Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 03/05/2024 16:26:02

 Le proteste studentesche in corso nelle università statunitensi e le manifestazioni propalestinesi in Europa dividono la stampa araba: alcuni giornali le approvano, seppur con toni diversi che vanno dalla celebrazione dei moti alla preoccupazione per l’escalation di violenza e alla riflessione su quanto (non) sta accadendo negli atenei dei Paesi arabi. Altri, invece, non le commentano, oppure le criticano apertamente. I giornali e i media di proprietà qatariota hanno dedicato ampia copertura ai sit-in dei campus americani. Emblematica la vignetta di al-‘Arabi al-Jadid: il “tocco” – il famoso copricapo quadrato nero usato dagli studenti durante le cerimonie di laurea nel mondo anglosassone – si trasforma in una bomba e la nappa diventa una miccia accesa, pronta a far esplodere il cappello tra le mani dello “Zio Sam”, personificazione degli Stati Uniti d’America. Eloquente anche l’articolo che segue il disegno, a firma del giornalista egiziano Wael Qandil: quella messa in atto dagli studenti è una vera e propria «rivoluzione non solo contro la storia falsificata, ma anche contro un complesso di valori e concetti degenerati». Gli studenti sono definiti dall’autore come dei «rivoluzionari» che «stanno facendo crollare le menzogne e i miti coloniali tramandati», contestando apertamente la «barbarie arrogante e piena di hybris» degli israeliani, ancora sostenuta da Washington e dai suoi alleati. Sulla stessa testata lo scrittore e poeta marocchino Abdelhamid Jmahri si sofferma sulla “repressione” delle proteste da parte della polizia: «insieme all’uccisione dei bambini e degli indigenti di Gaza, si sta uccidendo anche quello spirito che la civiltà occidentale glorifica da sempre di fronte ai suoi studenti […]: sviluppare lo spirito critico, la curiosità, il lavoro di gruppo e un personale senso di ribellione. Pertanto, «colpire il campus universitario, che modella il ragionamento e il pensiero, nelle sue manifestazioni più libere e coraggiose, è un altro mezzo» per colpire la democrazia.  

 

Anche Al Jazeera spende parole di ammirazione per i moti studenteschi: «Gaza si è trasformata nel perno politico del mondo. Per Israele questa è stata la guerra più seguita sia dal punto di vista militare che politico». Pertanto le manifestazioni – si scrive in un altro articolo – potrebbero davvero costituire un «punto di svolta», un mutamento di opinione che «a poco a poco sta togliendo a Israele gran parte della simpatia di cui godeva da decenni e che sta svelando il vero volto dello Stato ebraico che i media e le istituzioni educative occidentali avevano a lungo coperto sotto una spessa coltre di propaganda». Su al-Quds al-‘Arabi Marwan al-Mu‘ashar, ex ministro degli esteri e vicepremier giordano, sostiene che le recenti proteste hanno la stessa portata delle manifestazioni studentesche americane degli anni Sessanta che contestavano la guerra in Vietnam. Inoltre, il voto degli arabo-americani potrebbe risultare decisivo per l’elezione del futuro presidente degli Stati Uniti: «che cosa significa ciò? Nella loro storia, gli Stati Uniti non si sono mai molto interessati ai diritti umani e alla democrazia all’infuori del loro territorio, specialmente quando la questione aveva a che fare con Israele». Anche se – prosegue l’articolo – le proteste probabilmente non influenzeranno la posizione del presidente, esse potrebbero comunque modificare gli umori della società americana, «costringendo in futuro qualsiasi candidato alla presidenza dare retta alla voce degli arabo-americani».

 

