Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 07/03/2025 16:42:08

Il vertice arabo svoltosi questa settimana in Egitto, convocato per formulare un’alternativa al “Piano Riviera del Medio Oriente” proposto da Trump per Gaza, ha suscitato numerosi interrogativi sulla stampa araba. Molti giornalisti ritengono che la dichiarazione formulata a conclusione del summit sia un esercizio di retorica pura, privo di strumenti concreti per garantirne l’attuazione.

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Nella dichiarazione non vengono menzionate le azioni che i Paesi arabi sarebbero disposti a intraprendere se «le autorità coloniali sioniste occupanti, da un lato, e il governo americano, dall’altro, dovessero respingere del tutto o la maggior parte di quanto affermato nella dichiarazione araba» (come poi in effetti è accaduto), scrive su al-Quds al-‘Arabi lo scrittore bahreinita Ali Mohammad Fakhro. I presenti al summit avrebbero dovuto ricordarsi che Israele da venticinque anni a questa parte rimanda sempre al mittente tutte le proposte palestinesi e che Trump, «sionista fino al midollo», difficilmente accetterà di riconoscere ai palestinesi anche solo una minima parte dei diritti menzionati nella dichiarazione. Secondo Fakhro sarebbe stato opportuno ventilare quanto meno la possibilità di ritirare tutti gli ambasciatori arabi «dall’entità sionista» e chiedere a quest’ultima di fare lo stesso con i suoi diplomatici presenti nei Paesi arabi. In alternativa, si sarebbe potuto minacciare «il boicottaggio economico, sportivo, artistico e turistico». Ma nulla di tutto ciò è stato fatto; questa inazione non rende onore agli arabi, perché «il fine ultimo della vita non è la conoscenza, ma l’azione», conclude il giornalista citando una massima di Thomas Huxley.

 

Altrettanto severo è il giudizio della giornalista libanese Dalal el-Bizri, che su al-‘Arabi al-Jadid scrive che gli arabi hanno organizzato questo vertice «per salvare la faccia». Gli arabi hanno aderito a questa iniziativa perché si trovavano con le spalle al muro e per tutto il tempo del summit «sono stati dominati dall’immagine di Trump». Grande delusione anche per i risultati che hanno prodotto: «Hanno rispolverato il loro vecchio progetto del 2002, che prevedeva il ritiro di Israele dai territori occupati nel 1967 e la creazione di uno Stato palestinese su quei territori», ma non hanno proposto nulla di nuovo.

 

La stampa egiziana riconosce gli sforzi diplomatici attuati dal governo – «ha fatto il suo dovere e anche di più» – ma al contempo è delusa dall’esito del vertice. Sebbene la dichiarazione a conclusione del vertice sia stata sottoscritta all’unanimità, «saltano subito all’occhio lacune e differenze tra i partecipanti, e il quadro generale non esprime la solidarietà araba che l’attuale difficile situazione storica meriterebbe» commenta Ziad Bahaa Eldin su al-Masri al-Youm. Inoltre, sebbene il vertice fosse considerato un’emergenza, è stato convocato tardi, dando l’impressione fin dal principio che avrebbe avuto un impatto limitato. L’assenza di importanti leader arabi ha evidenziato la mancanza di consenso e coesione, mentre il rifiuto immediato del piano da parte di Israele e degli Stati Uniti ha rafforzato la percezione che la dichiarazione finale non avrebbe rappresentato una base concreta per progressi futuri, prosegue l’articolo. A prescindere da tutti questi limiti, commenta ancora Eldin, qualsiasi piano alternativo che preveda la ricostruzione di Gaza si scontra con l’assenza, nella Striscia, di una rappresentanza politica capace di gestire la transizione, perché il processo di «ricostruzione non può essere limitato solo a costruire e fornire alloggi senza una visione politica ed economica sostenibile».

 

Sarcastico e pessimista anche Farouk Youssef, giornalista iracheno che sul quotidiano filo-emiratino al-‘Arab scrive che «il vertice arabo non si è rivelato all’altezza delle sfide» e «non è riuscito a presentare un programma di lavoro chiaro». La situazione continuerà così com’è: «il disastro si aggraverà, Gaza resterà distrutta e la sua gente continuerà a vivere nelle tende, mentre i miliziani continueranno di tanto in tanto a dare spettacolo, così Israele potrà rinnovare le sue ragioni per sentirsi in ansia e ucciderà come e quando vuole. Nessuno biasimerà Israele finché il padrone della Casa Bianca continuerà a sostenerlo, lui stesso più desideroso di tutti di piombare su Gaza, come un lupo sulla sua preda». Alla luce di tutto ciò, domanda Youssef, «qualcuno mi spiega perché si è tenuto il vertice arabo?»

