Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 14/03/2025 15:36:02
La stampa araba continua a seguire con molta attenzione gli eventi in Siria. Il bagno di sangue di cui sono stati vittime gli alawiti in alcune città costiere del Paese nei giorni scorsi ha suscitato diverse riflessioni su che cosa significhi appartenere a questa minoranza.
Negli stessi giorni in cui si consumava il massacro, la scrittrice siriana Samar Yazbek, oppositrice del regime di Bashar al-Assad ed esule in Francia da alcuni anni, scriveva su al-‘Arabi al-Jadid (quotidiano panarabo di proprietà qatariota) che essere alawita «resta un segno distintivo carico di significati politici». Considerati «un’estensione dell’[ex] regime», gli alawiti «sono stati costretti a presentare delle scuse collettive per crimini che la maggior parte di loro non aveva scelto, ma che erano stati commessi in loro nome». Ciò avviene quando il potere «trasforma gli attori sociali in simboli, caricandoli di significati ingigantiti che superano la realtà oggettiva». Sebbene molti alawiti abbiamo partecipato alla rivoluzione del 2011 contro il regime di Bashar al-Assad, prosegue la scrittrice, «non è venuta meno il pregiudizio classificatorio» nei loro confronti; anzi, è stato chiesto loro di scusarsi, come se l’identità alawita fosse intrinsecamente legata a un peccato originale dal quale non si può sfuggire. La violenza che questa comunità ha sperimentato nel corso della storia, sotto forma di emarginazione economica e di persecuzione religiosa, non è stata un fenomeno isolato, ma si è trasformata in una costante attraverso la quale gli alawiti percepiscono il proprio posto nella società, continua la giornalista. In questo, Assad padre ha giocato un ruolo cruciale «ridefinendo il loro rapporto con la paura: invece di considerarla un’ossessione del passato, Hafez al-Assad ne ha fatto uno strumento per il futuro: sei qui grazie al regime; se questo cade, la storia tornerà a vendicarsi». «Presi in ostaggio dal regime», gli alawiti sono stati sottoposti a un «profondo progetto di addomesticamento all’interno della macchina del potere», che ricorreva a diversi meccanismi, tra cui l’impiego negli apparati di sicurezza e militari, la costruzione di una complicità forzata con la retorica del potere e l’uso della paura come strumento di controllo. Tutto ciò ha avuto un impatto anche sulla produzione del discorso religioso, prosegue l’articolo. Agli alawiti è stato impedito di sviluppare un discorso religioso indipendente: tra gli shaykh, ogni voce dissidente è stata eliminata, mentre chi ha scelto la connivenza con il regime è diventato una semplice estensione dell’apparato statale, privato di qualsiasi autorità spirituale. Questo è il risultato di un processo sistematico di smantellamento di tutte le strutture che avrebbero potuto generare forme di lealtà alternative al regime, spiega Yazbek. L’alawita siriano, conclude, «è stato ridotto a un semplice soldato al servizio dello Stato, privato della possibilità di ripensare la propria identità al di fuori dell’orbita del potere di Assad».
Su al-Quds al-‘Arabi, l’intellettuale siriano Yassin al-Haj Saleh segnala un’iniziativa promossa a Homs da un ex prigioniero politico, Bassam Juma‘a. «Alawita di nascita e siriano per scelta», così si definisce Juma‘a, ha lanciato la campagna di raccolta firme “Mi scuso!”. Il testo dell’iniziativa recita: «Ci scusiamo con ogni madre, moglie, padre e bambino perché non siamo stati capaci di proteggerli e di impedire i crimini commessi contro di loro – uccisioni, distruzioni, sfollamenti e detenzioni. Ci scusiamo per il nostro silenzio e la nostra paura, e perché non siamo riusciti a impedire che alcuni membri della nostra confessione sostenessero il regime criminale». L’iniziativa di Bassam, commenta il giornalista, rappresenta un tentativo degli alawiti di «contribuire alla pace civile a Homs», una città che, «dalla caduta del regime, ha registrato i livelli più alti di tensione confessionale». La campagna, tuttavia, è stata contestata da chi ritiene che il concetto di «appartenenza per nascita» su cui essa si basa contraddica la logica della cittadinanza, fondata sul concetto di «appartenenza per scelta». Inoltre, essa ha suscitato forti critiche anche tra molti alawiti, secondo i quali chiedere scusa per crimini che non si sono commessi non ha senso, perché nascere alawiti non è una colpa. L’iniziativa rappresenta un’assunzione di responsabilità, osserva al-Haj Saleh, che acquista significato se si distinguono tre livelli di responsabilità per i crimini: penale, politica ed etica. Quest’ultima grava sul gruppo di appartenenza degli autori dei crimini e su coloro che, pur avendo il dovere di «dire la verità al potere», hanno scelto di tacere. Lo stesso principio, prosegue l’articolo, si applica anche ai gruppi armati affiliati alla nuova amministrazione siriana, che hanno commesso crimini contro gli alawiti. Su di loro ricade la responsabilità penale, su al-Sharaa la responsabilità politica, mentre quella etica pesa sulle spalle di tutta la comunità sunnita.
