Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 23/08/2024 12:49:09

Da quando Ismail Haniyeh, il capo politico di Hamas, è stato ucciso il 31 luglio scorso a Teheran, i giornali arabi si non hanno smesso d’interrogarsi sulla reazione iraniana che sarebbe seguita. Subito dopo l’omicidio la Guida Suprema, l’Ayatollah Khamenei, aveva infatti giurato vendetta a Israele. Una vendetta che finora non c’è stata e che, secondo buona parte dei quotidiani – in particolare quelli filo-emiratini e filo-sauditi – non ci sarà.  

 

Nelle prime ore dopo l’uccisione, scrive su al-Jazeera il giornalista turco Ramazan Bursa, i segnali lanciati da Teheran avevano lasciato intendere che la risposta sarebbe stata rapida. «A Qom, sulla cupola della moschea Jamkaran, [un’importante meta di pellegrinaggio sciita, NdT] è stata issata una bandiera rossa, simbolo di vendetta, mentre i media iraniani e centinaia di account filo-iraniani hanno condiviso sui social media foto e video che indicavano ritorsioni contro Israele». Secondo l’editorialista, la ragione di questa attesa o rinuncia ad attaccare va ricercata all’interno dell’Iran, perché Khamenei, per quanto ne dica, è più preoccupato dall’opinione pubblica iraniana che di ciò che pensa il mondo esterno, sapendo che quest’ultimo sarebbe comunque critico – «le popolazioni della regione e del mondo riterrebbero un attacco insufficiente, e allo stesso modo accuserebbero l’Iran di codardia se l’attacco non dovesse verificarsi». Dal 2021 Teheran segue una politica di «preparazione del periodo di transizione», prepara cioè la successione all’ultraottantenne Khamenei. Tutti gli sforzi sono convogliati in questa direzione, commenta Bursa, con l’obbiettivo finale di «tramandare le conquiste della Rivoluzione islamica del 1979 al dopo Khamenei in modo sano e corretto». A ciò si aggiungono la pressione sociale dovuta alle difficili condizioni economiche del Paese, e il tentativo di Teheran di proseguire i negoziati con gli Stati Uniti e l’Occidente per raggiungere un accordo che revochi le sanzioni economiche. Perciò, commenta il giornalista, «la Guida Suprema non vuole che la decisione [di attaccare Israele] si ripercuota negativamente sulla sua politica di “preparazione al periodo di transizione”». I colloqui di Doha offrono quindi a Teheran una terza via, quella della «ritirata tattica», a cui peraltro lo stesso Khamenei ha già preparato il terreno durante il suo ultimo discorso, quando ha detto che «l’obiettivo del nemico nel portare la guerra psicologica nel campo militare è creare paura e la ritirata. Secondo l’interpretazione del nobile Corano, la ritirata non tattica in qualsiasi campo, sia in quello militare che in quello politico ed economico, o della predicazione, suscita l’ira di Dio. A volte, però, la ritirata è tattica e può essere finalizzata allo sviluppo di una strategia. E in questo non c’è nulla di male». Un accordo per la tregua a Gaza potrebbe perciò togliere dall’imbarazzo la Guida Suprema.

 

La giornalista libanese Hoda al-Husseini la scorsa settimana scriveva sul quotidiano panarabo di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat che «la vendetta dell’Iran è possibile, ma la guerra improbabile». Attaccando Israele Teheran ha tutto da perdere, commentava l’editorialista. L’Iran ha una capacità di fuoco limitata, che può essere facilmente contrastata dai sistemi anti-missile israeliani; dal canto suo Israele ha a disposizione aerei da combattimento in Azerbaigian, al confine con l’Iran, che «possono raggiungere facilmente obbiettivi militare ed economici in Iran», e dispone di una flotta di sottomarini nel Golfo Persico, appena al largo delle coste iraniane. Teheran, continua al-Husseini, sa di essere in una posizione delicata e non ha mai fatto davvero sul serio, tant’è vero che quando ha sferrato l’attacco su Gerusalemme lo scorso aprile «ha ammorbidito il pugno avvisando quando sarebbe avvenuto l’attacco». A far desistere la Repubblica islamica dal suo intento hanno contribuito anche le richieste della Russia, preoccupata che i suoi cittadini residenti in Israele potessero essere uccisi in caso di attacco, e degli Stati Uniti – perché dopo tutto «l’esplosione che ha ucciso Haniyeh non ha mietuto vittime tra gli iraniani», oltre al fatto che un attacco iraniano innescherebbe una contro-reazione israeliana, con conseguenti danni alla stabilità del governo iraniano eletto da poco.  

