Tavola rotonda con Izzedin Elzir, Yahya Pallavicini e Saifeddine Maaroufi, tenutasi alla conferenza internazionale “Cambiare rotta. I migranti e l’Europa” del 28 settembre 2023
Ultimo aggiornamento: 14/03/2024 14:15:48
Martino Diez: Siamo giunti all’ultimo momento di questa densa giornata: una tavola rotonda con tre imam. Mi sembra un incontro molto importante, perché siamo partiti da un appello islamo-cristiano sulle migrazioni, che è stato sottoscritto da questi e da altri rappresentanti delle comunità islamiche italiane, e perciò desideriamo ascoltare la loro voce. Abbiamo Izzeddin Elzir, imam a Firenze, ex presidente dell’UCOII, (Unione delle comunità islamiche d’Italia); Yahya Pallavicini, ex-presidente della Coreis e imam a Milano; Saifeddine Maaroufi, imam a Lecce. Abbiamo quindi rappresentate le tre macroregioni del nostro Paese, proprio perché in realtà questo fenomeno assume delle caratteristiche diverse a seconda della provenienza geografica. La prima domanda che vorrei rivolgere ai nostri ospiti riguarda la posizione che l’Islam ha rispetto al fenomeno della migrazione. L’Islam è una religione che ha una forte componente giuridica: un fenomeno così importante nella vita delle comunità non può non trovare un giudizio anche dal punto di vista etico e giuridico all’interno del sistema islamico. Si tratta quindi di una domanda molto ampia, che poi si può declinare in vari modi. Prego.
Grazie, buon pomeriggio a tutti. Come abbiamo sentito fin dall’inizio di questa conferenza, l’immigrazione è una sfida. Diversi ne hanno parlato come di un problema, ma io preferisco chiamarla sfida che, da quando l’uomo è su questa terra, c’è sempre stata. La questione, secondo me, non è l’immigrazione, ma è se noi siamo capaci di governarla o meno. Abramo, il patriarca di tutti i profeti, è nato in Iraq, è andato in Siria, è sepolto a casa mia, a Hebron, in Palestina. E se il patriarca dei profeti ha fatto tutti questi viaggi, credo ci siano diversi motivi. Oggi quando parliamo di immigrazione parliamo di paura, di guerre, di violenza, di clima... Un versetto nel Corano dice «وَإِنْ أَحَدٌ مِنَ الْمُشْرِكِينَ اسْتَجَارَكَ فَأَجِرْهُ» («e se qualche idolatra ti chiede asilo, accordaglielo». Cor. 9,6). C’è quindi il concetto di “dare loro la possibilità”: se uno ti chiede asilo o protezione, tu hai l’obbligo religioso di dargliela affinché lui trovi tranquillità e sicurezza. Questa è anche la storia dell’Islam: il primo gruppo di musulmani cercò asilo presso il Negus di Abissinia, un re cristiano giusto. Dunque all’inizio si recarono fuori dalla Penisola arabica e poi vi fecero ritorno, andando dalla Mecca a Medina. Questo per dire che all’interno del pensiero islamico l’immigrazione è una questione naturale. Certamente rimane una sfida, ma dipende da noi impiegare le nostre energie per trovare delle risposte. Come possiamo accogliere? Come possiamo interagire con questa immigrazione? Dipende tutto da noi. Spesso abbiamo ignorato la questione dell’immigrazione, non l’abbiamo gestita. A quel punto la questione diventa un problema, sia per chi arriva che per chi ospita. Credo che una cosa importante per cambiare rotta sia conoscere l’altro, aprirsi all’altro, eliminare i pregiudizi, perché come abbiamo sentito ci sono nel mondo cento milioni di migranti, mentre nella nostra regione non arriviamo neanche a cinque milioni. Andiamo a verificare la realtà, la verità.
