Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 10:57:51
Anche nell’ultima settimana è stata la crisi sudanese a occupare le prime pagine e gli editoriali della stampa araba. Cominciamo con Al-‘Arabi al-Jadid, che dalla vignetta dei dinosauri è passata a quella dei coccodrilli, anche se la sostanza non cambia: si tratta dell’ennesima raffigurazione del “duello” tra i generali Burhan e Dagalo, uno scontro violento e distruttivo in cui nessuno dei due riesce a prevalere sull’altro. Eppure la tentazione di azzardare una previsione c’è: «chi riderà per ultimo tra i due?» il titolo di un articolo del 24 aprile a firma del giornalista giordano Ma‘an al-Bayari, direttore della sezione “editoriali” della testata. Nell’incipit egli ammette come «non sia deontologicamente professionale per i commentatori pubblicare le loro aspettative» sui possibili scenari finali della guerra dopo appena pochi giorni dallo scoppio. A prescindere dall’esito, al-Bayari mette tuttavia in chiaro la sua posizione: «l’autore di queste righe vede come una necessità lo schierarsi contro la milizia di Dagalo, e vede la fine della sua presenza come un bisogno impellente per salvare uno Stato devastato». Al Jazeera si concentra sul “non ruolo” dell’Egitto, smontando pezzo dopo pezzo la strategia del presidente al-Sisi in Sudan: «la verità è che il coinvolgimento dell’Egitto nell’attuale scontro non è una sorpresa […] rivedendo la politica egiziana in Sudan negli ultimi quattro anni, emerge una visione miope e il fallimento nel leggere i cambiamenti e gli sviluppi della politica sudanese». Il risultato è una «strategia confusa e immatura che da una parte ha contribuito a innescare l’attuale crisi, dall’altra ha indebolito l’influenza politica del Cairo». L’articolo prosegue con un elenco puntato che mette in fila tutti gli errori di al-Sisi, tra cui l’appoggio offerto ad al-Burhan nel 2019 durante il governo di transizione, il sostegno dato all’esercito nell’attuare il colpo di Stato del 2021, il tentativo di rompere l’“accordo quadro” del dicembre 2022. «Di fronte all’incubo che sta vivendo il Sudan in questi giorni, ci è venuto un sogno», scrive Gilbert Achcar per al-Quds al-‘Arabi che, come gli altri giornali legati al Qatar, critica le forze che si oppongono alle rivolte popolari: «le leadership militari di Egitto, Algeria e Sudan hanno prevenuto il pericolo che le loro basi simpatizzassero con le rivoluzioni popolari contro governanti che avevano perso la loro legittimità e provveduto loro stessi a far cadere quei governanti (Hosni Mubarak, Bouteflika, Omar al-Bashir)», indebolendo di riflesso i movimenti di protesta. Achcar spera ancora in una risposta da parte della popolazione: qualora si verificasse, sarebbe la realizzazione del «sogno sudanese», che riprenderebbe il «lungo processo rivoluzionario» iniziato in Tunisia dodici anni fa. Per Huda al-Hosseini, giornalista libanese di al-Sharq al-Awsat, la guerra dei due generali ha reso il Sudan «l’Ucraina del Corno d’Africa», prodotto degli interessi delle potenze straniere (dall’Egitto alle milizie russe della Wagner) e della sua importanza geostrategica nel Mar Rosso. Sullo stesso giornale, Uthman Mirghani, direttore della testata sudanese “al-Tayyār”, si sbilancia a favore di Burhan: «lo scenario migliore, a mio avviso, è la sconfitta delle Forze di Supporto Rapido; sarebbe l’inizio della fine del fenomeno degli eserciti paramilitari». Sempre su al-Sharq al-Awsat, il giornalista egiziano ‘Abd al-Mun‘im Sa‘id osserva come il problema del Sudan non risieda tanto nella contrapposizione tra militari e civili, quanto nel processo di costruzione statuale e nazionale, i cui limiti erano evidenti già nel 2011, prima delle Primavere Arabe, quando il Sudan del Sud divenne, a seguito di un referendum popolare, Stato sovrano e indipendente.
