Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 31/10/2024 16:52:27

Quella che sta volgendo al termine è stata una settimana molto sanguinosa per il Sudan. Negli ultimi giorni gli scontri tra le Forze di Supporto Rapido (FSR) cappeggiate da Hemedti e l’Esercito guidato dal generale Burhan si sono concentrati nel villaggio di Sariha, nello Stato di Gezira, a sud di Khartoum. Le FSR hanno commesso un massacro, provocando la morte di oltre 500 civili in due giorni. Come spiega l’ex ministro dell’informazione sudanese Faysal Mohamed Saleh su al-Sharq al-Awsat, la carneficina è stata la conseguenza della defezione di un comandante delle FSR, Abu ‘Aqla Kikel, passato nelle file dell’Esercito sudanese. La defezione ha suscitato un grande clamore mediatico a seguito del quale le FSR hanno lanciato una campagna di vendetta e intimidazione contro gli abitanti della regione, prendendo di mira in particolare i membri della tribù Shukriya a cui appartiene Kikel. Al-Hurra, quotidiano panarabo con sede negli Stati Uniti, ha parlato di «una settimana terrificante» e ha definito il villaggio di Sariha «una grande tenda da lutto».

 

La gravità delle azioni commesse nei confronti della popolazione civile ha suscitato la reazione del Grande Imam della moschea-università di al-Azhar, Ahmad al-Tayyib, che in comunicato ha denunciato l’efferatezza dell’attacco e ricordato che «terrorizzare, uccidere e vendicarsi su civili pacifici per regolare conti politici è un crimine terroristico atroce contro l’umanità, ed è considerato dalla nostra religione una delle offese più gravi e dei crimini più grandi». Inoltre, il Grande Imam ha invitato la comunità internazionale «a unirsi per sostenere il popolo sudanese e perseguire gli autori di questi brutali massacri».

 

Come ha ricordato però il giornalista sudanese Osman Mirghani sempre su al-Sharq al-Awsat, Sariha non è l’unica vittima di queste brutalità, perché sono almeno trenta i villaggi in cui si sono registrati decine di uccisioni di civili innocenti, molti casi stupri e rapimenti, oltre a raccolti e case dati alle fiamme.

 

Dallo scoppio della guerra civile, il Sudan sta vivendo una grave crisi umanitaria che ha visto l'intervento di diverse ONG straniere nel Paese. Su al-Jazeera l’ex diplomatico sudanese Atta Al-Mannan Bakhit accusa queste organizzazioni di interferire negli affari interni del Paese e sfruttare le crisi umanitarie per imporre l’agenda dei Paesi occidentali per i quali esse operano, «infiltrando segretamente il Sudan». Secondo Bakhit, gli esempi più eclatanti nella storia recente del Paese di interferenza nella politica interna sono stati l’Operazione Lifeline, lanciata nel 1989 a seguito della grave carestia provocata dalla guerra civile, e la coalizione Save Darfur, nata nel 2003 nel contesto della guerra del Darfur. L’editorialista teme che la crisi umanitaria generata dalla guerra civile in atto possa favorire quelle stesse dinamiche di interferenza straniera nel Paese e conclude citando un proverbio: «non c’è cosa più spiacevole nella vita di un uomo libero che vedersi costretto a stringere un’amicizia con il proprio nemico» in riferimento al governo sudanese che si vede costretto ad accettare questo tipo di aiuti.

 

La stampa vicina alle posizioni degli Emirati, che dall’inizio della guerra sostengono Hemedti, non si è concentrata sul massacro di Sariha, ma ha criticato come sempre il ruolo nefasto che giocano gli islamisti nella guerra civile. In un’editoriale apparso su al-Arab, Abd el-Mohimmat, giornalista sudanese residente negli Emirati, accusa il movimento islamista di ricorrere a «strumenti di guerra e campagne diffamatorie per indebolire le forze politiche civili e  presentarsi come l’unica alternativa in grado di proteggere il Paese». Due sarebbero le tecniche adottate dagli islamisti per imporre la loro agenda, spiega el-Mohimmat: il ricorso a «una campagna mediatica volta a dipingere le forze politiche civili come la causa scatenante del conflitto», e il «ritiro tattico da alcune aree strategiche, ciò che provoca un crollo della sicurezza abbandonandole in uno stato di caos», funzionale a dimostrare che l’Esercito sudanese è incapace di proteggere i cittadini.

