Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:07:22
“Lo Stato Islamico e l’Islam politico iracheno, ciascuno a modo suo, puntano all’islamizzazione della società irachena”. Sono molto forti le parole di condanna di padre Amir Jaje, iracheno membro dell’IDÉO (
Istituto domenicano di studi orientali del Cairo), contro l’Islam politico di Baghdad. A causare la rabbia del sacerdote, una serie di leggi approvate dal Parlamento che restringono le libertà individuali in Iraq, mentre l’esercito iracheno è impegnato nella liberazione di Mosul. Alcuni giorni fa, per esempio, una legge ha imposto il divieto di importazione, esportazione e produzione di alcolici, un’altra ha sancito la censura della stampa e delle pubblicazioni, un’altra ancora ha vietato un certo modo di truccarsi e un certo abbigliamento per le donne nelle università. Per padre Jaje, questo dimostra che
“anche se l’offensiva contro Isis dovesse andare a buon fine, la situazione delle minoranze cristiane non migliorerà, perché l’obiettivo dell’Islam politico, di cui l’Isis è estrema espressione, si rifà a un modello in cui non c’è spazio per minoranze non musulmane. E per noi non è importante se l’ispirazione è saudita o iraniana”.
Da giugno ad agosto 2014, l’estate in cui Isis ha proclamato la restaurazione del Califfato,
il 90 per cento dei cristiani ha lasciato Mosul. Nello stesso periodo, la regione storicamente cristiana della piana di Ninive si è svuotata e alla fine dell’anno non c’erano quasi più cristiani nelle città. Isis ha occupato tutti i villaggi, umiliando la popolazione e spogliandola di tutti i suoi averi. “In pochi sono rimasti, soprattutto anziani e malati, coloro che non hanno avuto il tempo di fuggire; hanno cercato di adattarsi pagando la
jizya”, l’imposta storicamente pagata dalle “genti del Libro” (soprattutto cristiani ed ebrei, NdR) in terra di Islam, spiega a Oasis padre Jaje dal Cairo. I cristiani, racconta, non sono rimasti però a lungo dopo l’arrivo dello Stato Islamico a Mosul. All’inizio del 2015, i miliziani jihadisti hanno confiscato loro tutti i beni e li hanno espulsi dalle loro case e dai loro villaggi. “Da allora, non ho mai più sentito parlare di cristiani a Mosul”.
L’esercito iracheno e una coalizione internazionale combattono da giorni per liberare i villaggi della piana di Ninive e Mosul. Anche la città natale di padre Jaje,
Qaraqosh, è stata riconquistata, nonostante i suoi abitanti non possano ancora farvi ritorno. “La cattedrale di Nostra Signora, la chiesa più grande della piana di Ninive, è stata completamente bruciata. Anche quelle di Mar Yuhanna e di Mar Zena sono state incendiate, profanate e trasformate in poligoni di tiro per i soldati del ‘Califfato’. Altri luoghi a noi cari sono stati utilizzati come posti di addestramento militare.
La perdita delle chiese è per noi cristiani iracheni più dolorosa della perdita degli averi personali, perché distruggere i nostri luoghi di preghiera significa distruggere la nostra speranza. Nonostante l’offensiva, alcuni decideranno ora di lasciare l’Iraq. Siamo una chiesa martire in questo Paese, ma la speranza rimane, nonostante tutto”.
Anche nei villaggi liberati dopo due anni e mezzo di occupazione di Isis, i pericoli restano. “Potrebbero esserci gallerie sotto la città dove si nascondono i soldati e mine dentro le case. Ci vorrà ancora molto prima di poter tornare a casa”.
Quale avvenire per la piana di Ninive
Prima che gli abitanti dei villaggi liberati possano rientrare, occorre ricostruire le infrastrutture, eliminare le mine e mettere in sicurezza gli edifici.
“Il vero problema inizierà però dopo e sarà più grave e profondo”, avverte padre Jaje. Il conflitto più forte sarà quello inter-comunitario tra curdi, sunniti e sciiti, tra le minoranze e anche la Turchia: “Ciascuno dei protagonisti dei combattimenti di queste ore vuole rivendicare la proprietà sulla regione e il merito di averla riconquistata. Si porrà inoltre il problema di come trattare coloro che hanno collaborato con Isis a Mosul, che rischiano di subire una vendetta spietata”.
Il dialogo e i rapporti con le altre comunità rimangono centrali per il sacerdote. “Dobbiamo riconoscere reciprocamente che l’altro è diverso e rispettare questa sua diversità, a maggior ragione quando crediamo nello stesso unico Dio”. Padre Jaje, islamologo esperto di Islam sciita, è membro del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. In questa sua attività, incontra spesso autorità religiose di altre fedi e confessioni. A Najaf, a inizio ottobre, ha parlato con gli ulema sciiti della
Hawza ‘ilmiyya (istituzione sciita dove si formano gli imam). Con loro ha discusso del pluralismo iracheno. Gli ulema si sarebbero dimostrati sensibili al problema della fuga dei cristiani, “perché l’Iraq, nato nella diversità, rischia di perdere la sua originalità”. In quell’occasione sarebbe emersa una proposta condivisa: cambiare i programmi scolastici che insegnano l’esclusione e sostituire l’ora di Islam con un’ora di storia delle religioni.
I musulmani moderati, spiega padre Jaje, sono la garanzia della presenza cristiana in Iraq “e noi abbiamo la responsabilità di mantenere accesa la speranza”.