Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:48:42
Cosa pensano i musulmani degli Stati Uniti riguardo alla libertà religiosa? La risposta semplice è: le attribuiscono un grande valore. In parte, il profondo apprezzamento dei musulmani per la libertà religiosa tutelata costituzionalmente è radicato nel loro status di minoranza. Si tratti della comunità indigena dei musulmani afro-americani negli Stati Uniti o della controparte immigrata, entrambe hanno ampiamente sperimentato la lotta per mantenere i diritti civili legalmente tutelati in una società in cui appartenere alle componenti razziali, etniche e religiose subalterne è tuttora potente causa di marginalizzazione e alienazione dal potere economico, politico e da altre forme di potere sociale. Nel 1995, una donna musulmana dell’Ohio di nome Rose Hamid prese un’importante decisione personale: durante la convalescenza seguita a un incidente d’auto, si dedicò a un periodo di studi coranici e di riflessione che la portò alla conclusione che fosse obbligatorio indossare il tradizionale velo islamico. Non fu una decisione semplice: la signora Hamid sospettava che nonostante il “libero esercizio” sancito dalla clausola sulla religione del Primo Emendamento, il suo datore di lavoro, la US Airways, avrebbe potuto avanzare obiezioni riguardo al velo, mettendo perciò a repentaglio la sua decennale carriera di assistente di volo. Quando tornò al lavoro nel marzo del 1997, i suoi sospetti si rivelarono ben fondati. Sulla base di una politica aziendale che vieta di indossare simboli religiosi – come pure sulla base di una congettura secondo la quale il velo avrebbe reso la signora Hamid meno identificabile come membro dell’equipaggio di bordo in caso di emergenza – le fu proibito di indossare durante le ore di lavoro ciò che considerava un copricapo obbligatorio per religione. Evidentemente, anche i suoi sforzi per confezionare un velo nei colori aziendali, che mettesse in debita mostra lo stemma della compagnia, si dimostrò inaccettabile per l’azienda. La signora fece appello al Titolo VII della Legge sui Diritti Civili del 1964, che vieta la discriminazione dei lavoratori su basi religiose e che impone ai datori di lavoro di “accettare nei limiti del ragionevole” le pratiche religiose di un impiegato o di un futuro impiegato che non ledano la produttività del lavoro dell’impiegato stesso” (sezione 2000, articolo j) (1). In risposta, la US Airways “accettò nei limiti del ragionevole” le pratiche religiose della signora Hamid trasferendola a un nuovo posto di lavoro che non richiedeva contatti con il pubblico. Nonostante abbia conservato il proprio lavoro con la US Airways, la sua carriera di assistente di volo terminò a causa della sua decisione di coprirsi il capo. Molto più di recente, il «Los Angeles Times» ha riportato la notizia secondo la quale alcuni lavoratori dello stabilimento di confezionamento di carne della JBS Swift & Co. a Greeley (Colorado), in gran parte musulmani somali, hanno abbandonato il posto di lavoro nel settembre 2008, per protestare contro la mancanza di disponibilità della azienda a concedere pause che permettano agli operai musulmani di rompere il digiuno di Ramadan e di fare la preghiera del tramonto. Come risultato di questa protesta, un centinaio di operai musulmani sono stati licenziati. Poco tempo dopo, alcuni operai di uno stabilimento della JBS Swift a Omaha (Nebraska) si trovarono nella stessa situazione. A ogni modo, invece di essere licenziati come i loro colleghi in Colorado, essi riuscirono a convincere l’azienda a spostare l’orario della pausa per permettere la rottura del digiuno fino al 30 settembre 2008 (previsto come ultimo giorno del digiuno di Ramadan). Sarebbe un’affermazione riduttiva dire che, nella decade tra l’incidente della signora Hamid e i recenti avvenimenti negli stabilimenti della JBS Swift & Co., molte cose abbiano influito sul livello delle sfide alle libertà civili che i musulmani degli USA si trovano a fronteggiare. Sette anni dopo l’11 settembre 2001, è diminuito considerevolmente il numero delle irruzioni dell’FBI nelle case dei musulmani statunitensi, dal momento che le comunità islamiche in tutti gli USA hanno dimostrato la propria disponibilità a cooperare con i tutori della legge nei loro