Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 17/04/2025 15:00:35
Le trattative in corso tra Washington e Teheran interessano da vicino anche i Paesi arabi del Medio Oriente. Sul quotidiano panarabo di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat, Nadim Qutaysh osserva in proposito che i colloqui non vertono soltanto sul dossier nucleare, ma anche sulle aree d’influenza nella regione. L’Iran si siede al tavolo dei negoziati «con l’ansia di un giocatore di scacchi che lotta per evitare il KO dopo aver perso la metà dei suoi pezzi principali». L’economia iraniana, già duramente provata, è ulteriormente soffocata dalle sanzioni di Trump, mentre sul piano militare e tecnologico Teheran ha visto i suoi principali alleati, in particolare Hamas e Hezbollah, subire pesanti colpi da parte di Israele, senza che gli Houthi o le milizie irachene riuscissero a compensare queste perdite. Inoltre, con la caduta del regime di Bashar al-Assad, l’Iran ha perso la sua posizione in Siria, prosegue l’articolo. In questa fase, l’Iran è come «un funambolo: mira a ottenere concessioni sufficienti a stabilizzare il regime, ma senza sacrificare l’intero programma nucleare, la fonte ultima della sua influenza regionale». Dal punto di vista israeliano le mosse dell’Iran sono una minaccia esistenziale, in particolare se Teheran dovesse riuscire a «ingannare l’America e accontentare il presidente Donald Trump con un accordo che consenta al Paese di mantenere la propria infrastruttura nucleare, per esempio la capacità di arricchimento dell’uranio, in cambio dell’impegno a non produrre armi». Israele teme questa eventualità perché «la linea rossa fissata dall’America è impedire [che l’Iran costruisca] la bomba, non smantellare l’intero programma nucleare, come invece vorrebbe Israele». Quest’ultimo potrebbe decidere di ostacolare il programma nucleare iraniano lanciando azioni non convenzionali, come cyberattacchi, sabotaggi e omicidi mirati, sulla scia dell’uccisione del fisico nucleare Mohsen Fakhrizadeh nel 2020, scrive Qutaysh. Parallelamente, Israele mantiene una presenza militare attiva a Gaza, in Libano, in Siria, Iraq e Yemen nel tentativo di esercitare pressioni indirette sull’Iran. Israele non esclude neppure l’ipotesi di un attacco unilaterale contro gli impianti nucleari iraniani, prosegue l’articolo, anche se questa sarebbe un’opzione estremamente complessa: siti come Fordow, Natanz e Arak sono protetti, distanti da Israele e difficili da colpire senza il supporto logistico e tecnologico degli Stati Uniti. In Oman, conclude il giornalista, «non si stanno delineando soltanto i limiti dell’accordo, ma anche quelli del prossimo scontro».
«Da quando Trump si è ritirato dall’accordo sul nucleare durante il suo primo mandato, Teheran ha bevuto coppe di veleno», commenta Alia Mansur sulla rivista saudita al-Majallah. La giornalista riflette su come i negoziati attuali siano profondamente diversi da quelli guidati dieci anni fa da Barack Obama, perché è cambiato il contesto geopolitico. «Dopo il Diluvio di al-Aqsa, la regione non è più quella di prima»; Netanyahu «ha saputo cogliere l’attimo», utilizzando il 7 ottobre come «giustificazione costante per muovere guerra non solo contro chiunque ritiene essere una minaccia per la sicurezza di Israele, ma anche contro qualsiasi forza che un giorno potrebbe diventare un pericolo o un deterrente per i progetti espansionistici di Tel Aviv». La giornalista rivolge poi una critica tra le righe all’amministrazione Obama, che nel 2015 ha negoziato l’accordo con Teheran «segretamente, senza considerare la sicurezza e gli interessi dei Paesi della regione, compreso il suo più stretto alleato, Tel Aviv». Oggi invece, Washington appare più consapevole del pericolo che le milizie legate all’Iran rappresentano globalmente. Un esempio è l’intervento americano contro gli Houthi in Yemen, reso necessario dal loro impatto negativo sul commercio globale. La vera incognita, secondo la giornalista, è «Khamenei: capirà che il suo regime non ha altra scelta che ripiegare entro i confini dell’Iran e rinunciare all’ambizione nucleare, inaccettabile per la comunità internazionale dopo ciò che è accaduto?» Il dubbio, conclude amaramente la giornalista, è che «il sogno “imperiale” continui a solleticare la mente e i sentimenti di Khamenei».
La stampa emiratina esprime disappunto perché gli Stati del Golfo non sono stati coinvolti nei negoziati. Oggi, come nel 2015, le capitali del Golfo sono state escluse dal tavolo delle trattative nonostante «siano le prime a subire le conseguenze di qualsiasi accordo stipulato con Teheran, a causa della vicinanza geografica, delle implicazioni sulla sicurezza e della minaccia nucleare», commenta il giornalista Hani Salem Mashour su al-‘Ayn al-Ikhbariyya. Questa esclusione denota, secondo il giornalista, «la debolezza araba nell’influenzare la forma e la direzione dei negoziati». Mashour sostiene che è arrivato il momento per la regione di giocare un ruolo attivo contribuendo a ridefinire il concetto di sicurezza collettiva su basi pragmatiche e interessi condivisi, piuttosto che su slogan. La soluzione, scrive, sono «gli Accordi di Abramo, una piattaforma di azione realistica, […] che può costituire un nuovo quadro per normalizzare i rapporti con Israele, ma anche per formulare un progetto regionale più ampio, che includa, insieme a Israele, i Paesi del Levante e persino l’Iran, sotto l’egida di intese strategiche fondate su un sistema di pressione ed equilibro reciproco». Per essere incluso in questo nuovo ordine, l’Iran deve «rinunciare a “esportare la rivoluzione” e integrarsi nel sistema internazionale come uno Stato normale, che cerca, cioè, influenza e potere nel quadro dello Stato nazionale, non dello Stato internazionale». Ciò implica però un ripensamento radicale del discorso politico e religioso iraniano e lo smantellamento dell’attuale sistema ideologico, prosegue l’articolo. «I negoziati di Mascate, condotti sotto la pressione militare israeliana e lo sguardo di russi e cinesi, potrebbero rappresentare un’occasione storica per ridisegnare il Medio Oriente», conclude l’editoriale.
