stesso Paese.
Abbiamo bisogno di un’immigrazione regolare e ci rallegriamo che i flussi nell’ultimo decreto siano stati allargati, ma accanto servono altre forme per favorire gli arrivi legali. I corridoi umanitari potrebbero quindi essere assunti anche dallo Stato italiano, insieme ad un allargamento del concetto di ricongiugimento familiare, oggi ristretto solo al figlio minore o al coniuge. Si potrebbero inoltre attivare dei corridoi per motivi di lavoro. Perché un imprenditore non potrebbe andare in Tunisia o altrove a conoscere le persone che vogliono venire a lavorare in Italia, come si fa in molti altri casi, per verificare se possano essere utili alla propria azienda? In altre parole la best practice dei corridoi umanitari può essere allargata come si vuole, perché funziona, è replicabile e soprattutto ha salvato migliaia di vite sottraendole dalle mani dei trafficanti di esseri umani. E ha dato forza a quei cittadini italiani sensibili alla questione migratoria che hanno così trovato una via concreta per dare una risposta umana e solidale.
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