Come gli arabi vedono il proprio futuro [Chiara Pellegrino]
Le evoluzioni geopolitiche che nelle ultime settimane hanno interessato il mondo islamico sollevano la domanda sull’idea che i Paesi mediorientali hanno del proprio futuro. Ne ha parlato su al-‘Arabi al-Jadid il giornalista iracheno Iyad al-Dulaimi, secondo il quale «l’immagine più chiara che ci viene dal futuro è l’ignoto». I recenti sviluppi nelle relazioni tra Stati hanno ribaltato totalmente le costanti su cui da anni si fondavano le politiche dei Paesi dell’area: il riavvicinamento tra Arabia Saudita e Iran – una tregua temporanea tra due Paesi la cui competizione per l’egemonia regionale è ancora intensa, ha scritto al-Dulaimi –, l’apertura al regime di Bashar al-Assad, per dodici anni inviso a tutti, oggi riaccolto nel circolo arabo, la visita di una delegazione di Hamas in Arabia Saudita, giunta a Mecca durante il mese di Ramadan appena terminato per eseguire la ‘umrah (pellegrinaggio minore), e il sostegno delle monarchie del Golfo a Recep Tayyip Erdoğan, da loro considerata persona non grata fino a pochi mesi fa. Al-Dulaimi interpreta il protagonismo dell’Arabia Saudita come un tentativo di occupare lo spazio lasciato vuoto dagli altri Stati arabi che, ad eccezione del Qatar e degli Emirati, negli ultimi anni «si sono concentrati unicamente sui loro problemi interni». Nel contesto di disimpegno generale, anche la Lega araba ha finito per «trasformarsi in uno scheletro privo di contenuti». I cambiamenti geopolitici in atto, tuttavia, non significano una regione meno conflittuale. Questo perché il mondo arabo tende ancora ad affrontare gli eventi in modo estemporaneo, in cui ad azione corrisponde una reazione, e «non esiste una posizione araba fondata su una lettura, una visione e sulla previsione del futuro».
Su al-Sharq al-Awsat l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid riflette sul destino dello Stato nazionale come istituzione. La «cultura dello Stato» ha attraversato tre fasi storiche: l’epoca dell’indipendenza, caratterizzata dalla lotta anti-coloniale, l’epoca dei regimi militari e l’epoca post-primavere arabe. La causa palestinese e l’imperialismo americano durante la guerra Fredda hanno messo fine alla prima fase, ha spiegato al-Sayyid, mentre a segnare la fine dell’epoca dei regimi militari hanno contribuito una combinazione di fattori, tra cui lo scarso successo dei regimi nel migliorare le condizioni dei Paesi che governavano, l’avvento dell’egemonia americana e lo scoppio delle Primavere arabe. Oggi, il mondo arabo (ad eccezione dell’Egitto) è entrato nella terza epoca dello Stato nazionale e si scontra con due grandi problemi: «l’agonia di una transizione che in tempi brevi non sembra cristallizzarsi in una legittimità alternativa o rinnovata […]; la proliferazione delle autorità» che competono tra loro per conquistarsi la legittimità (senza alcun risultato). La Tunisia, ha spiegato al-Sayyid, è l’esempio lampante di una transizione promettente ma mai riuscita. Il secondo aspetto, cioè la proliferazione delle autorità, ha invece come effetto negativo «l’assenza di una cultura dello Stato unitaria e di un’unica autorità». Tale assenza si manifesta nella scissione interna dell’esercito, per esempio, o nella presenza di milizie che esercitano la loro autorità parallelamente o insieme ad altri centri di potere. È ciò che sta accadendo in sette Paesi arabi – Libano, Iraq, Siria, Yemen, Sudan, Libia e Somalia – in cui vi sono milizie armate che controllano dei territori o amministrano lo Stato insieme alle autorità centrali. «Il più grande ostacolo al destino e al ripristino dello Stato sono le milizie armate. […] Il problema oggi è che le milizie non sono più come le bande della droga in Centro e Sudamerica, ma sono diventate un fenomeno diffuso in Asia e in Africa, e hanno rapporti tra di loro e all’esterno, a livello regionale e internazionale. Sono un piccolo Stato».