 

«Decisioni importanti o tanto rumore per nulla?» domanda sullo stesso quotidiano il giornalista giordano Abdulkarim Suleiman Al-Arjan. Come altri suoi colleghi, anche Al-Arjan si chiede se la dichiarazione conclusiva del vertice indichi un cambiamento qualitativo nel rapporto degli arabi con la questione palestinese o se invece sia semplicemente un riciclo di posizioni tradizionali. Il grande problema degli arabi, prosegue l’editoriale, è «il divario tra retorica e messa in opera». Solitamente, le dichiarazioni conclusive dei vertici arabi «sono formule retoriche, prive di meccanismi di attuazione, anche se le decisioni contengono clausole forti come il rifiuto dello sfollamento o la richiesta del ritiro dell’occupazione. Ma l’assenza di strumenti effettivi per fare pressione le rende più vicine a desideri che a politiche realizzabili». Un punto in particolare della dichiarazione solleva le perplessità del giornalista: l’elogio del ruolo svolto da Donald Trump nel cessate il fuoco e nel rilascio dei prigionieri, e l’appello a cooperare con Washington per far progredire il processo di pace. Questa proposta, prosegue il giornalista, «ci riporta sempre al solito problema storico: come possono gli arabi raggiungere una soluzione giusta per la questione palestinese se scommettono su un mediatore schierato con Israele?» Puntare su Washington come unico mediatore equivale a «riciclare decenni di fallimenti». La cosa da fare sarebbe produrre un discorso politico arabo unificato, basato su interessi economici e sicuritari comuni, volto a convincere l’amministrazione statunitense che il sostegno incondizionato a Israele non serve gli interessi americani, ma danneggia la stabilità della regione e rafforza le ondate di ostilità verso l’America. Allo stesso tempo, prosegue l’articolo, i Paesi arabi dovrebbero rafforzare le alleanze internazionali al di fuori del tradizionale asse americano, con la Cina, la Russia e altre potenze che stanno emergendo sulla scena mondiale, «per creare un ombrello politico alternativo all’egemonia americana».

 

Breve ma incisivo e di segno opposto, l’editoriale di Samir Atallah su al-Sharq al-Awsat (quotidiano di proprietà saudita), che muove una severa critica ai «giornalisti nominati per decreto», «stormi di corvi che ci gracchiano in faccia» e che, dall’alto della loro «conoscenza, esperienza e intelletto», mettono in dubbio l’efficacia del vertice e la volontà degli arabi di sostenere (davvero) la causa palestinese. Ad essi Atallah risponde che quello dei Cairo «non è un vertice di emergenza, ma un vertice permanente», perché «i Paesi arabi sono uniti fin dall’inizio contro un solo Paese: Israele». L’articolo conclude esortando a «ricercare la saggezza tra le fila dei saggi».

 

In Siria Sharaa cammina su una corda tesa

 

​​​​​​​La situazione in Siria e l’ingerenza di Israele nella politica interna di Damasco destano forte preoccupazione. Venerdì scorso, nella città di Jaramana, a pochi chilometri dalla capitale, si sono verificati scontri tra una milizia drusa e le forze di sicurezza governative. In seguito a questi eventi, Israele si è schierato a sostegno dei drusi, minacciando di colpire le forze del governo siriano. La reazione dei media arabi non si è fatta attendere: Netanyahu è stato accusato di sfruttare le divisioni confessionali in Siria per destabilizzare il Paese e favorire gli interessi israeliani​​​​​​​​​​​​​​.

Tuttavia, come osserva Ali Qasim su al-‘Arab, Jaramana – il cui nome, di origine aramaica, significa «la città degli uomini duri» – non ha ceduto alle pressioni. «Le lacrime di coccodrillo di Israele e i suoi tentativi di conquistare il favore della comunità drusa sono falliti», prosegue il giornalista, sottolineando come i dignitari drusi abbiano respinto la «falsa tutela» israeliana. Consapevoli che Tel Aviv sta cercando di sfruttare la situazione per perseguire i propri obiettivi strategici, i leader della comunità drusa hanno ribadito la loro autonomia e il rifiuto di qualsiasi ingerenza straniera negli affari siriani. Secondo Qasim, questa vicenda – così come gli sviluppi successivi alla caduta del regime di Assad lo scorso dicembre – ha rivelato in modo inequivocabile le ambizioni di Israele in Siria.