Lo stesso quotidiano ha pubblicato una vignetta raffigurante la Siria come una colomba ferita, stretta nella morsa di un serpente su cui campeggia la scritta «fitna», caos, e che si appresta a darle un morso letale.
I massacri compiuti sulla costa da «organizzazioni takfiriste» contro gli alawiti sono per al-Sharaa una possibilità di dimostrare che lui non è più al-Julani e che «Hay’at Tahrir al-Sham e le fazioni sue alleate hanno instaurato un regime completamente diverso da quello degli Assad, lontano dalla logica della vendetta», scrive il giornalista libanese Khairallah Khairallah su Asasmedia. La Siria di oggi, aggiunge, sta raccogliendo ciò che gli Assad hanno seminato, ma per superare questa pesante eredità «è necessario evitare di ricorrere agli stessi metodi che il regime ha impiegato per 54 anni». Se davvero si vuole costruire un nuovo sistema in cui tutti i cittadini siriani siano uguali, indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa, confessionale o nazionale, «non si può rispondere all’uccisione con l’uccisione», conclude Khairallah.
Diversi anche i commenti relativi all’accordo firmato lunedì scorso dal presidente siriano e Mazloum Abdi, comandante delle Forze democratiche siriane (FDS). Sui media prevale un cauto ottimismo per quello che viene considerato un primo passo verso l’unità nazionale.
Per al-Quds al-‘Arabi l’accordo è «una buona notizia», ma è ancora presto per cantar vittoria perché «il diavolo si nasconde nei dettagli». I tempi di attuazione sono stretti, i retroscena complessi e le difficoltà non mancano, a partire dallo sfollamento di interi villaggi nel nord-est della Siria. Sebbene le Forze democratiche siriane siano riuscite a rispondere alle rivendicazioni dei curdi, la loro alleanza con gli Stati Uniti si è spesso trasformata in una dipendenza da una forza di occupazione straniera, ciò che ha favorito le violazioni dei diritti umani, pratiche egemoniche e clientelari, e una diffusa corruzione difficili da superare.
Su al-Jazeera l’analista politico iracheno Dhaham Al-Azzawi definisce l’accordo «un passo storico, carico di speranza e di un futuro luminoso», che getta le basi per una riconciliazione nazionale in un momento molto critico della vita del popolo siriano. L’accordo rafforzerà la posizione negoziale del nuovo regime, rendendolo più attraente per altri gruppi locali che lo percepiscono ancora come una minaccia alla loro esistenza e identità, in particolare nelle regioni costiere alawite e nelle zone druse. A livello internazionale, prosegue l’articolo, l’intesa segna l’intenzione di Donald Trump di disimpegnarsi dal sostegno finanziario alle FDS, che dal 2015 è costato 500 milioni di dollari l’anno, e la volontà di riabilitare la Siria, facendola diventare un attore chiave nei nuovi accordi mediorientali. Il passo successivo potrebbe essere la revoca delle sanzioni americane ed europee e la reintegrazione del Paese nel sistema internazionale. Il processo però è irto di difficoltà, conclude l’articolo.
Senza grande sorpresa, anche la stampa saudita, molto benevola nei confronti nella nuova amministrazione siriana, ha accolto positivamente l’accordo. «Con grande saggezza, al-Sharaa ha riconquistato un terzo del Paese sul piano geografico, in un momento cruciale. Nonostante molte voci lo esortassero ad affrontare i curdi, ha preferito la via della saggezza e dei negoziati», scrive il giornalista saudita Tariq al-Hamid su al-Sharq al-Awsat. L’articolo elogia la capacità del presidente ad interim di «disinnescare la crisi [causata dai massacri contro gli alawiti] e adottare misure concrete, superando le aspettative dei suoi sostenitori». Al-Hamid critica lo «scetticismo» che prevale a livello internazionale, nonostante «i passi positivi che la nuova Siria ha compiuto in soli tre mesi», e respinge come infondate «le voci che parlano di “massacro” e “confessionalismo”, e le immagini che circolano sui social media».
Sulla stessa linea i commenti pubblicati su al-Majalla, dove Ahmed Maher, direttore della sezione politica della rivista, sottolinea come al-Sharaa abbia saputo «adattare con intelligenza le sue strategie e politiche per affrontare la crisi emergente, evitando di classificare i siriani nei suoi discorsi in base alla loro appartenenza etnica o religiosa – sunniti, alawiti, curdi, cristiani o drusi». L’articolo sottolinea inoltre il suo tentativo di smantellare il mito promosso da Assad, che definiva «il conflitto confessionale inevitabile e qualunque tentativo di convivenza pacifica o di riconciliazione vano se lui fosse stato destituito».