Al-Jazeera ha pubblicato una riflessione del blogger marocchino Adil Gonanar sulla «secolarizzazione» delle società arabe, definendola un’espressione che generalmente suscita avversione nell’opinione pubblica araba per il significato che sottende, cioè «esclusione della religione dalla vita pubblica». Per gli arabi, «l’Islam è religione, Stato e vita, e incarna una narrazione religiosa attorno alla quale ruota il senso dell’universo e dell’essere umano». Finora, ha spiegato Gonanar, questa visione esistenziale sembrava naturale e compatibile con l’ambiente arabo, ma le cose stanno iniziando a cambiare: «Sebbene le nostre società continuino a mostrare, sia a livello del discorso ufficiale che popolare, una forte adesione alla propria specificità culturale, dicendosi riluttanti a rinunciare alla propria sicurezza spirituale e valoriale, la realtà indica una netta spaccatura tra i discorsi da un lato, e i comportamenti e le pratiche dall’altro».
I pronostici (e le aspettative) della stampa araba sulle elezioni turche [Mauro Primavera]
Mancano poco più di due settimane alle elezioni presidenziali e legislative turche, appuntamento che – come rileva Al Jazeera – è assai rilevante sotto diversi punti di vista: primo, cade nel centenario della repubblica; secondo, si svolge a pochi mesi dal terremoto; terzo, deciderà il futuro (geo)politico della Turchia in un momento delicato per il Paese, alle prese con una grave crisi economica. Come potrebbero incidere queste variabili? Per il sito dell’emittente qatariota esse vanno «in linea di principio a favore dell’opposizione anti-Erdoğan e anti-Giustizia e Sviluppo, anche se le misure governative da un lato e alcune decisioni dall’altro hanno attenuato di molto il loro effetto. Di conseguenza, non si prevede una “vittoria larga” con ampio margine per nessuna delle due parti», cosa che dà così maggior significato all’ultima fase della campagna elettorale. La previsione di Al Jazeera è quindi un arrivo al photofinish, almeno al primo turno, perché al ballottaggio «vincerà secondo noi Erdoğan». Il giornalista turco Turan Kışlakçı scrive per al-Quds al-‘Arabi che l’esito del voto dipenderà dagli elettori indecisi. A tal proposito l’autore aggiunge, senza timore di sembrare di parte, che si aspetta che «la maggioranza degli elettori che esprimeranno la loro scelta alle urne sosterranno Erdoğan». Dopotutto, prosegue nel suo ragionamento, Giustizia e Sviluppo resta ancora il «partito che gode di maggiore consenso popolare», mentre è indiscussa la levatura politica del presidente turco nello scenario regionale e internazionale. Molto più critico nei confronti dell’attuale leader è l’editoriale dell’emiratino al-‘Ayn al-Ikhbariyya a firma dell’analista turco Samir Salha. Non bastano gli annunci a effetto – come la produzione della Togg, l’automobile elettrica turca, il progetto del gasdotto nel Mar Nero e la partnership con la Russia per la costruzione di una centrale atomica – per assicurarsi la vittoria alle urne, perché ci sono diversi fattori che preoccupano Erdoğan. Tra questi, uno dei più importanti è la nuova strategia delle opposizioni, completamente diversa da quelle del passato: «c’è una nuova lingua che si rivolge all’elettore. C’è una logica di allargamento del “tavolo” al fine di aggiungere partiti e personalità politiche nuove», provenienti sia «dall’estrema destra che dall’estrema sinistra»: se così fosse, Giustizia e Sviluppo perderebbe il primato ideologico e culturale acquisito negli ultimi vent’anni. Tutti gli scenari post-elettorali sono quindi plausibili per al-‘Ayn, tra cui uno “mediano” secondo il quale Erdoğan conquisterebbe di nuovo la presidenza, ma l’opposizione otterrebbe la maggioranza dei voti in parlamento. Al-‘Arab contesta le mosse del reis durante la campagna elettorale, definendole una «pericolosa avventura ai fini della rielezione», soprattutto per quanto riguarda l’interventismo militare nel nord della Siria, territorio amministrato dalle sigle curde col sostegno americano. Secondo il giornale panarabo, infatti, i ripetuti attacchi dell’artiglieria e dell’aviazione turca alle postazioni curde avrebbero messo a rischio la sicurezza dei soldati americani presenti sul posto, raffreddando le relazioni tra Ankara e Washington. La critica del giornale, anche questo vicino agli Emirati, non risparmia la figura dello stesso Erdoğan «essenzialmente autoritaria, capace di trasformare il Paese in un feudo personale, piegando la maggior parte delle istituzioni statuali e ponendole sotto il suo controllo».