 

Su al-Jazeera Ihab Jabareen scrive che le ambizioni israeliane in Siria «oltrepassano i confini della sicurezza nazionale per assumere le vesti del colonialismo contemporaneo». Israele «sta sviluppando una strategia a lungo termine che prende in prestito gli strumenti del colonialismo classico per imporre un’egemonia totale. Sfruttando il caos per combattere i nemici, primi fra tutti la Turchia, Israele spinge la Siria verso uno di questi due destini: una lunga guerra civile o l’addomesticamento con la forza militare», prosegue il giornalista. Dal punto di vista israeliano, entrambe le opzioni mirano a eliminare la minaccia siriana: una lunga guerra civile porterebbe allo smembramento della Siria come stato unitario, mentre una strategia di «addomesticamento» attraverso attacchi mirati alle infrastrutture militari e civili ne provocherebbe la paralisi o la sottomissione. Jabareen accusa Israele di fomentare le divisioni confessionali e tribali in Siria, esacerbatesi dopo la caduta del regime di Bashar al-Assad. Secondo il giornalista, Tel Aviv mira a prendere il controllo di risorse strategiche, come terreni agricoli e fonti d’acqua, al fine di mantenere la popolazione in una condizione di dipendenza. Inoltre, denuncia il tentativo israeliano di delegittimare il popolo siriano, rappresentandolo come incapace di autogovernarsi e utilizzando questa narrazione per giustificare la propria ingerenza nel Paese.

 

La rivista saudita al-Majalla ha pubblicato un’intervista a Burhan Ghalioun, politico e sociologo siriano in esilio a Parigi da molti anni. Pur consapevole delle difficoltà, il professore è speranzoso sul futuro del suo Paese. Per fare bilanci è ancora presto, «le stesse autorità siriane non sanno ancora che cosa vogliono, stanno cercando la loro strada». Ma tra le priorità di Ahmad al-Sharaa c’è sicuramente l’interazione con le potenze internazionali, spiega l’intellettuale, perché se le sanzioni non vengono revocate, il regime non sarà stabile e se il sostegno del Golfo, in particolare dell’Arabia Saudita, non continua, non potrà esserci alcun progresso nella ricostruzione. Al-Sharaa è spinto da una logica razionale «in stile turco», si ispira a «un governo conservatore, cioè a un sistema che si adorna di tradizioni e valori religiosi, ma che allo stesso tempo affronta le sfide della società in modo razionale e realistico». Il nuovo presidente ad interim «cammina su una corda tesa, da una parte il suo gruppo gli chiede di mettere in pratica i principi islamici, dall’altra c’è la società siriana con tutte le sue aspirazioni di libertà, uguaglianza, giustizia, diversità». Interrogato sul futuro del confessionalismo, Ghalioun risponde che il problema sorge nel momento in cui «l’autorità politica usa l’affiliazione religiosa o etnica per interessi politici», come ha fatto il regime di Assad mettendo gli alawiti e i sunniti gli uni contro gli altri, e usando i mezzi di tortura più brutali per contrapporli. Ma il passato di questi Paesi racconta una storia diversa, spiega Ghalioun: per quattordici secoli le persone hanno convissuto e interagito tra loro, «la chiesa accanto alla moschea, il mercante cristiano accanto al mercante ebreo e al mercante musulmano», ciò significa che esisteva un contratto sociale radicato nella mente, fondato sull’idea che «la religione è per Dio e la patria è per tutti». Rispetto alla riorganizzazione dello stato oggi, Ghalioun ritiene che l’unica istituzione che deve essere sciolta e ricreata da zero siano i servizi di sicurezza, totalmente infiltrati da uomini fedeli al regime di Assad, mentre è contrario allo scioglimento dell’esercito e della magistratura, ritenendo più utile ripristinare i vecchi funzionari «perché i paesi non si creano da zero» e alla fine «tutti sono figli della patria». Il suo augurio è che «le persone tornino a trattarsi reciprocamente come esseri umani, prima di essere musulmani, cristiani e alawiti».