Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 04/10/2024 17:29:24

Gli eventi in Libano, con l’uccisione del Segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah e la successiva invasione israeliana del sud del Paese, hanno suscitato sui media arabi diverse riflessioni sul destino del Levante nei prossimi mesi. L’idea condivisa da molti giornalisti è che le vicende delle ultime due settimane, ancor più della guerra a Gaza, giunta a una situazione di stallo, innescheranno necessariamente una grande trasformazione geopolitica – «tracceranno mappe o imporranno una situazione nuova» – scrive su al-‘Arabi al-Jadid Shifan Ibrahim, alla stregua di ciò che era avvenuto dopo l’11 settembre. C’è un prima e c’è un dopo, spiega il giornalista curdo. «Nulla sarà più come prima» dopo l’uccisione di Nasrallah, l’invasione israeliana del Libano e la decisione iraniana di «volgersi primariamente verso gli interessi del suo popolo, abbandonando i suoi alleati, Hamas e Hezbollah, al loro destino ignoto davanti alla macchina da guerra israeliana». Ma il vero punto di svolta potrebbe manifestarsi nel momento in cui le forze iraniane dovessero decidere di ritirarsi dalla Siria, per essere sostituite dalle forze siriane e russe, con il rischio che in questo cambio possa scoppiare una nuova guerra nell’arena siriana e poi irachena. Il tempo dell’unità delle arene è finito, spiega Ibrahim riferendosi alla strategia dell’Asse della Resistenza, ormai «è chiaro che non c’è più unità tra gli alleati di ieri. L’equilibrio di potere si è spostato a favore di Tel Aviv grazie al sostegno americano e occidentale, oltre al fatto che dodici anni di guerra continua hanno sfiancato tutti e che il treno della normalizzazione araba non si fermerà, qualsiasi cosa accada». «Il Libano trabocca di morte», continua l’editoriale, «un livello di morte e distruzione che neppure la guerra civile era riuscita a causare».

 

Sullo stesso quotidiano lo scrittore ed ex ministro della Cultura palestinese Atef Abu Saif lamenta il calo della copertura mediatica del conflitto a Gaza, oscurato dagli eventi libanesi: «Il tempo che i notiziari dedicano a Gaza si è ridotto, queste notizie finiranno per entrare a far parte delle normali notizie internazionali, come la carestia in Africa o il terremoto in uno dei Paesi dell’Asia». Il rischio è che la guerra nella Striscia venga «normalizzata» e derubricata a una delle tante tragedie che affliggono il mondo, senza che questa abbia più il suo peso specifico.

 

«Lo Stato occupante è nel pantano dell’invasione», titola invece al-Quds al-‘Arabi, la cui preoccupazione è che l’«invasione» israeliana nel sud del Paese possa protrarsi per lungo tempo: «Sebbene i politici dello Stato occupante abbiano sottolineato che l’invasione è limitata nello spazio e nel tempo, le esperienze passate hanno dimostrato che anche l’incursione israeliana nel Libano meridionale nel 1982 è iniziata come “limitata”, ma poi è durata diciotto anni».

 

Per la stampa emiratina l’escalation nel Levante diventa l’occasione per ricordare, celebrandole, le abilità diplomatiche degli Emirati, che «godono di relazioni internazionali forti e possono utilizzare la propria influenza nei forum internazionali per indirizzare gli sforzi verso soluzioni pacifiche e lavorare per limitare il ruolo iraniano che minaccia la stabilità della regione», come scrive Saif al-Derei su al-‘Ayn al-Ikhbariyya. L’uccisione di figure come Hassan Nasrallah e Ismail Haniyeh viene definita «un terremoto politico e sicuritario, che avrà ripercussioni non soltanto in Libano e in Palestina, ma nell’intera regione». Nel caso specifico del Libano al-Derei prevede che la morte di Nasrallah «contribuirà ad approfondire la divisione interna e sollevare interrogativi sulla stabilità del Paese».