(Non) s’ha da fare: la Siria torna nella Lega araba? [Mauro Primavera]
Come visto nelle precedenti rassegne, la Siria rappresenta da tempo una questione di enorme importanza per il mondo arabo: un possibile punto di svolta potrebbe avvenire al trentaduesimo vertice della Lega Araba previsto a Riyad il prossimo 19 maggio, quando si discuterà la riammissione di Damasco nel consesso. Nel frattempo, la stampa finanziata dal Qatar manifesta tutto il suo disappunto verso il processo di normalizzazione sponsorizzato dall’Arabia Saudita, come si evince dalla vignetta pubblicata da al-Arabi al-Jadid che raffigura un insanguinato Bashar Assad camminare, con la maschera antigas sul volto, su un lungo tappeto rosso (sangue) srotolatogli per l’occasione dalla Lega. Nell’articolo che segue si descrivono le tre posizioni che i membri della Lega hanno nei confronti della Siria. Le prime due sono già note: da una parte vi è quella dell’Arabia Saudita, promotrice della riconciliazione con Damasco fin dal vertice di Algeri del novembre 2022; dall’altra quella del Qatar, che considera ancora validi motivi della sospensione della Siria i crimini di guerra del regime e la conseguente emergenza umanitaria. A questi va aggiunto una terza posizione, presa anni fa dalla Giordania e rinominata “passo dopo passo”: consiste essenzialmente nel garantire alla Siria il reintegro in cambio di una soluzione politica della crisi. Questo atteggiamento a metà tra quello di Riyad e quello di Doha è dettato da chiare necessità geopolitiche, dalla vicinanza geografica con Israele e Palestina alla questione dei migranti siriani. Ma il giornale si mostra scettico sull’iniziativa di Amman: «nonostante i ripetuti incontri e le ripetute conferme degli Stati arabi […] il poco tempo rimasto prima del vertice di Riyad è di aiuto solo per promesse generiche e pompose, senza misure chiare e stabilite». L’obiettivo sarebbe in realtà quello di reintegrare il Paese a tutti i costi, anche «in assenza di un accordo o di un’intesa con americani e occidentali». Sulla stessa linea anche Al Jazeera, che definisce la normalizzazione un «investimento a perdere»: dal 2020, anno in cui si sono stabilizzati i fronti di guerra, il regime non ha registrato alcun cambiamento politico, economico, militare o securitario; non ci sarebbero quindi i presupposti per la riabilitazione di Damasco. Infatti, la normalizzazione, anche se ci sarà, resterà di fatto «impossibile di fronte a ogni desiderio o sforzo di» modificare la struttura interna del regime. La riammissione di Assad nella Lega sembra quindi essere una decisione estemporanea, perché «lo scenario siriano potrebbe mutare radicalmente non appena cesseranno i tentativi di pacificazione regionali, oppure nel momento in cui si verificherà una nuova escalation in Medio Oriente, oppure se il risultato dello scontro in Ucraina andrà a favore dell’Occidente». Diversa la visione del filo-emiratino al-‘Arab, che in una approfondita analisi pubblicata il 26 aprile spiega la complessità della partita interaraba che si sta svolgendo in preparazione del vertice. Nonostante la determinazione dei sauditi di far riammettere la Siria, sono ancora tanti i nodi da sciogliere e le variabili da tenere in considerazione. Per quanto riguarda la soluzione politica del conflitto, è interessante notare come per il giornale sia cruciale coinvolgere la componente curda, unico tipo di opposizione citato: «la verità è che non esiste alcuna soluzione senza i curdi. Essi sono l’unico zoccolo duro rimasto dell’opposizione siriana». Sono lo zoccolo duro non tanto perché controllano il 20% dei territori siriani o perché ricevono il supporto di Washington: il loro merito principale sta nel fatto di «aver abbattuto il sedicente Stato Islamico». Inoltre, le richieste che avanzano sono «indiscutibili», ed è pertanto molto difficile per Damasco ignorarle.
