Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 31/05/2024 15:52:13

Questa settimana sui media arabi sono continuate le riflessioni e le previsioni sul futuro dell’Iran dopo la morte del presidente Ebrahim Raisi. L’ipotesi condivisa è che la prossima presidenza sarà in continuità con quella precedente. Ma ciò che accomuna gli editorialisti arabi è anche un certo disprezzo per il Paese degli Ayatollah, descritto attraverso immagini eloquenti tratte dalla tradizione occidentale.

 

Su al-‘Arab il giornalista siriano Ali Qasim dipinge un quadro impietoso del regime e si domanda perché mai l’Iran dovrebbe cambiare ora, visto che non è cambiato dopo la morte di Khomeini. Se c’è un Paese cui calza a pennello il famoso detto francese «il re è morto, viva il re!» è proprio l’Iran, scrive l’editorialista, intendendo che chiunque assumerà la presidenza nei prossimi mesi sarà in perfetta linea di continuità con Raisi: «Stessa barba, stesso turbante e sicuramente lo stesso modo di pensare». L’Iran di oggi continuerà a seguire il cammino aperto da Khomeini, che nei suoi dieci anni di presenza «ha riportato il Paese indietro di cento anni». Dopo la morte di quest’ultimo «l’Iran ha preso l’abitudine di bere svariati tipi di veleni e la Repubblica islamica si è confermata un Paese che lavora per l’Aldilà» anziché per il bene della vita terrena. Le sue guerre sono religiose, spiega Qasim, se i governanti fossero dediti maggiormente «alla vita terrena» svilupperebbero buone relazioni con il vicinato, investirebbero nella crescita economica anziché nella produzione del nucleare a scopi militari, reciderebbero i loro legami con Hezbollah e Hamas e la smetterebbero di pensare che il mondo cospira contro di loro, prosegue l’editoriale. Perché il primo «ad aver cospirato contro sé stesso, dal primo giorno in cui Khomeini è ritornato in patria,» è proprio l’Iran.

 

Per definire la fase di vita che sta attraversando il Paese, l’intellettuale libanese Hazem Saghieh riprende l’immagine che Schopenhauer aveva usato parlando dell’Europa: «Quando il bambino cresce e viene mandato a scuola ha bisogno di un buon maestro, non della brava infermiera che lo ha fatto nascere». Il grande problema iraniano «è che il “bambino” ha raggiunto i 45 anni, ma l’infermiera continua a prendersi cura di lui», scrive Saghieh, come a denunciare un Paese che non ha mai raggiunto la piena maturità. L’annuncio della morte di Raisi ha portato alla luce «diverse altre morti»: ha rivelato un Paese «vecchio e fatiscente, proprio come doveva essere l’Unione Sovietica negli ultimi anni di Leonid Brežhnev, prima che l’esplosione di Chernobyl mostrasse il livello della sua arretratezza scientifica e tecnica». E ha messo in luce la difficoltà di reperire informazioni «in quel Paese segreto»: è «come cercare la luce sotto il cuscino». A queste morti, si aggiungono quelle delle vittime del regime e il deterioramento della situazione economica. Questo, tuttavia, non implica anche la morte dell’Iran che, al contrario, è ben vivo, commenta l’editorialista, visto che sta sviluppando il nucleare ed esercita la sua influenza in quattro capitali arabe. Quello iraniano, conclude Saghieh, «è un modello che riesce brillantemente a fare della vita il nascondiglio della morte». 

 

Pessimista anche lo scrittore iracheno Abdul Latif Al-Sadoun, che su al-‘Arabi al-Jadid descrive la situazione iraniana citando un passo dagli Annali di Tacito: «il giorno migliore dopo la morte di un cattivo imperatore è il primo giorno, perché il nuovo imperatore sarà peggiore del suo predecessore». Secondo la sua previsione, nei prossimi mesi in Iran ci sarà una recrudescenza delle proteste antiregime e l’emergere di nuovi movimenti di opposizione. A questo proposito, Al-Sadoun cita la dichiarazione fatta qualche giorno fa dall’ex presidente riformista Mohammad Khatami, in carica dal 1997 al 2005, che «ha invitato i riformisti a giocare un ruolo nel determinare il futuro del Paese». 