 

Macron vola a Rabat, Tebboune guarda a Oriente [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Dopo mesi di gelo diplomatico tra Parigi e Rabat, questa settimana il presidente francese Emmanuel Macron ha effettuato una visita di tre giorni in Marocco, dove ha firmato con il re Mohammed VI una «dichiarazione di partenariato d’eccezione potenziato». L’inquilino dell’Eliseo ha poi tenuto un discorso davanti al parlamento marocchino in cui ha ribadito il riconoscimento francese della sovranità del Marocco sul Sahara Occidentale. A concentrarsi sulla visita sono stati soprattutto i media riconducibili agli Emirati, un Paese che in questo momento ha relazioni tese con l’Algeria, storico rivale di Rabat. Per questi media l’evento è stato un successo che segna l’ingresso del Regno nordafricano tra gli Stati capaci di giocare un ruolo geopolitico a livello internazionale.

 

Il discorso di Macron in parlamento è considerato un segnale del cambio di passo nei rapporti bilaterali tra Parigi e Rabat, «passati dalla cooperazione tradizionale e le relazioni economiche e commerciali di routine a una fase in cui si fondono partenariato politico ed economico, una solida intesa tra i leader e la vicinanza tra i popoli», ha scritto al-‘Arab. Anche Sky News Arabia, che ha sede ad Abu Dhabi, parla di un nuovo, importante capitolo nei rapporti tra Francia e Marocco. E sempre su al-‘Arab, il giornalista marocchino Al-Buraq Shadi Abdessalam loda lo «sguardo visionario» di re Muhammad VI, che ha saputo «costruire una dottrina diplomatica forte, onesta e responsabile, basata sul rispetto reciproco, sul rispetto delle specificità e delle sfide dell’altro, sulla difesa degli interessi supremi del Paese e la difesa della sicurezza nazionale». Frutto di questa abilità è anche l’ottenimento del riconoscimento francese della sovranità del Marocco sul Sahara Occidentale, che «non va considerato solo in un’ottica politica, perchè conferisce allo Stato una posizione strategica, permanente e globale; il Regno del Marocco si presenta al mondo come una potenza regionale, con interessi nazionali supremi che non possono essere toccati». In un altro editoriale pubblicato ancora su al-‘Arab, Shadi Abdessalam celebra il riavvicinamento delle due sponde del Mediterraneo, e cita il discorso che, a parti inverse, re Hassan II pronunciò nel 1996 davanti al parlamento francese e all’allora presidente Jacques Chirac, simbolo di un’epoca in cui la Francia e il Marocco erano legati da una profonda amicizia: «Su entrambe le sponde del Mediterraneo, la Francia e il Marocco aspirano a far prevalere nel mondo la pace, la giustizia e il progresso, e lavorano incessantemente per consolidare questi valori nel nostro mondo, che soffre del flagello delle guerre e delle crisi economiche». Questa, commenta il giornalista, è la base su cui per decenni si sono fondate le relazioni franco-marocchine, fino a diventare «un modello regionale di successo per la forza dei legami tra il Nord e il Sud. L’asse Rabat-Parigi è rimasto una valvola di sicurezza per la stabilità e la pace in un momento in cui le idee di Houari Boumédiène stavano seminando la corruzione nella regione, sostenendo movimenti separatisti e pianificando colpi di Stato».

 

Più asciutti, e in parte polemici nei confronti della Francia, i quotidiani proprietà del Qatar. Al-‘Arabi al-Jadid ha sottolineato soprattutto la rilevanza economica della visita di Macron, ma ha anche messo in evidenza la rabbia suscitata in diversi gruppi politici marocchini dalle dichiarazioni del presidente francese circa il «terrorismo» e la «barbarie» della resistenza palestinese. 

 

Su al-Quds al-‘Arabi, il giornalista tunisino Nizar Bolhia si è soffermato sulla prevedibile irritazione algerina di fronte alla visita di Macron. Qualche mese fa, scrive Bolhia, il presidente Abdel Majid Tebboune aveva «opposto il suo rifiuto ad andare a Canossa», come lui stesso aveva dichiarato alla tv nazionale in merito alla visita «umiliante» che avrebbe dovuto condurlo in Francia. «Ma non si è assistito a un’altra Canossa quando Macron è arrivato a Rabat, dopo lunghi mesi di gelo tra la capitale francese e quella marocchina?», si domanda il giornalista. L’incontro franco-marocchino e soprattutto gli accordi di difesa siglati tra le due parti non lasciano certamente dormire sonni tranquilli agli algerini, prosegue l’editoriale. E forse non è un caso che nelle ore precedenti l’arrivo di Macron a Rabat, Tebboune si sia diretto in visita ufficiale prima in Egitto, poi in Oman. «L’Algeria ha voltato le spalle alla Francia e mentre celebra il settantesimo anniversario dello scoppio della rivoluzione contro il colonialismo francese, non vede l’ora di rivolgere nuovamente lo sguardo verso l’Oriente arabo», conclude l’editoriale.