Fare delle previsioni riguardo l’esito dei negoziati non è semplice, commenta Mohamad Kawas sulla piattaforma digitale libanese Asasmedia. «La difficoltà non risiede solo nel capire ciò a cui Teheran può o non può rinunciare, e ciò che può offrire in un eventuale nuovo accordo, ma anche nella natura mutevole di ciò che Trump vuole». Le oscillazioni nelle posizioni di Trump e della sua amministrazione rendono complesso anche solo dedurre l’obiettivo primario dei negoziati. Da parte sua, «l’Iran ha compreso che il mondo è cambiato dopo la guerra a Gaza e che il crollo delle sue finestre sul mondo e delle sue “quattro capitali” sta avviando [il Paese] verso un destino cupo, che bussa ormai alle porte di Teheran». È pur vero però che oggi l’Iran ha qualche vantaggio negoziale rispetto a qualche anno fa. A titolo di esempio, il giornalista ricorda l’accordo del 2016 che Teheran stipulò con Boeing per l’acquisto di 80 aerei, poi annullato nel 2018 a seguito del ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’intesa sul nucleare. All’epoca, Teheran comprese che nemmeno le prospettive economiche erano sufficienti a trattenere Trump a mandare all’aria l’accordo. Ma il contesto è cambiato: oggi «l’Iran sembra aver colto l’interesse crescente del presidente statunitense per le terre rare», intravedendo in queste risorse strategiche una leva per riaprire il dialogo e rafforzare la propria posizione ai tavoli negoziali.
Dopo le battute d’arresto subite dagli alleati in Libano e in Siria, l’Iran si sta mostrando più realistico, commenta il marocchino Mohammad Ahmed Bennis su al-Arabi al-Jadid. «Questo nuovo realismo potrebbe spingerlo ad accettare un accordo sul nucleare a fronte di perdite minime. Nonostante l’influenza predominante dell’ala conservatrice nei processi decisionali politici di Teheran, sembra esserci una convergenza tra le fazioni del regime sull’opportunità di negoziare con Trump, con la prospettiva di uscirne con perdite inferiori a quelle che potrebbe comportare uno scontro militare aperto con gli Stati Uniti e Israele». Secondo Bennis, questi negoziati sono il frutto dei cambiamenti avvenuti nella regione: «Teheran è consapevole dell’acqua che è scorsa sotto i ponti della regione negli ultimi sette mesi», dall’uccisione di Hassan Nasrallah alla caduta del regime di Bashar al-Assad, fino alla disgregazione dell’Asse della Resistenza e alla vittoria elettorale di Trump. Nonostante il momento di difficoltà, l’Iran conserva però alcuni strumenti di pressione, come il programma missilistico e il sostegno agli houthi, utili a «rafforzare la sua posizione negoziale e mantenere un minimo di capacità di deterrenza, soprattutto in un contesto segnato dal ritorno dell’iniziativa militare israeliana dopo la fine del cessate il fuoco a Gaza», prosegue l’articolo. Sul fronte opposto, la strategia americana mira a consolidare la superiorità militare israeliana, facilitare la normalizzazione con i Paesi arabi, liquidare la questione palestinese e trarre vantaggi economici. E proprio la prospettiva che Trump possa ottenere benefici economici da un accordo con Teheran – grazie all’apertura iraniana verso gli investimenti americani – preoccupa Netanyahu. Un’intesa tra Washington e Teheran rischierebbe infatti di rafforzare l’Iran offrendogli nuovi margini di manovra, e comprometterebbe i piani strategici israeliani che spaziano da Gaza al Libano, dalla Siria fino allo stesso Iran.
Su al-Quds al-‘Arabi (quotidiano panarabo di proprietà del Qatar) lo scrittore iracheno Muthanna ‘Abdallah sottolinea che i negoziati tra Stati Uniti e Iran non sono affatto una novità: erano già in corso durante la campagna elettorale di Trump. ‘Abdallah invita inoltre a non prendere alla lettera le minacce belliche lanciate pubblicamente dal presidente americano, distinguendo tra la retorica e la realtà, che vede Trump preferire la via diplomatica a quella militare. In questo processo, «hanno avuto un ruolo chiave le diplomazie silenziose di Qatar, Turchia e Oman, che hanno agito per favorire un’apertura tra Washington e Teheran, con l’obiettivo di prevenire un’escalation nella regione», scrive l’autore dell’articolo. Secondo il giornalista, è la realtà sul terreno a spingere verso il dialogo più che verso il conflitto: da un lato l’Iran è indebolito, dall’altro l’opzione militare per gli Stati Uniti è poco praticabile. Anche l’AIEA riconosce la difficoltà di smantellare il programma nucleare iraniano. Un attacco, quindi, rischierebbe solo di aggravare le tensioni nella regione senza reali garanzie di successo. ‘Abdallah si chiede perché si dovrebbe mantenere un punto caldo in Medio Oriente quando è possibile spegnerlo attraverso un’intesa diplomatica. Infine, l’autore ricorda che Trump non è incline a guerre lunghe e costose, anche perché un conflitto aperto con l’Iran danneggerebbe gravemente gli interessi economici e strategici dei suoi alleati in Medio Oriente.