Per conoscersi bisogna imparare la lingua: occorre insegnare l’italiano a chi arriva in Italia, ma non basta. Bisogna anche cercare di capire la cultura di chi arriva perché, come è stato detto stamattina, chi non ha gli strumenti per confrontarsi con l’altro rimane nella paura. Noi purtroppo viviamo nella paura, soprattutto negli ultimi vent’anni, dopo la tragedia dell’11 Settembre, quando il musulmano è diventato “il mostro”. Se non conosciamo l’altro e se non usiamo gli strumenti che ci sono, se non mettiamo in pratica la lingua e il dialogo interculturale, interreligioso (è vero che il nostro Paese è laico, ma culturalmente è cristiano cattolico), se non comprendiamo tutti questi meccanismi, rimaniamo nella paura. Addirittura, si è parlato dell’Europa come “fortezza” per evocare la chiusura. E credetemi, se l’autoctono ha paura al 50%, l’immigrato che arriva ne ha al 300%. Perciò abbiamo bisogno di mettere tutti questi elementi insieme per cambiare rotta, per avere un’immigrazione che, pur costituendo una sfida, sia anche una ricchezza.
Grazie anche da parte mia alla Fondazione Oasis per questo invito e per la sensibilità di questa tavola rotonda conclusiva interreligiosa islamo-cristiana, che tra l’altro è anche intra-religiosa. È la prima volta che ci si trova con Izzedin e Saifeddine: tre imam d’Italia che interagiscono fraternamente su questo tema con cristiani e con cittadini. Rispondo alla domanda sinteticamente su tre punti, lasciando quello più importante alla fine. Izzedin Elzir in realtà li ha già accennati: il contributo dell’esperienza storica, dottrinale e spirituale dell’Islam o della comunità musulmana relativamente alla migrazione può senz’altro partire da due elementi. Uno, molto interessante, è quello di essere stati emigranti e ospitati da un re cristiano, perché perseguitati da compaesani di tribù pagane anti-monoteiste. Trovo questo punto molto interessante: capire che a volte ci sono dei fratricidi, discriminazione, odio e violenza all’interno di una stessa famiglia in cui il monoteismo era motivo di persecuzione da parte degli stessi famigliari arabi. A volte è il nemico interno quello più accanito, e non quello che non si conosce, straniero o non famigliare. Il secondo punto è il fatto che da questa persecuzione famigliare interna si arriva ad un’ospitalità che oggi noi tradurremo con “fratellanza”. Un elemento significativo, almeno per noi imam, è che il portavoce della delegazione musulmana che viene ospitata dal re abissino cristiano viene invitato a un confronto alla presenza dei loro persecutori. I consiglieri del re avrebbero voluto che questi stessi musulmani tornassero alla loro terra di origine per garantire il commercio. Un elemento fondamentale non umano, ma direi sovrumano, come abbiamo sentito dalla professoressa Zanfrini, è che per trasmettere la testimonianza della loro identità, il delegato dei musulmani recita il capitolo della rivelazione, ossia la sura di Maria. E, pur non comprendendo la lingua della rivelazione, il re cristiano riconosce un’affinità spirituale e intellettuale nel simbolo comune di Maria, anche se teologicamente narrato in maniera diversa, e pone la delegazione sotto la sua protezione. È un esempio concreto di ospitalità, ma anche di fratellanza. Con alcuni c’è una fratellanza commerciale, con altri una fratellanza di opportunismo politico; con i musulmani invece esiste un’affinità spirituale e fraterna.
