L’insurrezione generalizzata che Hamas sperava di innescare con il “Diluvio di al-Aqsa” non si è verificata. Ora è Israele a essere all’offensiva. Ma i suoi exploit saranno effimeri in assenza di una soluzione politica al conflitto israelo-palestinese

Ultimo aggiornamento: 07/10/2024 17:02:07

Quando il 7 ottobre del 2023 Hamas ha lanciato il “Diluvio di al-Aqsa”, il suo obiettivo era probabilmente quello di provocare un’insurrezione generalizzata che, partendo dalla Striscia di Gaza, avrebbe investito la Cisgiordania e Gerusalemme, mobilitato gli israeliani palestinesi, indotto il sostegno degli alleati dell’Asse della Resistenza e magari degli altri Paesi arabi e musulmani. È questo il progetto che si può leggere nel comunicato con cui il leader delle Brigate ‘Izz al-Din al-Qassam, il braccio militare di Hamas, annunciò l’aggressione. Un anno dopo, non solo la sollevazione non c’è stata, ma le parti si sono rovesciate. Oggi è Israele a essere all’offensiva sui vari fronti che Hamas intendeva aprire. Gaza è distrutta. Diversi dirigenti del movimento islamista, tra cui quel Mohammed Deif che aveva firmato il proclama del 7 ottobre, sono stati uccisi. In Cisgiordania e a Gerusalemme avanzano i coloni israeliani e si sono moltiplicati abusi e violenze contro la popolazione palestinese. I Paesi in cui opera l’Asse della Resistenza, a partire dal Libano, sono coinvolti in una guerra di proporzioni sempre più vaste, mentre gli Stati arabi e musulmani sono rimasti a guardare. E negli ultimi due mesi lo Stato ebraico è riuscito a far valere la propria superiorità tecnologica e militare, decapitando in una sequenza impressionante di assassini l’intera leadership di Hezbollah, il partito-milizia libanese che a partire dall’8 ottobre era intervenuto a sostegno di Hamas con i suoi lanci di missili sul Nord d’Israele. Netanyahu, per quanto tuttora incapace di delineare una strategia credibile per il futuro di Gaza, ha annunciato di volere imporre un nuovo ordine mediorientale attraverso la neutralizzazione definitiva della Repubblica islamica d’Iran e dei suoi alleati regionali.

 

Di fronte agli exploit dello Stato ebraico, molti osservatori hanno suggerito un paragone tra la schiacciante vittoria israeliana nella guerra del 1967 e la situazione attuale. Le differenze tra i due momenti sono in realtà notevoli. Il conflitto del ’67 era stato uno scontro simmetrico tra eserciti ed era durato pochissimo, al punto da passare alla storia come la Guerra dei Sei giorni. Oggi a confrontarsi sono lo Stato d’Israele e un insieme di milizie sostenute dall’Iran, e la guerra sembra lontana dal suo epilogo. È vero tuttavia che, dal punto di vista simbolico, l’attuale strapotere israeliano non può non ricordare il trionfo del ’67. All’epoca, la sconfitta degli Stati arabi aveva sancito il fallimento del nazionalismo arabo e il crollo del mito del presidente egiziano Gamal Abd-al Nasser, icona della resistenza allo Stato d’Israele, suscitando un profondo ripensamento anche culturale che aveva trovato la sua manifestazione più compiuta nell’autocritica del filosofo Sadeq al-‘Azm e nei versi di Nizar Qabbani, entrambi siriani. Oggi a essere caduto è il mito della forza di Hezbollah, il cui segretario generale Hassan Nasrallah era considerato un nuovo Nasser, e più in generale dell’efficacia dell’Asse della Resistenza.

 

Se il raffronto con il 1967 ha qualche fondamento, conviene ricordare le parole con cui Raymond Aron aveva analizzato dalle colonne del Figaro i fatti di quell’anno. Già alcuni mesi prima della crisi, il grande pensatore francese osservava che, «anche militarmente superiore, Israele non può risolvere con la forza il problema della propria esistenza». Nel 1970, tornando sulla vittoria israeliana, scriveva invece: «è come se gli israeliani disperassero di un accordo, almeno a breve, e contassero solo sulla forza militare per ottenere innanzitutto la propria sicurezza e costringere i loro nemici a trattare in seguito. Penso che, un giorno o l’altro, riconosceranno quello che Hegel, commentando l’epopea napoleonica, chiamava “l’impotenza della vittoria”. Gli israeliani otterranno ancora dei successi, non costringeranno i loro vicini alla capitolazione, non convertiranno le masse arabe».

 

Più di cinquant’anni più tardi, nonostante i tanti eventi e i cambiamenti occorsi (a partire dall’uscita di scena degli Stati arabi nel conflitto con Israele), la lettura di Aron continua a cogliere nel segno. Israele può vantare un nuovo “successo”, ma la sua vittoria è ancora «impotente». Sotto le macerie dell’ultimo anno di guerra rimangono infatti i tanti nodi irrisolti del conflitto. Più di 40.000 persone sono state uccise. Hamas è piegato, ma non annientato. Il futuro di Gaza è a dir poco incerto. L’occupazione sempre più soffocante della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, oltre a rappresentare una colossale ingiustizia, annuncia di essere una fonte di tensione permanente. I luoghi santi di Gerusalemme, il cui statuto è messo in discussione dai gruppi suprematisti ebraici, si stanno trasformando in un nuovo campo di battaglia. Hezbollah è in difficoltà come mai prima d’ora, ma l’invasione del Libano produrrà soltanto l’ennesima devastazione del Paese dei Cedri, mentre lo scontro sempre più ravvicinato tra Israele e l’Iran è prossimo al punto di non ritorno. A ciò si aggiunge un fenomeno che ha le sue radici nella vittoria del 1967, ma che all’epoca era difficilmente pronosticabile: il rischio di una disgregazione interna d’Israele a causa della frattura sempre più profonda tra il sionismo laico e quello religioso.

 

Accecato dalla hybris, confortato dal rimbalzo positivo nei sondaggi sul suo operato e sospinto dal radicalismo degli alleati di governo, Netanyahu sembra non ammettere ostacoli al suo progetto politico. Ma la storia degli ultimi decenni è un monito che non può essere ignorato.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Oasiscenter
Abbiamo bisogno di te

Dal 2004 lavoriamo per favorire la conoscenza reciproca tra cristiani e musulmani e studiamo il modo in cui essi vivono e interpretano le grandi sfide del mondo contemporaneo.

Chiediamo il contributo di chi, come te, ha a cuore la nostra missione, condivide i nostri valori e cerca approfondimenti seri ma accessibili sul mondo islamico e sui suoi rapporti con l’Occidente.

Il tuo aiuto è prezioso per garantire la continuità, la qualità e l’indipendenza del nostro lavoro. Grazie!

sostienici

Tags