tentativi di prevenire ulteriori attacchi terroristici sul suolo americano. Benché ci siano ancora casi di cittadini musulmani fermati negli aeroporti in base al loro profilo razziale, anche questi sono diminuiti sensibilmente. Ciò che non è diminuito, comunque, sono gli incidenti riguardanti atteggiamenti negativi nei confronti dei musulmani e delle loro pratiche religiose. Il velo per le donne musulmane continua a essere il punto critico della controversia. Le donne musulmane che indossano lo hijâb sono ancora oggetto di insulti razziali, etnici e religiosi, come pure di discriminazione istituzionale. Nel 2003, ad esempio, una studentessa musulmana che frequentava la Regina High School a South Euclid (Ohio) decise di indossare il velo, nonostante né sua sorella (una diplomata del Regina High School) né sua madre si coprissero il capo. La madre sostenne la figlia nel manifestare le proprie convinzioni religiose con coraggio e confezionò per lei veli non appariscenti che completassero l’uniforme della scuola. Il direttore, tuttavia, considerò il velo una violazione al codice di abbigliamento della scuola che proibisce qualsiasi tipo di copricapo. Questo avvenne nonostante la posizione della Conferenza Episcopale degli USA che raccomanda che il codice di abbigliamento delle scuole cattoliche sia modificato per adeguarsi agli standard richiesti dalla religione tra gli studenti non cattolici. Alla fine, per tenere fede alle proprie convinzioni, la ragazza musulmana fu costretta a lasciare la scuola cattolica e a iscriversi altrove. Nuova Moschea Nel giugno del 2004, scoppiò una polemica a Orland Park (IL), nella periferia a Sud-Est di Chicago. Un gruppo di abitanti della città e di altre zone vicine stavano avanzando una richiesta all’autorità comunale per ottenere l’autorizzazione a costruire una nuova moschea. La domanda fu accolta da un’ondata di aperte obiezioni da parte di concittadini che temevano che la moschea sarebbe diventata un “rifugio dei terroristi”. Dopo una serie di discorsi pubblici pieni di rancore attraverso i quali l’importante pastore della locale Ashburn Baptist Church si dichiarò fermamente contrario alla proposta di costruzione della moschea, l’autorità comunale decise di ignorare quelle che considerò paure infondate e i piani per l’edificazione della moschea procedettero. Questo, a ogni modo, non toglie nulla al fatto che i cittadini musulma¬ni di Orland Park si videro quasi negare il diritto a costruire un luogo di culto nello stesso modo in cui, nel 2000, le forze anti-musulmane bloccarono con successo il piano di edificazione di una moschea nella vicina Palos Heights (IL), nonostante gli intensi sforzi di mediazione da parte del sindaco e di un prete cattolico del luogo. Attraverso la creazione di difensori pubblici dei diritti civili a livello nazionale e di osservatori dei media come il CAIR (Council on American Islamic Relations) e il MPAC (Muslim Public Affairs Council) (2), la comunità islamica negli Stati Uniti ha continuato a battersi con decisione – con il supporto di molti cattolici e di leader di altre tradizioni religiose – per difendere la libertà religiosa nel proprio Paese. Allo stesso tempo, i musulmani statunitensi si sono dimostrati tutto tranne che ipocriti nel loro approccio ai problemi di libertà religiosa nei Paesi a maggioranza musulmana. Molti si sono dichiarati fortemente contrari all’applicazione della pena hadd (cioè, di morte) per l’apostasia dall’Islam stabilita dalla maggior parte delle interpretazioni convenzionali della legge islamica. Questo è stato particolarmente vero durante e dopo il famoso caso di Abdul Rahman, un cristiano afghano, che, nel marzo del 2006, fu accusato del crimine di apostasia e rischiò la pena capitale comminata dalle corti afghane per essere diventato, nel 1990, un cattolico romano. Molti aspetti interessanti di questa vicenda furono oscurati dal sensazionalismo semplicistico dei media che tese a concentrarsi quasi esclusivamente sulla “illiberalità barbarica” delle corti afghane. Libertà di Espressione Una delle più forti e più rispettate voci di intellettuali all’interno della comunità islamica degli Stati Uniti, il Dr. Louay Safi, non perse tempo e scrisse una risposta alla crisi aperta da Abdul Rahman. Il 30 marzo del 2006, una importante