Questi elementi mi sembrano interessanti, ed è la cosiddetta prima hijra, come il professor Diez sa meglio di me. La seconda hijra invece è fondamentale per noi musulmani qui, adesso, anche in Europa, perché è il profeta stesso che (proprio in questo mese lunare di Rabi‘ al-Awwal), perseguitato nella sua città natale, il centro spirituale che è La Mecca, emigra verso quella che sarebbe diventata la capitale della civiltà islamica: Medina, che etimologicamente significa “città”. Muhammad diventa governatore della città, dove viene redatta e presentata la carta di Medina che garantisce l’equo diritto e dignità di cittadinanza alle rappresentanze religiose: famiglie ebree, cristiane e musulmane. Attenzione, c’è anche una dimensione intra-religiosa: questa costituzione di Medina garantisce pari dignità tra i musulmani, autoctoni o immigrati, di prima o di seconda generazione. L’ultimo elemento è il fatto che tra credenti – è una questione che esula dalla dimensione del dibattito giuridico o istituzionale – la migrazione, come diceva Mons. Martinelli questa mattina, è anche un discorso legato al concetto dottrinale del pellegrinaggio. “A Dio apparteniamo e a Dio facciamo ritorno”, come recita un versetto coranico (Cor. 2,156). E quindi il viaggio della vita parte da un’Origine e ritorna alla stessa Origine. E questo, nel rispetto dei linguaggi teologici differenti delle rispettive comunità religiose, è qualche cosa che accomuna i credenti sul simbolo della vita e sul simbolo del viaggio.
Buonasera a tutti, assalamu ‘alaykum, ringrazio la Fondazione Oasis per l’accoglienza e per averci ospitato. Ciò che dirò prosegue nel solco di quello che è stato già detto a proposito della tradizione islamica. Parlerò sempre dei due eventi storici citati pocanzi: la migrazione del primo gruppo di musulmani “rifugiati” presso un re cristiano giusto e la migrazione del profeta verso la città di Medina. Risponderò alla domanda dal punto di vista giuridico, sottolineando un punto in particolare: il distinguo che amo mettere in luce quando si parla di migrazione è la sua parte legale e illegale. Negli ultimi anni sia l’Islam che i giuristi hanno parlato dal punto di vista religioso della migrazione illegale o clandestina. Al contrario, nelle due migrazioni di cui stiamo parlando troviamo legalità: il primo gruppo di credenti è stato inviato dal Messaggero di Dio, che ha detto loro: «andate da quel re, quel re giusto presso cui non si subisce ingiustizia». Non sono partiti alla cieca, fuggendo verso un altro Paese solo per cercare un nascondiglio. Avrebbero potuto spostarsi nella stessa Penisola arabica in altri luoghi, dove i musulmani non stavano subendo le persecuzioni da parte della propria gente, da parte della stessa tribù da cui proviene il profeta. Si sono recati lì con una raccomandazione, come se alla corte di quel re avessero avuto una lettera di accompagnamento. Pertanto il pensiero, la possibilità di viaggiare, di emigrare, di partire, è una necessità umana, qualche volta spinta dalla ricerca della provvidenza divina.
Il Corano dice «Dio è colui che ha messo a vostra disposizione questa terra. Allora camminate sulle sue vie e cercate la sua provvidenza». Ecco, Dio ci ha dato questa terra: è compito del credente popolare questa terra, far uscire i frutti, renderla benefica per l’umanità. Quindi sì, ci si può spostare, ma una volta che le persone si sono create degli spazi propri in cui si identificano come nazioni, come popoli, allora sono chiamate, come recita il versetto «شُعُوبًۭا وَقَبَآئِلَ لِتَعَارَفُوٓا۟», «popoli e tribù, affinché vi conosciate a vicenda» (Cor. 49,13). Questa conoscenza si fa tramite l’incontro e non si può fare a distanza, non esisteva questa modalità. Il viaggio o lo spostamento dei popoli è un fatto, compiuto dai profeti, da Mosè con il popolo di Israele, dall’Egitto verso la Palestina, e tutti quegli spostamenti indicano che l’essere umano non si limita a uno spazio laddove la propria necessità vitale lo spinge a muoversi, è legittimato a farlo, ma è necessario che sia accompagnato anche da legalità.
