Recensione di Ernst-Wolfgang Böckenförde, Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, Laterza 2007

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:50:06

Il volume raccoglie diversi saggi in un ampio mosaico del pensiero dell'autore, che attinge alla teoria politica, alla filosofia del diritto e alla storia della cultura giuridica e delle istituzioni politiche. L'esame dell'opera consente di portare uno sguardo complessivo che, partendo dal problema della storicità del diritto e passando per la considerazione della nascita dello Stato, intesa come processo di secolarizzazione che non può però prescindere dal considerare il rapporto con la religione, si arresta sulla soglia delle prospettive e delle sfide che lo studio della situazione politica europea lascia intravedere all'orizzonte del futuro.

La riflessione di Böckenförde prende le mosse dalla questione della concezione storica del diritto, la quale non cerca tanto di definire il rapporto tra la scienza del diritto e la sua storia, quanto l'origine e la motivazione del diritto stesso. In questo modo, l'autore approfondisce la concezione storica del diritto di Savigni, per il quale l'intera scienza del diritto si riduce in sostanza alla sua storia. Il contenuto delle formulazioni di diritto può essere conosciuto in base alla sua storia evolutiva, osservandone il progressivo sviluppo. Si tratta pertanto della considerazione del fondamento ontologico del diritto, non collocato in una natura umana universale e metastorica, bensì nel popolo e nella forma interiore che lo anima, che è legata alla storia e costituisce anche la ragion d'essere del diritto. Questo recupero e inserimento del diritto nella storia, tuttavia, sembra non esplicitare il problema della storicità del diritto, giacché - come l'autore sistematicamente segnala - la scuola storica del diritto è basata a sua volta su una concezione antistorica del diritto stesso. E questo perché «la storia non viene concepita come la vera e propria modalità dell'accadere, bensì è ridotta a spazio evolutivo di uno sviluppo naturale, che si compie organicamente, in base a un principio immanente». Di conseguenza, la storicità implica una determinata idea di storia, che richiede di collocarsi fuori di essa per riflettere su di essa e ricavarne il criterio per interpretare e dare forma al presente.

Nella stessa linea, definita da Böckenförde come «storicismo antistorico» si collocano altri autori, come Rudolf von Ihering e Rudolf Sohm, i quali non hanno colto il necessario riferimento del diritto alla rispettiva realtà sociale, finendo per separare il diritto dal suo coinvolgimento nell'intera realtà sociale. La tesi di Böckenförde è che «il diritto non è un costrutto culturale legittimato di per sé, che si sviluppa in base a impulsi immanenti, bensì sussiste sempre funzionalmente vincolato a una realtà sociale complessiva, e come sua parte». Il diritto, pertanto, non sussiste in sé come oggetto indipendente, non riceve la sua forma concreta dal compito - che è ad esso essenziale - di ordinare in un determinato modo i rapporti di vita fra le persone e la cooperazione sociale nell'ambito di una società. Per questa ragione, esso deve essere necessariamente riferito alla realtà della vita che deve ordinare, e non solo in via formale, cioè per la sua pretesa di validità e per la possibilità di venir applicato in maniera vincolante, bensì anche dal punto di vista del suo contenuto oggettivo.

A questo punto, Böckenförde introduce una riflessione di taglio prevalentemente politico, riferita alla funzione dello Stato, all'apporto della religione nella salvaguardia delle regole etiche della società, che lo porta a formulare una valutazione critica sul futuro dell'autonomia politica dell'Unione Europea. L'autore afferma che il diritto può sostenere e proteggere normativamente le regole di vita e gli atteggiamenti etici preesistenti, come pure può - fino a un certo punto - mantenere desta una coscienza etica nella società, ma non può creare con una disposizione normativa una coscienza etica mancante o salvaguardare regole etiche di vita in via di disgregazione. È necessario che le norme giuridiche trovino nei loro destinatari un fondamento che le sostenga, giacché non possono fare leva unicamente sulla loro coattività. Se, come alternativa, si cercasse una base di omogeneità nel complesso delle convinzioni valoriali esistenti, si rischierebbe di aprire il campo al soggettivismo e al positivismo di valutazioni che reclamano per sé validità oggettiva e distruggono la libertà, anziché fondarla.

Sarebbe un tentativo, da parte dello Stato, di rendersi meramente garante della soddisfazione delle attese dei cittadini, traendo da questo sforzo la sua legittimità. Si pone così la questione delle «forze unificatrici», come le chiama Böckenförde, quando afferma che lo Stato liberale, secolarizzato, «vive di presupposti che esso di per sé non può garantire». Esso può sussistere soltanto «se la libertà che concede ai suoi cittadini si regola a partire dall'interno, dalla sostanza morale del singolo, e dall'omogeneità della società». Per Böckenförde, in conclusione, lo Stato moderno ha bisogno di vivere di quegli impulsi e forze di unificazione interiori mediati dalla fede religiosa dei suoi cittadini, senza che per questo si configuri come «Stato confessionale». In questo modo, chi vive di fede non vedrà nello Stato e nelle sue disposizioni qualcosa di estraneo e ostile alla propria fede, ma piuttosto una opportunità concessa alla sua libertà, quella libertà che egli come compito proprio deve realizzare e conservare.

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