Al-Mayadin, testata vicina all’Asse della Resistenza, rivendica i meriti del “Diluvio di al-Aqsa”: «ciò che sta accadendo in Occidente è stato ottenuto attraverso il sangue, il sacrificio e l’eroismo emersi con irruenza il 7 ottobre». L’articolo poi chiude ponendo una domanda retorica: in tutto questo trambusto, qual è invece la posizione delle università arabe? Il tema viene discusso in dettaglio dalla testata filo-islamista Arabi21. Il pezzo inizia ribadendo che la contestazione negli atenei costituisce «uno dei maggiori risultati» ottenuti dalla causa palestinese. Sensibilizzando l’opinione pubblica sulla tragedia di Gaza, infatti, le università stanno «scardinando la narrazione sionista» in Occidente, un compito che risulta invece impossibile per le comunità arabe e islamiche. Arabi21 nota, con una punta di sarcasmo, come le manifestazioni pro-Palestina siano ormai molto più diffuse in Europa, Nordamerica e Australia che nei Paesi arabi: «il cittadino si interroga sul ruolo delle sue università e delle istituzioni accademiche nell’unirsi a questi successi dopo che esse hanno perso il loro ruolo e la loro funzione originaria, ossia rivoluzionare le menti degli studenti rifiutando l’autocrazia e il dispotismo che operano ai danni dei fratelli arabi, uniti dall’etnia, dalla storia e dalla religione». L’accademia araba «delude sempre le speranze e le ambizioni della sua popolazione in ambito politico, securitario, economico, educativo, di sviluppo, di cittadinanza eccetera». Mettere a confronto il panorama accademico occidentale con quello arabo, ammette la testata, non sarebbe per nulla corretto: nel secondo «lo sforzo dell’istruzione si concentra dall’inizio alla fine sulla santificazione del ruolo del capo». La conclusione è sferzante: gli atenei arabi avrebbero tutte le ragioni e le capacità per protestare, se non fosse per l’assenza della libertà di espressione in molti regimi; in tal senso, “l’accademia araba” «assomiglia a un distaccamento del dipartimento della sicurezza il cui compito consiste nell’imbellettare il governo autoritario e attutire i suoi fallimenti».

 

Sebbene con toni molto meno accesi, commenta l’ebollizione dei campus americani anche il quotidiano panarabo di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat, che in un articolo precisa come le proteste svoltesi alla Columbia University non siano «contro gli ebrei», ma contro «il governo israeliano». In un altro pezzo, però, sembra emergere più distintamente la critica a un Occidente in preda al caos socio-politico, una situazione che stride con il pacato pragmatismo dello Stato saudita, impegnato assiduamente nel trovare una soluzione politica alla crisi: «noi entriamo sempre in un profondo stato di meditazione quando mettiamo a confronto ciò che accade nelle università di diverse città europee e statunitensi in preda alla rabbia e quello che accade a Riyad, capitale dell’Arabia Saudita intenta a riportare la regione nel perimetro della stabilità e della sicurezza […]. Vediamo quanto siano profonde le differenze tra i decisori sauditi e i confusi decisori americani-atlantisti».

 

In area (filo)emiratina, occorre sottolineare che il quotidiano al-‘Arab ha a lungo taciuto la notizia, spostando l’attenzione sull’infondatezza delle accuse mosse allo Stato ebraico dai palestinesi come dimostra la prima pagina del 26 aprile: «i palestinesi rischiano di perdere l’occasione di incriminare Israele». Secondo al-‘Arab, le accuse rivolte a Israele di aver assassinato prigionieri e civili arabi sarebbero infatti prive di solide prove fattuali: «occorre dividere la documentazione dei crimini dal loro utilizzo politico che ne fa Hamas o altri soggetti» che se ne servono per «insultare Israele». Il 2 maggio il giornale ha finalmente commentato la contestazione dei campus universitari, soffermandosi sul carattere violento delle proteste e sui problemi che questo comporta per la sicurezza interna. In un editoriale anonimo del 5 maggio, il quotidiano riprende il tema trattato anche da Arabi 21: «le ragioni della relativa calma nelle università e nelle strade arabe variano probabilmente dalla paura di irritare i governi alle divergenze politiche con Hamas e l’Iran suo alleato» a cui si aggiungono i «dubbi sulla capacità delle proteste di influenzare le politiche di qualsiasi Stato arabo […]. Forse gli studenti americani sono più incentivati a protestare dal momento che il loro governo sostiene e arma Israele, mentre i Paesi arabi temono che queste proteste vengano utilizzate soprattutto per minare la stabilità interna e che ci siano attori politici che cerchino di sfruttarle a proprio vantaggio». Asettico, invece, l’editoriale di al-‘Ayn al-Ikhbariyya, che si limita a definire le proteste come un prosieguo delle manifestazioni sessantottine. 