La migrazione del profeta verso Medina, che ha costituito il punto di partenza della società dei credenti, non è stata improvvisata, ma è stata preceduta da un lungo lavoro preparatorio dell’ambasciatore Mus‘ab ibn ‘Umayr, facendo un invito alla fede. C’è stata un’accoglienza all’arrivo del Messaggero di Dio in quella terra, ma si trattava di un arrivo non programmato perché il profeta era fuggito – è uscito di nascosto dalla sua città natale perché stavano pianificando un attentato alla sua vita – ma quando è arrivato è stato accolto e subito ha creato le basi di una fratellanza fra i migranti e coloro che li hanno accolti, come ha detto Pallavicini. Questo ci lega al tema della migrazione come possibile necessità umana, che deve però anche essere collegata a una certa legalità, perché l’essere umano, nella sua indole, ama avere la sua intimità, la sua privacy non solo a livello individuale, familiare, ma anche a livello sociale. Nell’Islam questo ha reso lecita la difesa quando si viene attaccati. È chiaro che una volta che si creano delle frontiere, anche se sono virtuali, si ha il diritto di difenderle e non si accetta che vengano oltrepassate senza un preavviso.
Aggiungo un ultimo punto: l’accoglienza è talmente importante che anche nelle masārif al-zakāt, il pilastro dell’Islam dell’elemosina, diventa dovere del credente dar parte del proprio denaro al ابْنِ السَّبِيلِ, Ibni al-sabil, al viandante, che una volta arrivato da noi non ha nessuno che possa sostentarlo. Non appena un bisognoso arriva nella nostra terra o sotto la nostra responsabilità diventa dovere di fede sostenerlo. Grazie.
Martino Diez: Mi pare molto interessante quello che è stato detto, anche per la modalità argomentativa che i nostri ospiti hanno preso senza accorgersi. Alla domanda «l’Islam come valuta le migrazioni?» la risposta è stata la vita di Muhammad come esempio. Quindi le esperienze delle due migrazioni che hanno investito la prima comunità diventano paradigmatiche. Un famoso hadīth dice «l’Islam è cominciato da straniero e finirà da straniero. Beati gli stranieri!». La seconda questione, già accennata, riguarda il fatto che uno dei destinatari della zakāt, l’elemosina legale, sia proprio il viandante. Quindi, passando dall’Islam come sistema giuridico e teologico ai musulmani, la domanda è: come le vostre comunità, e voi stessi in quanto guide di queste comunità, vivete l’esperienza di stare accanto ai migranti, molti dei quali sono musulmani, o come accompagnate le vostre comunità nell’incontro con questi nuovi venuti?
Questo è molto importante. Come è già stato detto, la prima cosa che ha fatto il profeta Muhammad, la pace sia con lui, oltre alla moschea, è stata la carta di Medina. Per noi musulmani italiani, o residenti in Italia, la prima cosa che dobbiamo spiegare a noi stessi o ai nostri confratelli è che ci sono valori che ci uniscono tutti, e che sono rappresentanti dalla Costituzione italiana. Perché per uscire dalla paura e creare una convivenza pacifica dobbiamo condividere dei valori, come abbiamo sentito oggi. Il valore che unisce tutti quanti noi in quanto cittadini è la Costituzione italiana, oltre giustamente alla lingua e alla cultura, come è stato detto prima, e la base che regola questa convivenza è il rispetto. Ognuno di noi può preferire un particolare stile di vita. Non devo per forza condividere la Costituzione italiana, ma devo rispettarla.
Per quanto riguarda le cose pratiche: nelle moschee, per esempio, il sermone del venerdì lo facciamo in arabo, perché è la lingua del Corano, ma lo facciamo anche in italiano, perché la maggior parte dei nostri fedeli è arabofona. Bisogna parlare una lingua che i fedeli capiscano, e la lingua che unisce tutti quanti noi è l’italiano.
Abbiamo anche la zakāt, che è stata citata prima. Doniamo soldi a chi passa e chiede aiuto. La maggior parte chiede un biglietto del treno perché, come abbiamo sentito, gli immigrati arrivano in Italia ma vogliono andare altrove. E allora chiedono un aiuto: alla Caritas vanno a mangiare, mentre da noi vengono a chiedere il biglietto del treno per arrivare in Germania, in Francia o in Belgio.