 

Nel clima di pessimismo generale spiccano però anche alcune voci che guardano con una certa fiducia al futuro, convinte che non tutto il male venga per nuocere. Sul quotidiano filo-emiratino al-‘Arab, lo scrittore yemenita Hani Salim Mashur, residente negli Emirati, si concentra infatti sul rovescio della medaglia: per il Libano la morte di Nasrallah potrebbe rappresentare un nuovo inizio, offrendo ai libanesi l’occasione di ripensare il ruolo di Hezbollah e ridimensionare la sua influenza nel Paese. L’editorialista invita i libanesi a compiere «un processo di revisione storico-critica, […] ritrovando quello spirito di unità nazionale che ha dato i natali al “Grande Libano” e sbarazzandosi delle quote confessionali, che hanno finito per distruggere il tessuto sociale e politico» del Paese. Il Grande Libano spiega l’editoriale, «è una Nazione inclusiva della diversità religiosa, dottrinale e confessionale. Cristiani e musulmani, sunniti e drusi [gli sciiti non vengono nominati, NdR], hanno gettato il seme dell’identità nazionale da cui è nato il Libano, come Paese con un’identità e una geografia specifiche. La miscela libanese è la vera radice di questo Paese». Pur non dicendolo chiaramente, Mashur ritiene responsabili della distruzione del Libano Israele e i palestinesi che negli anni hanno cercato rifugio nel Paese dei Cedri – «dopo la guerra del 1948 tra gli arabi e Israele, i segnali del conflitto cominciarono a invadere il Libano […] e la presenza degli sfollati palestinesi creò forti polarizzazioni all’interno», generando crisi ricorrenti in più di un Paese arabo. Il Settembre nero in Giordania, la guerra civile e poi l’invasione israeliana nel 1978 in Libano, prosegue l’editoriale. A sua volta, l’accordo di Taif, che ha messo fine alla guerra civile, viene definito «la pallottola mortale del concetto di Stato nazionale libanese, la quale ha finito per trasformare il Libano da Stato democratico in uno Stato di quote confessionali».

 

Un barlume di speranza si percepisce anche nelle parole di Khairallah Khairallah, che su Asas Media commenta le dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi dal Primo ministro Najib Miqati. Il giornalista ha apprezzato la decisione del leader di non menzionare Gaza nel discorso pronunciato a seguito dell’invasione israeliana e di non collegare il conflitto israelo-palestinese al Libano. Il popolo, scrive Khairallah, «ha bisogno di una voce libanese che dica che ci sono ancora i resti di uno Stato libanese che parla a nome del Libano, il quale è entrato nella fase post-egemonia di Hezbollah». Nel suo discorso Miqati ha inoltre ribadito l’impegno del Libano ad applicare la Risoluzione ONU 1701 del 2006, e la necessità di eleggere al più presto un Presidente della Repubblica «che non crei problemi». L’uccisione di Nasrallah «potrebbe facilitare la naturale ristrutturazione del potere lontano dal dominio di Hezbollah, soprattutto se il presidente Nabih Berri spingerà in questa direzione e prenderà le distanze dal partito», conclude il giornalista.

 

La stessa timida fiducia si percepisce anche nell’editoriale di Rosana Bou Monsef, pubblicato su al-Nahar, tra i principali quotidiani libanesi che proprio oggi ha annunciato di aver aperto una sede anche a Dubai. La giornalista sostiene che l’elezione di un presidente «potrebbe risparmiare al Libano ulteriori aggressioni israeliane, con i Paesi interessati che intervengono a proteggere il processo di ripristino e rilancio delle istituzioni in Libano». La tragedia che sta vivendo in queste settimane il Paese potrebbe paradossalmente far nascere attorno alla figura di un presidente «un inedito senso di solidarietà».