 

Siria contesa tra Israele e Iran [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Ridiventata terreno di scontro tra Teheran e Gerusalemme, questa settimana la Siria ha conquistato le prime pagine dei quotidiani arabi. Al-Quds al-‘Arabi, giornale panarabo focalizzato sulla questione palestinese, si domanda perché il Paese sia attualmente assente dal conflitto israelo-palestinese. Gli israeliani, spiega l’editoriale, hanno messo in guardia il regime di Damasco da un coinvolgimento diretto nella guerra, pena la fine di Bashar al-Assad. A ciò si aggiunge che il presidente siriano «odia Hamas e non vuole sostenere i movimenti islamisti, perché una loro vittoria nel conflitto in atto potrebbe rafforzare la posizione dei loro omologhi in Siria». Assad spera inoltre di ottenere dei vantaggi sia dall’Occidente che dagli arabi mantenendo una posizione neutrale, come peraltro gli è stato chiesto dagli Emirati e dalla Russia. Ciò spiegherebbe anche perché Damasco non ha reagito quando Israele ha colpito obbiettivi iraniani in Siria. Al momento, però, la neutralità non ha aiutato Assad in alcun modo, prosegue l’editoriale: le sanzioni previste dal Caesar Act sono state ulteriormente inasprite e resta forte la diffidenza tra il regime e Hamas, nonostante le due parti abbiano cercato una sorta di riconciliazione nell’autunno del 2022. 

 

Lo scrittore e attivista politico siriano Fayez Sara riflette su al-Sharq al-Awsat sulla posizione di relativo isolamento in cui si trova Damasco a seguito dei disaccordi emersi negli ultimi mesi con i due alleati, l’Iran e la Russia. Le divergenze sono innanzitutto l’esito della presenza congiunta di Teheran e Mosca in Siria, ma anche di alcuni eventi regionali e internazionali, tra cui la guerra della Russia contro l’Ucraina, il recente scontro israelo-iraniano e le pressioni arabe e internazionali esercitate sul regime di Damasco perché lavori per una soluzione politica al conflitto siriano e ripensi le sue relazioni con l’Iran. A causa di queste tensioni, spiega Sara, lo scorso anno l’Iran e la Russia hanno ridotto il flusso di aiuti al regime di Damasco, chiedendogli peraltro di sanare i propri debiti. Gli iraniani hanno cercato ugualmente di «espandere la loro presenza e il loro ruolo, con e senza il benestare del regime, e mettere le basi di una permanenza lunga e radicata in Siria attraverso alcune mosse, tra cui la diffusione dello sciismo, la creazione di milizie siriane legate ai Guardiani della Rivoluzione e la messa in sicurezza delle strade iraniane che collegano l’Iraq alla costa siriana e al Libano passando per Damasco». Ciò, spiega l’editorialista, ha causato un deterioramento nelle relazioni tra Damasco e Teheran e la conseguente adozione da parte del regime siriano di alcune misure per contenere la circolazione delle milizie iraniane sul suo territorio e limitare le attività iraniane a Damasco, incluse le celebrazioni per il “Giorno di Gerusalemme”, la giornata internazionale celebrata l’ultimo venerdì di Ramadan per esprimere il sostegno alla Palestina.

 

Su al-‘Arabi al-Jadid lo scrittore e politico siriano Abdel Basset Sida parla dell’esistenza di «un accordo diretto o indiretto tra Israele e l’Iran che prevede di mantenere al potere Bashar al-Assad». Dal punto di vista israeliano, mantenere gli Assad al potere è «una garanzia»: Bashar e prima di lui il padre hanno mantenuto la promessa fatta dopo la guerra dell’ottobre 1973 di non lasciarsi coinvolgere nel conflitto israelo-palestinese, spiega l’editoriale. Quanto agli iraniani, la consapevolezza che «l’autorità di Assad figlio sia più debole dell’autorità di Assad padre ha permesso loro di espandersi e penetrare nella società e nello Stato siriano». Il silenzio israeliano e americano di fronte al sodalizio tra Damasco e Teheran ha favorito l’espansionismo iraniano. Ma la guerra in Ucraina, con la Russia che si è adoperata per cooptare la Cina, la Turchia e l’Iran, ha cambiato le carte in tavola creando uno scollamento tra gli interessi iraniani e israeliani in Siria. Il progetto israeliano, scrive Sida, «si fonda essenzialmente sull’indebolimento degli Stati limitrofi, sul raggiungimento con questi ultimi di intese e accordi, dichiarati o non dichiarati, che prevedono l’esclusione dell’opzione della guerra e l’accettazione di una serie di condizioni per proteggere la sicurezza di Israele». Il progetto iraniano invece «è un progetto imperiale. L’Iran utilizza la carta della tirannia confessionale per penetrare nelle società arabe, accedere ai corridoi marittimi più importanti che controllano il commercio globale e ottenere una posizione sulle rive del Mediterraneo».