Uno dei progetti interessanti che abbiamo a Firenze, ma ormai credo si faccia in tutta Italia, è la scuola al fine settimana dove insegniamo ai nostri figli la lingua madre, ma allo stesso tempo insegniamo la lingua e la cultura italiana alle mamme che portano i figli a studiare l’arabo o il Corano. Un’altra questione importante che abbiamo a Firenze è una scuola del dialogo interreligioso. È stata istituita dall’arcivescovo, dal rabbino e dall’imam, perché crediamo che il dialogo interculturale e interreligioso sia uno strumento importante per creare ponti. Credo che il ruolo delle comunità islamiche sia anche quello di fare da ponte con gli altri Paesi, un ponte importante per creare spazi di libertà, perché purtroppo la maggior parte delle immigrazioni si verificano perché mancano spazi di libertà, e non solo per una parte religiosa o l’altra, ma per i cittadini stessi di questi Paesi. Posso parlare della Palestina, così nessuno può accusarmi di parlare male di un altro Paese. In Palestina abbiamo un’Autorità Palestinese, ma non esiste la libertà di esprimere la propria opinione. Le comunità cristiane che si trovano lì, in particolare nel Medio Oriente, non sono ospiti, sono autoctoni. Gesù, la pace sia con lui, è nato in Palestina, e la religione cristiana è poi emigrata verso l’Europa. Abbiamo bisogno anche di cercare di aiutare i nostri fratelli cristiani a rimanere lì, perché l’assenza dei cristiani in Terra Santa, ma in generale in tutto il Medio Oriente, comporterebbe la mancanza di una grande civiltà. Qualcuno cerca infatti di cancellare questo tipo di convivenza che è rimasta per più di quattordici secoli. Abbiamo avuto quelle che in Occidente chiamiamo Crociate, che io in Palestina ho studiato come Guerre dei Franchi. Attenzione anche all’uso della terminologia, perché dire Crociate, secondo il mio insegnante di Corano, significa attribuire alla croce una violenza che questa religione non ha. L’insegnante di Corano a Hebron mi ha insegnato che si chiamano Guerre dei Franchi, anche se vi hanno partecipato diversi religiosi. Per questo io invito a non usare più la parola “invasioni”: ci sono le immigrazioni. Ci sono persone che arrivano, ma non è un’invasione. Anche se arrivano migliaia di persone. Abbiamo sentito che in Libano sono arrivati milioni di migranti, in Giordania due o tre milioni, e nessuno parla di invasione. Perché da noi arrivano centomila, duecentomila migranti e la chiamiamo invasione? Facciamo impaurire i nostri concittadini senza nessuna ragione. Grazie.
Concretamente, adesso parlo più come COREIS, ci sono tre campi, e il primo spero che corrisponda al vostro interesse. Noi siamo stati sollecitati da alcune comunità sia del Nord che del Sud Italia per un problema rilevante, cioè la formazione religiosa delle nuove generazioni. Si tratta di cinque comunità di origine straniera e di cinque casi diversi. Senza entrare nei dettagli, vi dico che le nazionalità in questione sono quella bengalese, bosniaca, pakistana, senegalese e turca. Queste sono le comunità da parte delle quali abbiamo avuto il piacere e l’onore di ricevere delle sollecitazioni e di sviluppare delle collaborazioni, di creare delle alleanze, dei progetti o dei programmi di collaborazione nel Nord e nel Sud Italia. In Sicilia il nostro referente coordina attività in 13 moschee soltanto a Palermo, gestite da musulmani di origine bengalese. A volte, le comunità bengalesi o le moschee gestite prevalentemente da bengalesi si trovano in competizione una contro l’altra. C’è animosità, un’infantilità, una tifoseria contrapposta interna che complica il processo di integrazione.
La stessa cosa vale nel Nord Italia, almeno per quello che riguarda il lavoro di coordinamento della COREIS. Abbiamo contatti e collaborazioni avviate da anni con diverse comunità di pakistani musulmani del Nord Italia in sana competizione tra di loro. Domenica c’è una festa a Brescia per la nascita del Profeta e noi siamo invitati, ma si tratterà molto probabilmente di un gruppo di pakistani senza l’altro. Ecco quindi, capite, c’è sempre questa dimensione complessa di esclusioni da gestire nella prima e nella seconda generazione.