rivista on-line dei musulmani americani nota come «The American Muslim» ed edita da Sheila Musaji pubblicò Apostasy and Religious Freedom, un articolo in cui il Dr. Safi sostiene che il problema dell’apostasia abbia maggiormente a che vedere con le restrizioni alla libertà di espressione nel mondo islamico, piuttosto che con i principi legali e i valori morali della tradizione islamica. Safi afferma che, in un tentativo di modernizzazione indotto dal colonialismo occidentale, molti governi islamici post-coloniali hanno entusiasticamente abbandonato le norme legali tradizionali islamiche e adottato codici legali di tipo europeo. Benché tali leggi furono accolte e poste in vigore da un’élite occidentalizzata e secolarizzata, non fu mai consentito che venissero posti al centro di un dibattito pubblico. In altre parole, i nuovi codici non furono mai sottoposti a un adeguato processo di vaglio culturale. Come conseguenza, nella reazione violenta che si è infine sviluppata contro il diffuso abbandono di valori e ideali islamici profondamente radicati, le società islamiche stanno tentando di rimettere in vigore norme legali islamiche in assenza del forte dibattito pubblico e accademico che sarebbe necessario per reinterpretare la legge islamica in modo efficace e autentico nei suoi nuovi contesti storici e sociali. Al contrario, i regimi totalitari – contrari alla riforma sociale e alla perdita del loro potere che tale riforma quasi sicuramente implicherebbe – continuano a schierarsi con gli interpreti tradizionalisti e letteralisti della legge islamica i quali, anch’essi preoccupati di conservare il proprio potere, sono favorevoli alla pena di morte per la conversione a una religione diversa dall’Islam, come parte della loro generale opposizione a una riforma genuina (3). Per Safi, i valori islamici riguardanti la libertà religiosa non potrebbero essere più chiari. Egli nel suo saggio sottolinea che la libertà religiosa è un elemento basilare dell’insegnamento coranico che prevede una punizione per l’apostasia nell’aldilà, ma non ordina in nessun punto la pena capitale per questo peccato. Egli ammette l’esistenza di due hadîth canonici (4) che sembrano autorizzare la pena capitale per l’apostasia. Analizzando questo fatto, comunque, egli evidenzia almeno quattro punti importanti. Al primo punto egli sostiene che, benché un hadîth possa legittimamente essere interpretato per specificare o restringere un’ingiunzione coranica di senso più ampio, esso non può mai essere utilizzato per contraddire o minare un principio coranico generale (in questo caso, il principio della libertà religiosa e della libertà di coscienza). In seconda battuta, come sottolineato anche da studiosi musulmani di fama come S.A Rahman (5), egli allude al fatto che ciascuna di queste tradizioni è conservata in hadîth attestati in un unico caso (khabar al-wâhid) e, perciò, si potrebbe sostenere che esse non abbiano la necessaria serietà epistemologica per giustificare l’applicazione della pena capitale. In terzo luogo, sembra che il Profeta Muhammad e i suoi Compagni non abbiano mai ucciso una persona per il semplice fatto che avesse cambiato il suo credo religioso, ma piuttosto sembra che lasciassero a tali individui una possibilità aperta di pentimento. La sua quarta e ultima argomentazione è stata sollevata anche da molti altri studiosi musulmani di fama di tutto il mondo che sono pronti ad affermare che la ratio legis (arabo ‘illa) per l’applicazione della pena capitale nei casi di apostasia risiede nella misura in cui tale apostasia implichi una tangibile minaccia all’ordine sociale nella forma di attacchi aperti all’Islam e/o attività sovversive contro uno Stato islamico (6). Repressione Politica Il dr. Maher Hathout, altro leader musulmano molto rispettato negli Stati Uniti, concorda ampiamente con Safi. Egli sostiene che l’unica limitazione alla libertà religiosa che uno Stato possa imporre si ha quando «il diritto alla libertà religiosa di un individuo... sia direttamente dannoso per la sicurezza pubblica» (7). Riflettendo ulteriormente sul problema degli abusi dello Stato contro libertà religiosa degli individui, Hathout scrive: «Il problema riguardante la questione della punizione per l’apostasia sta nel fatto che essa non può essere