 

A questi fattori si aggiunge il mancato sostegno islamico, come sottolinea il giornalista yemenita Hani Salem Mashour sul quotidiano emiratino al-‘Ayn al-Ikhbariya: «La recente riunione dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC) a Gedda ha condannato l’assassinio di Haniyeh, ma non ha dato all’Iran la copertura politica sperata», con grande disappunto del leader del movimento houthi in Yemen, Abdul Malik al-Houthi, e del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah. L’Iran, conclude Mashour, «è rimasto senza alleati nella battaglia per ripristinare la propria dignità».  

 

«L’Iran non è pronto per la guerra» per un’infinità di ragioni, commenta il giornalista libanese Obada Alladan sul sito d’informazione Asas Media. Tra queste, c’è il timore che una guerra possa avere ripercussioni sulle elezioni presidenziali americane «danneggiando Kamala Harris e dando al contempo una carta di potere a Donald Trump, che potrebbe rivelarsi decisiva per riportarlo alla Casa Bianca». L’Iran pertanto, scrive Alladan, «è alla ricerca di vie d’uscita che lo esentino dal rispondere all’uccisione di Haniyeh sul proprio territorio, ma che gli consentano allo stesso tempo di salvare la faccia militarmente e politicamente».

 

L’Iran ha di fronte a sé due opzioni, scrive su al-‘Arabi al-Jadid il giornalista siriano Ghazi Dahman: «accettare un equilibrio di deterrenza a favore di Israele con conseguenti ripercussioni sul tavolo dei negoziati e la perdita di prestigio regionale, oppure entrare in una guerra che è simile a un suicidio, visti i preparativi degli Stati Uniti e del mondo Atlantico. Questo peraltro è ciò che vuole Netanyahu, perché nonostante l’amministrazione Biden abbia detto di non volere un coinvolgimento in questa guerra, Biden si troverà costretto, su pressione dello Stato profondo di Washington e per calcoli elettorali, a impegnarsi in questo conflitto in favore di Israele».

 

Sul quotidiano filo-Hezbollah al-Akhbar, il giornalista libanese Michel Nawfal sostiene che l’Iran si trova oggi di fronte a un dilemma: «Lanciare un attacco punitivo che non sia così debole da perdere il suo valore deterrente, ma allo stesso tempo non così forte da provocare un’escalation che potrebbe sfociare in una guerra». L’editorialista segnala anche la presenza in Iran di due posizioni contrastanti: chi auspica una reazione armata per punire Israele (la Guida Suprema), e chi invece predilige i negoziati con l’America (tra cui Pezeshkian, Rouhani e Ghalibaf), ciò che riflette «l’esistenza di ambienti popolari convinti che molti problemi economici, finanziari e sicuritari possano trovare una soluzione attraverso il negoziato e la gestione dei conflitti con gli americani».  

 

Accanto agli scettici, c’è tuttavia un gruppo minoritario di giornalisti più militanti e filo-islamisti che auspicano una risposta celere da parte dell’Iran e delle sue milizie per vendicare la morte di Haniyeh e di Fouad Shukr, leader di Hezbollah ucciso a Beirut il giorno prima del capo di Hamas. Su al-Quds al-‘Arabi l’ex ministro delle Comunicazioni libanese Issam Noman ritiene «fattibile e doveroso per l’Iran e il Partito di Dio lanciare una rappresaglia contro il nemico sionista», considerato anche che «il Diluvio di al-Aqsa ha generato effetti positivi nelle organizzazioni della Resistenza araba»: ha «trasformato il conflitto israelo-palestinese in una questione globale», innescato «la transizione delle organizzazioni della resistenza palestinese e araba da uno stato di solidarietà politica verbale a un’effettiva alleanza sul campo», e fatto sì che «alcune organizzazioni della resistenza palestinese e araba siano passate dall’importazione alla produzione di armi». L’editorialista ritiene però che per la Resistenza sarebbe utile cambiare metodo, «passando dalla vendetta e dalle rappresaglie a una guerra di logoramento a lungo termine […] con l’obiettivo di portare il nemico all’esaurimento e costringere la sua popolazione stanca a emigrare dalle aree della Palestina occupata».

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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