Per tornare all’obiettivo dell’educazione religiosa, la richiesta nasce dal fatto che i genitori si rendono conto che pur nella dignità e nel rispetto delle loro radici e delle loro esperienze complesse, anche antropologiche, dal Pakistan o dal Bangladesh – per concentrarsi solo su questi due Paesi – i loro figli arrivati piccoli o nati in Italia non possono imparare o interpretare la religione o la declinazione della dimensione islamica nel contesto occidentale in urdu. Non è un problema soltanto linguistico, è proprio un problema di riflessione, di assimilazione, di integrazione culturale, intellettuale, spirituale. Se si ragiona coranicamente c’è il simbolismo della lingua sacra, ma da un punto di vista della declinazione della vita vissuta, questi genitori si rendono conto di non riuscire a ritrasmettere nelle nuove generazioni una consapevolezza vissuta della declinazione della vitalità della Rivelazione islamica in Occidente. La COREIS, forse per esperienza, forse per sensibilità, ha sviluppato dei percorsi adattandoli a questi contesti complessi. Per esempio, in alcuni casi ci siamo trovati in comunità o moschee, dove esisteva una radicale differenza tra nuove generazioni maschili e nuove generazioni femminili. Piano piano le cose si sono sciolte nel rispetto, senza fare crociate per questioni interne. Quindi queste sono le complessità. Meno complesso è stato con i bosniaci, forse perché sono occidentali e musulmani da generazioni. Però la COREIS con i bosniaci ha dovuto affrontare un altro problema: le nuove generazioni hanno un amore per la secolarizzazione occidentale. Quindi, in questo caso, la questione era cercare di aiutarli dalla convinzione che l’Islam o la religiosità siano un aspetto arcaico, mentre l’attualità vuol dire emancipazione, non credere più in Dio. Vedete, non è un problema di genere, di generazione o di lingua, ma è il dibattito tra religione e attualità, tradizione e modernità. Quindi abbiamo avuto questa bella esperienza di collaborazione con i bosniaci, almeno nel Nord Italia.
Con i senegalesi, invece, l’esperienza è stata più lineare, più felice. Non voglio generalizzare, ovviamente ogni Paese, ogni famiglia ha anche dei paradossi e addirittura delle contrarietà, però francamente nella storia e nelle radici del Senegal c’è una particolare sensibilità alla spiritualità, almeno per le comunità senegalesi che collaborano con noi, e al dialogo interreligioso, soprattutto fra cristiani e musulmani. Nella storia e nelle radici del Senegal, anche a livello politico, fratellanza, spiritualità e cittadinanza è qualcosa che viene vissuto, anche se forse con delle sensibilità molto lontane dalla cultura occidentale. Se pensiamo ai muridi, che sono discepoli di un grande maestro recente della storia dell’Islam nel Senegal, c’è una concezione di “regola” della povertà, del lavoro, della società, che non è esattamente il mainstream della vita in Occidente ma partecipa di una sensibilità simile e comune. È interessante quindi riconoscere che, in questo caso, non ci sono difficoltà, almeno secondo me, però ci sono differenze che arricchiscono.
L’ultimo esempio è la Turchia. Abbiamo iniziato bene e abbiamo finito, non so se male, ma adesso c’è un momento di chiusura indotta da parte delle istituzioni turche d’origine che gradiscono, come in Germania da tempo, chiudere la propria comunità di turchi musulmani in un’esclusiva formazione di imam dalla Turchia, non aperta al dialogo interreligioso o con altre comunità culturali. Questo perché hanno paura di una dissidenza o del fatto che qualcuno abbia abusato del dialogo per interessi rivoluzionari, a detta loro. Per questo motivo la collaborazione si è interrotta. Quindi ci sono questi cinque casi di identità comunitarie con cui la COREIS ha avuto modo di lavorare soprattutto nel Nord Italia. Sono interessanti come variabili nella complessità.
