Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 14/02/2025 16:16:35
Nei media arabi continua il dibattito sui piani di Donald Trump a Gaza e sul ruolo che gli Stati arabi possono giocare per contrastarli. “Trump, tra diritto internazionale e legge della giungla”, titola il quotidiano panarabo al-Quds al-‘Arabi. La tesi proposta dal giornalista palestinese Abdelhamid Siyam è che con le dichiarazioni del presidente americano «sembra di essere tornati nel XIX secolo, quando nel 1823 il quinto presidente degli Stati Uniti, James Monroe, adottò la “dottrina Monroe”». Questa dottrina mirava a impedire alle potenze coloniali europee di espandersi nelle aree d’interesse degli Stati Uniti ma poi, prosegue l’articolo, ha finito per diventare uno strumento di affermazione dell’egemonia statunitense. È su questa base che, dopo il 1898, gli Stati Uniti hanno annesso le Hawaii, Guam, Samoa e Porto Rico; occupato le Filippine, Cuba, la Repubblica Dominicana e Haiti; acquistato l’Alaska dalla Russia zarista per 7,2 milioni di dollari e le Isole Vergini americane dalla Danimarca per 25 milioni di dollari. Secondo il giornalista anche l’acquisto della Louisiana rientra nella stessa logica, sebbene in realtà sia avvenuto ben prima della dottrina Monroe. Trump, osserva Siyam, sta replicando lo stesso schema con Gaza in una logica ottocentesca, dimenticando che le relazioni internazionali odierne si basano sul diritto internazionale, non sulla legge del più forte.
“La battaglia per la Palestina e la sfida araba”, titola al-Sharq al-Awsat. L’editoriale, firmato dall’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid, celebra il ruolo dell’Arabia Saudita di capofila degli arabi, chiamata a fare sintesi e presentare una proposta univoca, capace di fermare le «ambizioni immobiliari» di Trump e riaccendere la speranza di una soluzione a due Stati. Mai come in questo momento gli arabi si sono trovati uniti su tre punti chiave: fermare la guerra a Gaza e in Cisgiordania, rifiutare gli sfollamenti forzati e sostenere la soluzione dei due Stati, spiega al-Sayyid. Tuttavia, la posizione araba risulta indebolita dal rifiuto di Hamas di cedere il controllo della Striscia all’Autorità Palestinese, una mossa che il movimento islamista evita per non dover ammettere la propria sconfitta. Tra gli arabi e gli Stati Uniti e Israele regnano ormai il sospetto e la sfiducia reciproca, una condizione che il giornalista illustra con una metafora: il cacciatore (Trump) lascia libero il passero (gli arabi), pur nutrendo il sospetto che le sue interiora possano essere piene d’oro. Nel frattempo, il passero è bloccato su un albero e non può volar via per la paura di essere colpito dal cacciatore, sempre appostato sotto l’albero.
Numerosi sono stati anche i commenti relativi alla tanto attesa visita del re giordano a Washington. Il quotidiano panarabo filo-emiratino al-‘Arab elogia «l’atteggiamento intelligente» adottato da re ‘Abdullah durante il suo incontro con Trump – «non ha lusingato Trump accettando la sua posizione, ma non ha neppure opposto un rifiuto categorico al suo piano [di sfollamento di Gaza], ciò che avrebbe potuto irritare Washington», ma ha preferito prendere tempo, riservandosi di presentare una proposta alternativa dopo il summit che il prossimo il 27 febbraio riunirà al Cairo tutti i Paesi arabi. L’articolo contrappone «la flessibilità del monarca giordano» alla «rigidità del presidente egiziano», che invece non perde occasione per manifestare il suo rifiuto netto del piano di Trump.
Soddisfatto anche al-‘Arabi al-Jadid per come il re di Giordania ha gestito l’incontro a Washington. Osama Abuirshaid scrive: «Il Re stava navigando in acque turbolente ma è stato bravo a tenere il timone». È riuscito a non approvare le «idee malate» di Trump senza arrivare allo scontro diretto e senza provocare l’ira di un «presidente pazzo».
I quotidiani nazionali giordani hanno celebrato l’evento con immagini e resoconti entusiastici di «una giornata epica, che racconta lo straordinario rapporto del Re con il suo popolo». Giovedì, decine di migliaia di giordani si sono riversati lungo la strada che collega l’aeroporto di Amman al Palazzo Reale per accogliere re Abdullah II di ritorno da Washington, in un’imponente manifestazione di «lealtà, fedeltà, alleanza e dedizione» nei confronti del sovrano. Le parole che re Abdullah ha dedicato ai suoi sudditi – «Traggo la mia energia e la mia forza da voi» – sono la cifra del suo rapporto con il popolo, scrive Nevin Abdel Hadi sul quotidiano filo-governativo al-Dustur. La decisione di far scendere i giordani in strada, è strategica, scrive il giornalista, perché il monarca sa che «le reazioni regionali sono importanti, anche se non decisive» nella questione palestinese.
Sulla posizione dell’Egitto si è espresso il giornalista marocchino Bilal Talidi su al-‘Arabi al-Jadid. Il Cairo ha «una carta importante da giocarsi: l’unità della posizione araba, islamica e internazionale contro la “soluzione” dello sfollamento, a favore della costituzione di due Stati, e la gestione del fattore temporale». Più il tempo passa, più la situazione si complica per Israele, perché «non trascorre settimana dalla prima fase dell’accordo [la tregua, NdR] senza che la sua struttura politica e sociale non subisca scosse, mentre le tensioni tra le sue istituzioni aumentano sempre più». Gli arabi devono sfruttare il momento, presentare in tempi brevi una proposta alternativa allo sfollamento di Gaza e mettere alle strette Israele.