 

I settembre che hanno cambiato il Medio Oriente [a cura di Davide Ferrazzi]

 

«Israele è una bestia che ha sentito l’odore del sangue e non può andarsene finché non ne ha assaggiato il sapore». Queste le parole con cui Marwan Kablan ha commentato su al-Arabi al-Jadid lo stato attuale del conflitto tra lo Stato ebraico e i suoi nemici mediorientali. Per Kablan, il «sacrificio» di Hezbollah ha segnato il fallimento della strategia politica iraniana delle guerre per procura, meticolosamente costruita e drammaticamente naufragata fra quelli che vengono definiti i «due settembre». La «guerra al terrorismo» avviata dall’America nel settembre 2001 aveva rovesciato i due regimi ostili all’Iran – quello di Saddam Hussein in Iraq e i talebani in Afghanistan – lasciando ampio spazio alle mire espansionistiche di Teheran. Gli eventi del settembre 2024 hanno invece sortito l’effetto opposto, segnando la fine dell’influenza iraniana in Medio Oriente. Le pesanti sconfitte subite dall’Asse della Resistenza hanno portato il regime guidato da Khamenei sull’orlo di un conflitto internazionale diretto, che potrebbe avere gravi conseguenze per il Paese. Scrive Kablan: l’Iran non può più nascondersi dietro la dottrina della «difesa avanzata» come ha fatto negli ultimi vent’anni, agendo «tramite alleati al di fuori dei propri confini».

 

Al-Quds al-‘Arabi si domanda se quella in atto sia l’inizio di «una guerra» vera e propria o un modo per ripristinare «la deterrenza strategica»: «La strategia [israeliana] – si legge sul quotidiano panarabo – mira a sfruttare l’attacco compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023 per realizzare l’agenda della corrente sionista più estremista contro i palestinesi. Ma dopo che si è aperto l’orizzonte del conflitto con l’Iran e le entità ad esso collegate nella regione araba, la strategia punta a trascinare gli Stati Uniti e gli alleati occidentali di Israele in una guerra contro l’Iran». Solo il tempo ci dirà, conclude l’editoriale, se «Netanyahu e il suo governo genocida saranno riusciti a imporre al mondo una guerra contro l’Iran che potrebbe infiammare tutta la regione».

 

Se Tel Aviv deciderà di rispondere all’attacco iraniano del 2 ottobre, commenta Mishary Althaiti su al-Sharq al-Awsat, il tema non sarà tanto «l’impatto militare immediato sulle forze iraniane, che sarà senz’altro maggiore rispetto all’impatto dei missili iraniani su Israele, bensì l’impatto politico, sicuritario e mediatico, non immediato e indiretto, sullo status del regime iraniano dentro e fuori il Paese». Questione dunque di immagine più che militare. Il giornalista saudita conclude domandandosi se il regime degli Ayatollah corra il rischio di fare la stessa fine di quello di Saddam Hussein, esploso perché «si è espanso oltre i limiti della sua forza naturale, come un pallone gonfiato più del necessario». Alla domanda non segue però una risposta.

 

Su Asas Media Muhammad Qawas definisce la vendetta iraniana per la triplice uccisione di Ismail Haniyeh, Hassan Nasrallah e del generale dei Guardiani della rivoluzione Abbas Nilforushan «un’eccezione all’ombra del programma nucleare». Teheran è stato costretto a intervenire per sedare il malcontento interno dei conservatori e le critiche delle milizie che compongono l’Asse, ma ne avrebbe fatto volentieri a meno nell’ottica della «ritirata tattica», a cui lo stesso Khamenei aveva già preparato il terreno durante un suo recente discorso, quando ebbe a dire che non c’è nulla di male in una ritirata tattica se questa è finalizzata allo sviluppo di una strategia. L’Iran punta a tornare a sedersi al tavolo dei negoziati con gli Stati Uniti sull’accordo nucleare, questa volta però da una posizione di forza. Il ritiro di Trump dagli accordi sul nucleare nel 2018 è stato «una genialata», commenta sarcastico Qawas, i cui drammatici effetti si vedono oggi. In questi anni l’Iran ha arricchito l’uranio quasi al 84% (per produrre armi nucleari bisogna arrivare al 90%), mentre l’accordo del 2015 fissava un tetto massimo di arricchimento del 3,67%. Dal punto di vista negoziale, perciò, Teheran è più forte oggi rispetto al 2018, ragion per cui, spiega il giornalista, il regime degli Ayatollah «ha voluto rispondere a Israele, ma si è affrettato ad annunciare la fine dell’offensiva per rientrare nei binari del suo nuovo approccio».

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