Saied come Mussolini [Chiara Pellegrino]
Tra i Paesi che negli ultimi anni si sono focalizzati maggiormente sulla dimensione interna a scapito di quella internazionale c’è sicuramente la Tunisia, a cui anche questa settimana i media arabi hanno dedicato ampio spazio. “La tirannia è il dilemma della Tunisia e la causa dei suoi problemi”, ha titolato ancora al-‘Arabi al-Jadid. Il giornalista siriano Malek Wannous ha riflettuto sul rischio di una guerra civile paventato da Ghannouchi, leader del partito islamista Ennahda, fatto arrestare la scorsa settimana da Kais Saied. «Un governante geloso del proprio Paese» – così è stato definito Saied – che «ha generato nuovi problemi dopo aver esacerbato e reso cronici quelli preesistenti, ciò che potrebbe spingere il popolo […] a una nuova rivoluzione. Qualora il caso dovesse presentarsi, Saied risponderà soltanto con il fuoco e con il sangue, per trascinare il Paese nella violenza e nella contro-violenza, spalancandogli davanti le porte dell’ignoto». Peraltro, ha ricordato l’editorialista, Ghannouchi è stato arrestato sulla base dell’articolo 72 del codice penale, che prevede la pena di morte per coloro che mirano a cambiare la forma di governo. Se la condanna dovesse concretizzarsi il rischio di insurrezione da parte dei suoi sostenitori sarebbe altissimo.
Molto significativa inoltre è la vignetta in cui Saied viene paragonato a Mussolini, pubblicata dallo stesso quotidiano.
Il Marocco scende in campo con la diplomazia sportiva e culturale [Chiara Pellegrino]
Mentre la Tunisia è alle prese con gravi problemi politici ed economici, il Marocco ha presentato la sua candidatura per ospitare la Coppa d’Africa 2025, in quello che al-‘Arab ha definito un dispiegamento della diplomazia sportiva del Regno. «Lo sport, in particolare il calcio, è diventato un punto di forza per il Marocco, funzionale al suo soft power. [Il soft power sportivo] promuove l’immagine positiva del Paese, consente di esercitare un’influenza a livello arabo e internazionale e di attrarre più turisti». Come ricorda l’editoriale, «il Marocco ha fatto passi da gigante nella diplomazia sportiva» e dopo aver conquistato il quarto posto ai Mondiali in Qatar, ha messo a segno un altro bel colpo candidandosi lo scorso marzo insieme alla Spagna e al Portogallo per ospitare la Coppa del Mondo 2030.
Insieme allo sport, anche la cultura gioca un ruolo importante nel tentativo del Marocco di accreditarsi a livello internazionale. Come riporta ancora al-‘Arab, dal 5 al 7 maggio prossimo Rabat, Capitale della Cultura africana 2022, ospiterà il Festival della poesia africana, durante il quale verrà premiato il poeta senegalese Amadou Lamine Sall, risultato vincitore del Premio internazionale di poesia africana 2023. Poeta tra i più importanti dell’Africa francofona, Sall ha ricevuto diversi riconoscimenti internazionali, tra cui il Gran premio dell’Accademia di Francia, il Premio Tchicaya UTam per la poesia africana e il Premio internazionale della poesia che gli ha assegnato la città di Trieste nel 2004.