 

Proprio Khatami è al centro di un editoriale firmato dall’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid e pubblicato sul sito d’informazione Asasmedia. L’editorialista abbozza un ritratto dell’ex presidente iraniano, che ha avuto occasione d’incontrare personalmente in più di un’occasione. Secondo al-Sayyid, Khatami ha mancato gli obbiettivi del suo mandato presidenziale, che erano sostanzialmente quattro: continuare la strategia di ricostruzione iniziata dal suo predecessore Rafsanjani, aprirsi agli arabi e al mondo, lavorare sulla trasparenza, sullo stato di diritto e sulla «democrazia islamica», e proteggere gli intellettuali, gli artisti e i professori universitari dalla magistratura. Nonostante le buone intenzioni, il presidente non è riuscito a portare a termine questo programma; nell’ultimo anno del suo primo mandato «sembrava assediato», mentre il secondo mandato si è concluso nell’insoddisfazione generale sia dei conservatori che dei riformisti. Questo perché Khatami «ha la personalità di un intellettuale, non di un politico professionista forte come Rafsanjani», commenta l’editorialista. E forse proprio quest’anima da intellettuale è alla base di un piccolo battibecco che ha coinvolto i due personaggi negli anni ’90, in occasione di una visita a Teheran da parte di una delegazione libanese, guidata dall’allora Primo ministro Rafik Hariri, e di cui faceva parte anche Ridwan al-Sayyid. Come racconta quest’ultimo, in quell’occasione donò a Khatami due suoi libri su invito di Hariri. Quest’ultimo si rivolse a Ridwan al-Sayyid definendolo “mawlana”, “mio signore”, cosa che dispiacque parecchio a Khatami, il quale puntualizzò che l’unico degno di essere apostrofato con quel titolo è Jalal al-Din al-Rumi, il grande mistico e poeta persiano «le cui quartine molti di noi [iraniani] memorizzano». Vent’anni anni dopo Khatami e tre presidenti – Ahmadinejad, Rouhani e Raisi – che ne sarà dell’Iran, si domanda l’editorialista? Restano aperti molti interrogativi «sulla natura del regime, sul significato della repubblica e sulla sua formulazione della politica interna ed estera».      

 

Dal punto di vista simbolico, la morte del presidente e del ministro degli Esteri segna la fine di un’epoca, scrive su al-Quds al-‘Arabi il militante e giornalista bahreinita Saeed Shehabi: Raisi e Amir-Abdollahian furono infatti tra i giovani che presero parte alla rivoluzione islamica nel 1979. Tra le certezze dell’editorialista, c’è l’idea che «la continuità della leadership saprà garantire stabilità nel percorso politico e ideologico della Repubblica islamica», che la morte di alcuni leader storici «non fermerà la ruota della rivoluzione», la politica estera dell’Iran soprattutto rispetto alla questione palestinese continuerà a rendere il Paese degli Ayatollah un obbiettivo israeliano, e infine l’incapacità degli oppositori del regime di sfruttare questo «evento catastrofico per indebolire la presa del regime sul potere».

 

Per restare in tema di politica estera iraniana, il giornalista libanese Khairallah Khairallah ha colto l’occasione del 34esimo anniversario della riunificazione dello Yemen (conseguita il 22 maggio 1990), per riflettere sul destino del Paese, che dal 2011 gravita nell’orbita di Teheran. C’è un modo per trovare un accordo con gli houthi e di conseguenza con l’Iran, che da anni li sfrutta per lanciare le sue guerre nella regione? Secondo l’editorialista, «non può esserci accordo senza prima infliggere agli houthi una sonora sconfitta militare», che mandi un messaggio agli iraniani. La grande sfida che devono affrontare gli analisti e i decisori politici esperti dello Yemen, non è tanto «coinvolgere gli houthi in una soluzione politica, quanto farli uscire dall’egemonia iraniana».

 

Israele in fuga dalla realtà [a cura di Mauro Primavera]

 

La stampa araba esprime soddisfazione di fronte alla decisione di Irlanda, Spagna e Norvegia di riconoscere la Palestina come Stato membro delle Nazioni Unite, anche se non mancano voci scettiche e addirittura critiche. I giornali di proprietà qatariota plaudono all’iniziativa: per al-Quds al-‘Arabi si tratta di un «passo nella giusta direzione», mentre per al-‘Arabi al-Jadid è una decisione «di portata storica» che potrebbe produrre un «effetto a valanga» all’interno dell’Unione Europea.