 

Il quotidiano panarabo londinese al-‘Arab denuncia l’ingerenza iraniana nella regione nord-orientale della Siria, per molti anni governata dalle Forze democratiche siriane e dall’amministrazione curda: «L’Iran sfrutta i crescenti conflitti tra la componente araba e quella curda nella Siria orientale con un duplice obbiettivo: affrontare i curdi e stabilire il controllo sulla regione a est dell’Eufrate, vitale per i suoi interessi, in modo da creare un corridoio che consenta ai suoi combattenti di spostarsi tra Deir el-Zor e Aleppo». Nel tempo, spiega l’articolo, la strategia iraniana in Siria è cambiata: inizialmente Teheran si limitava a esportare in Siria le sue milizie, che a loro volta fungevano da richiamo per i combattenti sciiti della regione. Ma questo sistema aveva dei limiti dal momento che le sue milizie, anche a distanza di anni, continuavano a essere considerate un elemento estraneo al popolo siriano. L’Iran ha perciò cambiato tattica, puntando a radicarsi nel tessuto sociale locale. Il risultato più evidente del nuovo modus operandi è la creazione della Brigata al-Baqir, una milizia nata nella regione di Aleppo e composta principalmente da elementi della tribù sunnita al-Baggara, che dal 2013 hanno iniziato a convertirsi allo sciismo. Ciò, prosegue l’editoriale, mette in luce «la capacità dell’Iran di cancellare i confini confessionali per rafforzare la propria agenda». Parallelamente all’azione culturale, l’Iran continua a favorire il reinsediamento di combattenti stranieri sciiti e delle loro famiglie in Siria garantendo loro una serie di benefici (l’assistenza sanitaria e alloggi gratuiti, il sostegno finanziario) che possono attrarre altri potenziali combattenti stranieri.

 

I rifugiati siriani spaventano i libanesi [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Anche la stampa libanese si è focalizzata molto sulla Siria, ma da una prospettiva completamente diversa. Per i libanesi il grande tema sono i rifugiati siriani che da oltre dieci anni vivono nel loro Paese. Alcuni giorni fa il ministro per i Rifugiati Issam Sharaf el-Din ha sollevato la questione sicuritaria dichiarando che «in Libano la sicurezza è fuori controllo; nei campi profughi ci sono 20.000 uomini armati che invocano l’ora x». Queste affermazioni sono state commentate dalla giornalista libanese Nahla Nasser al-Din su Asasmedia, che ha ridimensionato il problema spiegando che le dichiarazioni del ministro non sono state corroborate da prove e sono state parzialmente confutate dal governatore di Baalbek, sede di uno dei più grandi campi profughi del Paese. Il ministro agita lo spettro dei rifugiati, scrive l’editorialista, ma questa «è la storia della brocca d’olio, più se ne parla più si scivola verso nuove paure e problemi più grandi di quelli che il Libano, stremato economicamente e politicamente, può sopportare, mentre lo Stato si limita a guardare da più di 12 anni».

 

L’economista libanese Sabine Owais commenta su Al-Nahar la recente visita a Beirut della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen per affrontare la questione dell’immigrazione illegale in Europa dei rifugiati siriani. Secondo Owais è ormai chiaro che «la diga che il Libano ha formato per bloccare questa migrazione rischia di crollare a causa dell’incapacità del Paese di ospitare numeri sempre crescenti, sia perché la migrazione, nella fattispecie quella economica, continua, sia per l’alto e preoccupante tasso di natalità, sei volte maggiore rispetto a quello libanese». Sono tre i punti ribaditi dalle autorità libanesi alla presidente, continua l’editoriale: «la palla di fuoco formata dai rifugiati» avrà delle conseguenze non solo in Libano, ma anche in Europa con il rischio di creare una crisi internazionale; Beirut si rifiuta di trasformare il Libano «in una patria alternativa per i siriani» e per questo chiede all’Europa di sostenere e favorire il ritorno volontario dei rifugiati nel loro Paese d’origine.  

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