Mu‘awiya, la serie tv che divide il mondo arabo
Ogni anno, durante il Ramadan, nel mondo musulmano gli ascolti televisivi registrano un’impennata, rendendo questo periodo il momento ideale per il lancio di nuove serie TV. Una delle produzioni di punta di questo Ramadan è Mu‘awiya, una serie che ripercorre la vita di Mu‘awiya ibn Abi Sufyan, prima oppositore di Maometto e poi suo compagno, protagonista dello scontro con il cugino e genero del profeta Ali che segnò la storica frattura tra sunniti e sciiti, e primo califfo omayyade. Girata in Tunisia con un cast panarabo e diretta da un regista egiziano, la serie è una produzione saudita risalente al 2023, ma la sua uscita è stata rinviata per evitare di alimentare le tensioni esistenti all’epoca tra l’Arabia Saudita e i Paesi vicini a maggioranza sciita. In queste settimane, tuttavia, sia Baghdad che Teheran ne hanno vietato la messa in onda, suscitando un grande dibattito sui media. Anche la moschea-università di al-Azhar ha preso posizione contro la serie. Un membro del Consiglio degli anziani ha spiegato ad al-Masry al-Youm che rappresentare i Compagni del Profeta «è vietato dalla religione» e che «le dispute storiche sul governo e sul califfato sono una questione divina che non dovrebbe essere trasformata in un’opera drammatica soggetta a interpretazioni divergenti».
Su al-Jazeera il giornalista Osama Saffar critica le numerose imprecisioni storiche della serie, affermando che essa «non descrive veramente la vita del Compagno Mu‘awiya, ma presenta l’immagine che i produttori intendevano dare della sua vita». Saffar sostiene che i produttori hanno deliberatamente reinterpretato la storia, riscrivendo gli eventi e costruendo i personaggi in modo incoerente rispetto ai resoconti storici. Tra le principali accuse mosse alla serie, vi è il lo scarsorisalto dato alle battaglie di Badr e Uhud. Altri errori riguardano il momento della conversione di Mu‘awiya all’Islam, che storicamente si colloca dopo la conquista della Mecca da parte di Maometto, ma nella serie è anticipata, la tipologia delle spade, la forma delle abitazioni e l’abbigliamento, in particolare quello delle donne, che è stato definito «inappropriato» e troppo distante da quello dell’epoca.
Secondo il giornalista iracheno Samir Adel, il divieto imposto da Baghdad «rivela la fragilità intellettuale e politica della milizia al potere». I partiti islamisti sciiti al potere in Iraq «sembrano vivere fuori dal tempo o, nella migliore delle ipotesi, prima della scoperta del fuoco», se pensano che un’ordinanza possa impedire alle persone di guardare una serie. «Questi autoproclamati custodi delle narrazioni storiche, delle libertà e del diritto di espressione non vivono nell’ignoranza totale», osserva Adel. Conoscono lo sviluppo tecnologico e sanno come «utilizzare gli eserciti elettronici per abbattere i loro avversari politicamente e moralmente». Sanno che esistono tanti modi per vedere una serie, anche se è questa è bloccata in televisione. Ma quello che è davvero importante per loro è «prendere una posizione morale e politica nei confronti della storia, una storia in cui hanno investito più di quanto abbiano fatto per istruzione, sanità, servizi e sicurezza sociale. Non hanno altro che la loro versione della storia, e anche la loro identità politica e intellettuale confessionale, che deriva da questa narrazione, è diventata fatiscente. Ormai non è più in grado di far passare il loro progetto politico in una società che ha acquisito maggiore consapevolezza e non tollera più le loro assurdità confessionali», prosegue tagliente il giornalista. Perpetuare un certo tipo di narrazione storica, per i «padrini dell’Islam politico sciita» è funzionale a mantenere il loro potere. Essi non possono accettare che la loro narrazione venga messa in discussione o addirittura venga promossa una figura storica come Mu‘awiya, «sulla cui demonizzazione hanno costruito la loro ideologia settaria». «Investire nella storia ed evocarne gli spiriti è una caratteristica di chi ha perso la propria identità ed è espressione palese del collasso intellettuale e politico». Se la storia, secondo la loro narrazione, li ha tragicamente privati del potere, il presente odierno non è meno tragico, conclude l’articolo: «la presa di Damasco da parte di Hay’at Tahrir al-Sham, un’ala dell’Islam politico sunnita, riporta alla mente lo spettro dello Stato omayyade, fondato da Mu‘awiya e la cui capitale era Damasco».
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