 

Sul quotidiano panarabo filo-emiratino al-‘Arab, il giornalista libanese Khayrallah Khayrallah fa un vero e proprio “affondo” nei confronti di Israele, che vive ormai in un totale stato di estraniazione: «non è [più] possibile fuggire dalla realtà, sia da quella del dopo Gaza, sia da quella della ricerca di una soluzione politica. Fuggendo dalla realtà, Israele si rifiuta di accettare il fatto che questa guerra lo ha isolato a livello internazionale», come conferma il procedimento legale della Corte Penale Internazionale a carico del premier Benjamin Netanyahu. «C’è un mondo nuovo che è sorto dalla guerra […]. Dal grembo di Gaza sono nati il riconoscimento internazionale e il fatto che la questione dello Stato palestinese è ancora un’opzione sul tavolo», come dimostrano le recenti decisioni in merito di Norvegia, Spagna e Irlanda. «Proprio come Hamas, vediamo che Israele è stato a lungo incapace di comprendere la direzione verso la quale lo stava portando il conflitto, soprattutto per quanto riguarda la natura delle sue relazioni con gli Stati Uniti», diventate sempre più tese e difficili. La testata emiratina al-‘Ayn al-Ikhbariyya commenta, con toni molto più moderati, che la decisione dei Paesi europei costituisce un «passaggio importante e una parte del lento processo di pace in Medio Oriente», oltreché un evidente atto «di pressione su Israele», in quanto altri Stati europei potrebbero seguire l’esempio e riconoscere la Palestina. 

 

Il quotidiano di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat sottolinea invece il merito dei Paesi arabi, e in particolare di Riyad, nel portare la questione palestinese all’attenzione della comunità internazionale. Senza la cooperazione panaraba, infatti, ogni tentativo di mediazione è destinato al fallimento: «qualsiasi vittoria diplomatica che vada a favore della Palestina è il risultato di un lungo e impegnativo percorso di lavoro inter-arabo durato anni, e non è dovuto alla vittoria ottenuta “ieri” da Hamas […]. Washington era convinta che la soluzione a due Stati “dovesse” passare attraverso i negoziati tra Israele e Palestina, ma la realtà ha dimostrato che questi negoziati e colloqui assomigliano a un dialogo bizantino che dibatte su cosa sia nato prima tra l’uovo e la gallina, diventando privi di senso […]. Le vittorie politiche palestinesi derivano dalla sua base araba. Infatti, il consenso arabo sulla soluzione a due Stati e l’impegno dei Paesi arabi è presente fin dall’iniziativa lanciata dal re Abdullah Al Saud al vertice di Beirut [del 2002]».

 

La testata filo-islamista Arabi 21 registra invece con (moderata) soddisfazione i successi ottenuti da Hamas dal lancio del “Diluvio di al-Aqsa”. Oltre a rappresentare una minaccia alla sicurezza dello Stato ebraico, il movimento palestinese avrebbe ottenuto significativi risultati in ambito politico e diplomatico. Questi successi non sono inferiori alle «capacità sul campo» di battaglia, a patto che si presti attenzione ad alcune avvertenze. Occorre infatti tenere in conto i «raggiri negoziali», ossia le insidie che si celano dietro il percorso diplomatico e che potrebbero assegnare la vittoria a Tel Aviv, sconfitta «sul campo di battaglia dalla Resistenza». Di conseguenza, persino il riconoscimento dello Stato palestinese sta diventando una «materia di consumo politico che distoglie l’attenzione dei palestinesi dall’essenza della loro causa». L’apertura fatta da alcuni Paesi europei «non ha alcuna conseguenza politica e internazionale, soprattutto se si considera che lo Stato in questione è quello di Abu Mazen», la cui autonomia non è paragonabile nemmeno «a quella di un’amministrazione locale». Ancora più critico il giornale libanese al-Akhbar, vicino a Hezbollah e all’Asse della Resistenza: «la gioia per il riconoscimento da parte dei tre Paesi europei potrebbe essere giustificata di fronte al genocidio compiuto dall’entità occupante sionista. Tuttavia, chi segue la nostra situazione deve sempre fare un distinguo tra le parole dei governi europei e nordamericani e i loro fatti». Malgrado il sostegno e la solidarietà con la causa palestinese, infatti, questi governi «ad oggi non hanno adottato misure per punire l’entità occupante per i suoi crimini o per isolarla a livello internazionale». «Il nemico – si legge a conclusione dell’articolo – non vuole la soluzione a due Stati, e lo dimostra chiaramente con le parole e con i fatti, sia che si tratti del proseguimento della colonizzazione, che di torture quotidiane, che di massacri genocidari».  

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