applicata in alcuno Stato islamico senza che ne derivi la possibilità che lo Stato stesso ne abusi. L’erronea equiparazione del potere morale con quello politico nella definizione della legge ha condotto alla repressione politica che vediamo oggi presente nei paesi islamici… Nel contesto della libertà religiosa, la responsabilità dello Stato consiste nel sostenerla e proteggerla come diritto di tutti gli uomini, come garantita da Dio, senza applicare un giudizio morale sul contenuto e/o sulla modalità in cui vengono esercitate quelle credenze religiose»(8). Nel marzo del 2007, un gruppo di musulmani statunitensi chiamato Team Islam-by-Choice e guidato dal Dr. Mohammad Omar Farooq dell’Upper Iowa University ha creato un sito internet e un blog telematico riguardante in generale la questione della libertà religiosa nell’Islam (9). Il sito internet contiene un articolo del dr. Farooq che propone molte delle argomentazioni comuni a Safi e Hathout. Forse più significativo, a ogni modo, è il fatto che questo sito internet contenga anche una dichiarazione che non lascia spazio a equivoci – firmata da più di cento studiosi e leader religiosi musulmani di tutto il mondo, molti dei quali provenienti dal Canada o dagli Stati Uniti – a favore della libertà religiosa e contro ogni tipo di punizione per l’apostasia in nome dell’Islam (10). La dichiarazione suona: «Noi sottoscritti, musulmani di diverse origini, affermiamo la libertà di fede e la libertà di cambiare la propria fede. Alla luce della guida del Corano e dell’eredità del Profeta, il principio della libertà di fede non si presta a imporre in questo mondo alcuna punizione o retribuzione per la sola apostasia; per questo non ci dovrebbe essere alcuna punizione nel nome dell’Islam né alcuna fatwa che inviti a ciò» (11). Non sarebbe eccessivo affermare che ci sono soltanto una manciata di studiosi o di leader religiosi musulmani statunitensi di una certa statura che non hanno firmato questa dichiarazione. Pur non avendo condotto nulla di paragonabile a uno studio scientifico sull’opinione degli studiosi e dei leader religiosi musulmani statunitensi riguardo a questo punto in particolare, ritengo che una maggioranza piuttosto ampia sarebbe favorevole all’abolizione del divieto di conversione dall’Islam a altre religioni che vige nella maggioranza dei Paesi islamici oggi – ma questo a una sola importante condizione. La Crisi per le Conversioni La condizione è che ci si renda conto del fatto molto pratico che una vera reciprocità in materia di libertà religiosa tra nazioni occidentali e nazioni a maggioranza islamica richiede una ragionevole parità sociale. In altre parole, la libertà religiosa non attecchirà e non germoglierà mai finché e a patto che non si verifichino due sviluppi strettamente connessi. Il primo è che la maggioranza delle popolazioni nei Paesi islamici non si senta più minacciata dalle dinamiche coloniali o imperialistiche occidentali. Come sa bene chiunque sia a conoscenza delle crisi per le conversioni di musulmani al Cristianesimo, la pressione per l’applicazione della pena capitale in questi casi ha ancora molto a che vedere con lo spettro dell’attività missionaria cristiana nel periodo coloniale e con la minaccia percepita che questa attività pone al tessuto sociale delle società islamiche. Il secondo sviluppo necessario è che la maggioranza delle popolazioni nei Paesi islamici divenga relativamente libera di esprimere i propri valori e i propri ideali islamici in contesti politici molto più partecipativi di quelli che attualmente prevalgono nella maggior parte di questi Paesi. Molti degli studiosi e dei leader religiosi che conosco sottolineerebbero che, benché la libertà religiosa autentica sia un bene morale oggettivo che deve essere perseguito in ogni società senza eccezione, essa può essere soltanto conseguita in maniera ragionevole e giusta in quelle società a maggioranza musulmana che sono riuscite a riformare il proprio governo e le proprie istituzioni religiose, in modo che sia il potere sulla religione che il potere della religione non siano più concentrati nelle mani di pochi eletti – siano essi laicisti reazionari, che cercano di tenere la religione sotto controllo, o islamisti radicali, che vogliono creare un regime islamico totalitario