 

Hezbollah ripiega su Naim Qasim [a cura di Chiara Pellegrino]

 

A un mese dalla morte di Hassan Nasrallah, Hezbollah ha un nuovo segretario generale. Si tratta di Naim Qasim, che per più di trent’anni è stato vice dello storico leader del Partito di Dio e nelle ultime settimane era già apparso in tre discorsi televisivi. Come molto spesso succede, la stampa araba si è divisa su questa nomina. I media filo-Hezbollah, per esempio al-Akhbar e al-Mayadeen, l’hanno accolta con un certo calore, mentre i quotidiani filo-emiratini e filo-sauditi, notoriamente ostili all’Asse della resistenza, la ritengono un segnale di debolezza. Qasim viene infatti ritenuto inadatto a svolgere questa mansione.

 

La nomina «dell’uomo dalla barba bianca, che indossa il turbante bianco dei religiosi sciiti», come lo definisce al-‘Arab, «conferma il vuoto di leadership» nel movimento. «Qasim non è la figura carismatica capace di preservare l’ambiente sociale del Partito così come era, né l’attore capace di coinvolgere i politici che restano». Qasim non può essere un’alternativa a Nasrallah, «non ha le qualifiche per assumere la guida del movimento. Del resto, prosegue l’editoriale, non era adatto nel 1992, quando si trattò di nominare il successore di Abbas al-Musawi, non può esserlo oggi». I limiti dello sheikh, prosegue l’editoriale, sono noti anche all’interno del movimento, ciò che spiega perché la nomina di Qasim sia temporanea – «sarà segretario generale soltanto fino alla fine della guerra». Lo sheikh è stato nominato perché Hezbollah non aveva altre valide alternative – «è la figura più importante rimasta in vita nel Partito, ma non il più degno di succedere a Nasrallah».

 

Lo sheikh «non ha il carisma né di Nasrallah né di Hashim Safieddine», rimasto alla guida del movimento per pochi giorni dopo Nasrallah prima di essere ucciso anche lui dagli israeliani, commenta al-Sharq al-Awsat.

 

“Qasim Segretario generale: fase transitoria dei Guardiani [della rivoluzione]?”, titola anche Asas Media, in un editoriale che evidenzia la distanza siderale  tra Hasan Nasrallah e Naim Qasim, due personaggi che «non hanno quasi nulla in comune». Nasrallah «aveva una personalità aperta, sorridente e semplice, mentre lo sheikh è l’esatto opposto, tanto che i suoi fratelli lo hanno “accusato” di rappresentare la borghesia del partito nel suo aspetto, nel suo abbigliamento e in ogni dettaglio della sua vita». Negli anni il pensiero di Nasrallah ha conosciuto un’evoluzione, l’ex segretario generale aveva per esempio «introdotto il Libano nella sua letteratura, nel suo vocabolario e nel suo pensiero», mentre Qasim è rimasto fedele al primo Manifesto di Hezbollah del 1985 e all’idea espressa nel suo libro “Hezbollah: il metodo, l’esperienza, il futuro” per cui «noi siamo figli della nazione di Hezbollah, ci consideriamo parte della comunità islamica nel mondo, la cui avanguardia Dio ha fatto trionfare in Iran, ristabilendo il nucleo dello Stato centrale dell’Islam nel mondo». Qasim è una figura molto vicina a Teheran, conclude l’editoriale, e durante la sua dirigenza sarà sorvegliato da vicino – «il ministro degli Esteri iraniano ha rivelato di aver lasciato un suo rappresentante risiedere stabilmente a Beirut, e altrettanto hanno fatto le “Guardie della rivoluzione”».

 

All’annuncio del nuovo segretario generale, il ministro della Difesa israeliano Gallant ha risposto con un Tweet minatorio: «è una nomina temporanea che non durerà a lungo», lasciando intendere la volontà israeliana di uccidere anche il successore di Nasrallah.

 

Dopo la nomina, l’emittente televisiva qatariota al-‘Arabi ha mandato in onda il quarto discorso registrato di Qasim, in cui questi si è detto pronto a negoziare la fine della guerra con Israele ma «alle condizioni che riteniamo opportune e favorevoli; non mendicheremo un cessate il fuoco». Qasim ha ribadito il ruolo centrale che svolge il presidente del parlamento Nabih Berri nei negoziati con Tel Aviv e preso le distanze dall’Iran – «noi in Libano non combattiamo per conto dell’Iran o per realizzare il suo progetto, ma per proteggere la nostra terra e liberarla» e ha ribadito la continuità con «il piano di guerra elaborato da Nasrallah».

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