Se posso finisco con l’esperienza di cui Mons. Perego ha parlato oggi, “pizza e kebab”. Noi abbiamo fatto il programma “114 Pizza e dolci”, perché ci tenevamo a uscire dal pregiudizio culturale di equiparare un piatto a una cultura o a una tradizione religiosa. Durante il mese di Ramadan, in diverse città d’Italia, abbiamo offerto pizze e dolci arabi ai migranti ospiti dei centri di accoglienza, accompagnati da operatori cristiani. Quindi durante il Ramadan, si faceva l’interruzione del digiuno con della pizza e dei dolci, con la compagnia di alcuni volontari o rappresentanti di associazioni cristiane locali e c’era per questi neoarrivati migranti o rifugiati la possibilità di vivere il Ramadan e contemporaneamente scoprire un imam e un sacerdote che offrivano e condividevano questo momento: quindi l’abbinamento di un processo di sensibilizzazione culturale e di integrazione con la fratellanza rispettosa delle ritualità e delle differenze tra cristiani e musulmani.
È stato un esperimento di successo, anche da un punto di vista sentimentale, emotivo. La ricaduta sentimentale ed emotiva può esserci ed è bene che ci sia, ma non può essere il principale ed unico obiettivo, altrimenti scadiamo, anche da un punto di vista dell’integrazione, in una demagogia troppo facile. Bisogna essere molto concreti, non con il bilancino, però cercare di ottenere anche una dimensione di addolcimento dell’animo e del cuore, grazie.
La mia esperienza personale, come è stato anticipato, è un’esperienza con i migranti. Dal 2016 lavoro nei centri d’accoglienza per minori non accompagnati e nell’ultimo periodo anche con donne vittime di tratta. Il mio approccio, molto pragmatico, non si limita a quello di un imam nella moschea, ma comprende anche quello di un operatore sociale che lavora nell’ambito dell’accoglienza. Come comunità, noi cerchiamo di aiutare le persone. Succede a tutti noi imam che, alla fine del sermone del venerdì, tanti fedeli vengano a salutarci e a farci delle domande su questioni religiose, di giurisprudenza. Io vengo da Lecce, terra d’approdo per alcune rotte balcaniche verso Santa Maria di Leuca, la punta del tallone d’Italia, oppure verso Tricase, e non di rado d’estate arrivano delle barche partite da Smirne, in Turchia. Inoltre, il ricollocamento dei migranti che arrivano a Lampedusa, in Sicilia, si fa nelle regioni d’Italia dove la proporzione tra popolazione autoctona e migranti deve essere ben calcolata. E allora le persone che vengono da noi fanno anche domande relative a questioni migratorie. Come si fa a trovare l’ospitalità? Perché devo presentare la richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno? Come facciamo a trovare lavoro? Mi hanno dato questo primo permesso, mi permette di lavorare o no? La gente in questo caso viene a porci questioni che per loro diventano fondamentali, perché l’integrazione passa anche da un iter burocratico di cui oggi forse non abbiamo parlato molto. Anche chi “ce l’ha fatta”, essendo stato accolto, non essendo morto in mare e non essendo stato sfruttato altrove, affronta veramente un percorso difficilissimo per poter far valere il suo diritto e la sua possibilità di rimanere in Italia. Prima è stato citato un dato: solo dopo sei anni si arriva a poter ricongiungere la propria famiglia. Questo è uno dei problemi presenti: si chiedono documenti relativi all’abitazione che deve avere una certa metratura, si chiede chi risiede in quella città, chi ha relazioni, rapporti, eccetera. È un fatto che affrontiamo anche in moschea e che tra l’altro mi ha molto toccato, perché ricorda l’accoglienza durante il Ramadan, un mese di spiritualità che di solito nei Paesi islamici si vive in famiglia, mentre noi abbiamo un grandissimo numero di musulmani soli, giovani o meno giovani. Quindi cerchiamo di ricreare questo clima (si fa in tutte le moschee, non voglio prendermi meriti): ogni sera prepariamo per decine di persone la rottura del digiuno, una cena in cui ci ritroviamo insieme come una grande famiglia. Favoriamo l’integrazione tramite una comunità che partecipa all’accoglienza.