come quello al potere nella Repubblica Islamica dell’Iran. Fino a quel momento, sono certo che la maggior parte dei musulmani statunitensi sarebbero d’accordo sul fatto che i cristiani e i musulmani debbano continuare a fare tutto ciò che è in loro potere – nonostante qualsiasi ostacolo dovuto alla situazione temporale che essi debbano fronteggiare – per rispettare la loro reciproca libertà di coscienza e di espressione religiosa. Le nostre due tradizioni religiose non richiedono meno di questo. __________________________________________________________________________________________ (1) http://www.eeoc.gov/policy/vii.html (visitato il 15 settembre 2008). (2) I siti web di queste organizzazioni possono essere visitati in internet ai seguenti indirizzi: www.cair.com (per il CAIR) e www.mpac.org (per l’MPAC). (3) Louay Safi, Apostasy and Religious Freedom, «The American Muslim», Sheila Musaji (ed.), (pubblicato on-line il 20 marzo 2006): http://www.theamericanmuslim.org/tam.php/features/articles/apostasy_and_religious_freedom/ (visitato il 20 settembre 2008). (4) Il più noto dei due è: «man baddala dînahu fa-qtulûhu» («Chiunque cambi di religione, uccidetelo»). (5) Vedi S.A. Rahman, Punishment of Apostasy in Islam, Kitab Bhavan, New Delhi 1996. (6) Questa opinione, è stata sostenuta: da un famoso ex-rettore della Università Al-Azhar del Cairo, Shaykh Mahmud Shaltut (al-Islâm: ‘aqîda wa-sharî‘a, 292-293), e si trova in traduzione inglese nel capitolo IX dell’opera di Mohammad Kamali, Freedom of Expression in Islam, Islamic Texts Society, Louisville (KY) 2007; dall’attuale rettore, Shaykh Muhammad Sayyid Tantawi [si veda la citazione in Abdullah Saeed, Hassan Saeed, Freedom of Religion, Apostasy and Islam, Ashgate, Aldershot in Sheila Musaji 2004, 139]; e dall’attuale Gran Mufti d’Egitto, Shaykh Ali Gomaa (vedi l’articolo di Gomaa del 21 luglio 2007 su «On Faith», una rivista on-line del Washington Post e del Newsweek: http://newsweek.washingtonpost/onfaith/muslims_speak_out/2007/07/sheikh_ali_gomaa.html - visitato il 19 settembre 2008). (7) Maher Hathout, In Pursuit of Justice: The Jurisprudence of Human Rights in Islam, Muslim Public Affairs Council, Los Angeles (CA) 2006, 152. (8) Ibidem, 157-158. (9) Il sito internet e il blog si trovano all’indirizzo: http://apostasyandislam.blogspot.com/ (visitato l’ultima volta il 25 settembre 2008). (10) I firmatari tra i musulmani statunitensi comprendono, tra gli altri: Abdul Aziz Sachedina (University of Virginia); Khaled Abou el-Fadl (University of California - Los Angeles); Shaykh Mohammed Ali al-Hanooti (Gran Mufti, Greater Washington, D.C.); Mahmoud Ayoub (Temple University e Hartford Seminary); Irfan Ahmad Khan (Chicago, IL); Imad al-Dean Ahmad (Direttore del Minaret of Freedom Institute, Maryland); Shaykh Taha Jabir al-Alwani (fondatore e ex-presidente dell’International Instituteof Islamic Thought, consulente per il fiqh in America settentrionale); Mohammad Omar Farooq (University of Upper Iowa); Louay Safi (Direttore del Islamic Society of North America’s Leadership Development Center); Ingrid Mattson (presidente della Islamic Society of North America); Imam Feisal Abdul Rauf (Masijd al-Farah, New York City); M. Cherif Bassiouni (direttore e fondatore dell’International Human Rights Law Institute presso la DePaul University e candidato al Premio Nobel per la Pace nel 1999); Asma Afsaruddin (University of Notre Dame); Maher Hathout (Senior Advisor, Muslim Pulic Affairs Council). Una caratteristica particolare di questa lista di sottoscrittori è che gli estensori della dichiarazione si sono sentiti liberi di includerei nomi dei cosiddetti “Successori” alla generazione dei Compagni del Profeta Muhammad, come anche alcuni pensatori chiave dell’Islam medievale, basandosi sulla presenza nelle opere di questi personaggi di prove che indicano il loro sostegno alla libertà religiosa e il contemporaneo disconoscimento della punizione materiale per l’apostasia nel caso di conversioni individuali che non costituiscano una minaccia alla stabilità sociale. Alcuni di questi firmatari premoderni sono: Ibrahim al-Nakha’i (morto 713 d.C.); `Umar b. `Abd al-’Aziz (m. 720); Sufyan al-Thawri (m. 778); Shams al-Din al-Sarakhsi (m. 998); e Abu ’Abdallah al-Qurtubi (m. 1273). (11) Ibidem.