Siria: il rischio di deriva autoritaria preoccupa i media arabi
I giornalisti arabi continuano a guardare con apprensione anche le vicende politiche siriane. «A due mesi dalla caduta-liberazione, emergono segnali crescenti di un possibile governo autoritario incentrato sui sunniti», scrive l’attivista siriano Yassin al-Hajj Saleh sul quotidiano panarabo al-‘Arabi al-Jadid, di proprietà qatariota. La nuova amministrazione, di cui Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) rappresenta la forza dominante, «alimenta il timore di un governo autoritario simile a quelli che si vedono comunemente nel mondo arabo», ma secondo Hajj Saleh il governo di Assad non è stato solo autoritario, è stato genocida. Sebbene l’accentramento del potere in mano sunnita non implichi necessariamente un’islamizzazione ideologica aggressiva, non la esclude nemmeno. Se nei prossimi mesi il processo di creazione dello Stato dovesse incontrare ostacoli dovuti a tensioni sociali, confessionali o regionali, i siriani potrebbero trovarsi intrappolati in una doppia minaccia: «estremismo religioso e governo autoritario, che nel lungo periodo potrebbero diventare una condizione strutturale». Al-Hajj Saleh sottolinea poi la necessità di riconsiderare la questione della laicità, che negli ultimi anni del governo di Hafiz al-Asad e nei primi di Bashar «si era trasformata in un’ideologia di comodo, usata per giustificare il regime e negare i diritti tanto degli islamisti quanto dei democratici». Infine, Al-Hajj Saleh evidenzia l’importanza di mantenere vivo il dibattito politico dentro e fuori la Siria, perché «la distanza aiuta a vedere con maggiore lucidità, mentre la vicinanza consente di osservare, sperimentare e comprendere in profondità».
Anche il giornalista siriano Rateb Sabo esprime preoccupazione per una possibile deriva autoritaria. Il pericolo principale per la Siria del futuro «proviene proprio da coloro che hanno salvato il Paese dal suo peggior flagello [Asad]», scrive sullo stesso quotidiano. Questi, prosegue l’editoriale, anziché sfruttare la caduta del regime per «costruire uno Stato su un terreno pulito», hanno scelto di favorire gli islamisti, strutturando l’esercito attorno alle fazioni armate che hanno combattuto contro Asad negli anni passati. Tuttavia, queste fazioni restano ideologicamente orientate e incapaci di rappresentare la diversità etnica e religiosa del Paese. Il rischio, avverte Shabo, è che l’esercito siriano rimanga diviso a causa delle sue lealtà alle diverse fazioni o che finisca sotto il controllo di un leader autoritario.
Su Asas Media, il giornalista libanese Hisham Alaywan si interroga sulla possibilità di replicare in Siria il modello politico del Partito turco della Giustizia e dello Sviluppo (AKP). Sebbene l’Islam turco possa rappresentare un riferimento, il contesto siriano è profondamente diverso quello turco, commenta il giornalista. Erdoğan «ha elaborato una nuova formula di partito che riduce al minimo le possibilità di scontro interno, proteggendo il sistema laico in Turchia e trasformando la presidenza in una piattaforma di proselitismo islamico». In Siria, però, la situazione è differente. L’ambiente è «più religioso e conservatore», soprattutto nelle grandi città. Qui, il regime baathista aveva favorito la diffusione dell’Islam sufi tradizionale per arginare l’influenza dei Fratelli musulmani, ma ora con la vittoria della rivoluzione «l’Islam rivoluzionario» salafita ha acquisito una legittimità paragonabile a quella che ottenne il laico Mustafa Atatürk in Turchia dopo la Prima Guerra Mondiale. Un’altra questione cruciale riguarda le minoranze, che in Siria sono più numerose che in Turchia. Per mantenere coesa la Nazione, Ahmad al-Shara‘a potrebbe decidere di sfruttare il timore delle minacce esterne – rappresentate dall’influenza persistente di Iran e Russia sulle comunità minoritarie – e quelle interne, legate ai resti del vecchio regime.
Più ottimista invece è la stampa di proprietà saudita. Due mesi dopo la caduta di Bashar «la situazione sembra essere sotto controllo», con al-Shara‘a che controlla più del 70% del Paese, commenta ‘Abdelrahman al-Rashid, ex direttore editoriale di al-Sharq al-Awsat. Alcune criticità permangono nel nord, dove le fazioni ribelli potrebbero restare fuori dal controllo di Damasco per molti anni a venire, e a sud, nel governatorato druso di Suwayda e in quello di Daraa, quest’ultimo controllato dalle forze ribelli di Ahmed al-Awda. Positiva invece la reazione delle città costiere di Tartus e Latakia, a maggioranza alawita, che contro ogni aspettativa non si sono ribellate, segno «dell’impegno profuso da al-Shara‘a nella costruzione di un rapporto di fiducia con queste comunità». Secondo al-Rashid, nei prossimi anni la Siria in virtù della sua posizione geografica giocherà un ruolo cruciale per la sicurezza dell’intera regione. Per questo sarà fondamentale contenere i movimenti separatisti e prevenire eventuali interferenze iraniane, che potrebbero puntare a creare un’opposizione interna per destabilizzare il nuovo governo o esercitare pressioni affinché quest’ultimo collabori ai propri obiettivi, in particolare l’apertura del «corridoio siriano per raggiungere il Libano e Israele».