Il giudizio dell’Islam riguardo all’immigrazione illegale dipende dalla cinque regole su cui si basa la sharī‘a: la tutela della vita, la tutela della fede, la tutela dell’intelletto, la tutela della discendenza e quella dei beni. Rispetto a questi non deve verificarsi alcun danno, secondo il principio “né ricevere né fare del male” (lā darar wa lā dirār, لا ضرر ولاضرار). I sapienti ritengono quindi che mettere a repentaglio la propria vita sia illecito. Bisogna dirlo anche per essere onesti dal punto di vista intellettuale e religioso: non si può entrare in un luogo senza chiedere il permesso. Non è che se io vivo male a casa mia, oppure mi mancano alcune cose, sono legittimato a entrare nella casa del vicino. La stessa logica si applica quando due Paesi sovrani stringono accordi: se la gente vuole venire da me dal tuo Paese, mi deve mostrare i documenti. Tornando alla questione dei minori non accompagnati, essi sono doppiamente vittime. Prima lo psicoanalista tunisino Wael Garnaoui, mio connazionale, ha parlato di numeri, ossia centinaia di bambini. Quando parliamo di minori non accompagnati, non intendiamo solo i ragazzi adolescenti, ma anche bambini di uno o due anni messi sulle imbarcazioni di fortuna. Io li vedo sfruttati e mi permetto di spiegarlo: spesso padri e uomini si presentano portando con sé bambini piccoli, mentre le madri e gli altri figli sono rimasti a casa. Agiscono così perché sanno che in questo modo non verranno espulsi: non rischia l’espulsione chi accompagna un minore. Ma siccome i bambini vengono messi in pericolo di vita, dal punto di vista religioso ciò è un atto illecito.
Ma è chiaro, a volte manca tutto. Ho esperienza diretta con due famiglie tunisine arrivate da poco: hanno portato due bambini molto piccoli e malati, che non potevano essere curati in Tunisia. Quando parliamo di investimenti, piano Marshall, piano Mattei, occorre pensare a costruire ospedali, scuole. Certo, anche qui abbiamo problemi con gli ospedali e con le scuole. Già viviamo il divario Nord-Sud in Italia: immaginatelo applicato al divario tra le sponde Nord-Sud del Mediterraneo. Quando uno sa che, se si ammala, non riceverà le cure necessarie, o quando un giovane studia in una scuola priva di strutture e di strumenti, è chiaro che il suo unico desiderio è quello di andare dall’altra parte. Si è parlato di speranza, ma esiste anche la disperazione, che porta a non vedere nessun’altra alternativa.
La migrazione riguarda tanti giovani tunisini; io vengo dalla Tunisia e me lo ricordo. Una volta, quando si chiedeva a un bambino cosa volesse fare da grande, quello rispondeva il medico o l’avvocato. Adesso alcuni iniziano a rispondere “andrò in Europa”, come se fosse uno dei percorsi possibili. Non si tratta di una extrema ratio, ma di un’alternativa logica e naturale. Tanti prendono denaro dai propri genitori per poter pagare la traversata. In Egitto, invece, la partenza dei giovani rappresenta per la famiglia una forma d’investimento. La prima cosa che comincia a fare un minore appena arrivato è cercare lavoro, perché deve pagare il debito che il padre ha contratto per permettergli la traversata. Cerchiamo di cambiare retorica: occorre correggere questa forma mentis che porta a non vedere alternative se non la migrazione. Perché non vediamo migranti dagli Emirati? Perché non vediamo migranti che vengono dall’Oman? Il welfare che esiste in questi Paesi supera quello di alcuni Paesi europei. Sono le mancanze a creare questi desideri. Ognuno di noi nelle proprie comunità cerca di fare tanto: questo lavoro, come ha detto il professor Özdemir, deve essere guardato dal punto di vista olistico. È un termine che ormai va di moda, ma calza bene, perché sono tanti i casi specifici che vanno trattati all’interno della situazione generale. Grazie.
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