Il massacro compiuto ai danni degli alawiti ha rilanciato i dubbi sulla natura dell’attuale governo di Damasco. E anche la dichiarazione costituzionale firmata pochi giorni dopo dal presidente Sharaa si presta a letture ambivalenti
Ultimo aggiornamento: 20/03/2025 11:09:22
Il 15 marzo i siriani hanno celebrato il quattordicesimo anniversario dall’inizio delle rivolte contro il regime di Bashar al-Assad. I festeggiamenti sono però coincisi con un momento drammatico per la Siria. Anche qui, come già era accaduto nel 2011 in altri Paesi coinvolti dalla “Primavera araba”, l’euforia per la caduta del dittatore ha lasciato presto il posto al riemergere di antiche e radicate tensioni.
Tra il 6 e il 9 marzo, un’operazione volta a eliminare la minaccia rappresentata dai reduci del vecchio regime è degenerata in una persecuzione indiscriminata contro gli alawiti, che ha fatto centinaia di vittime civili e sollevato molti dubbi sull’effettiva intenzione del governo di Damasco di tenere fede alla promessa di rispettare la pluralità etnica e religiosa del Paese. Il presidente Ahmed al-Sharaa ha subito trovato il modo di smarcarsi da questa pericolosa deriva: dopo aver istituito una commissione d’inchiesta incaricata di fare luce sulla carneficina, ha firmato con il capo delle Forze Democratiche Siriane un accordo sull’integrazione dei curdi nelle strutture del nuovo Stato siriano, scongiurando in questo modo un altro potenziale conflitto intestino; il 13 marzo ha poi varato la dichiarazione costituzionale che per i prossimi cinque anni dovrebbe fungere da spartito della transizione.
Questa sequenza in chiaroscuro ha riproposto l’enigma che dall’8 dicembre, data della fine del regime di Bashar al-Assad, impegna non solo analisti e commentatori, ma anche e soprattutto molti siriani: chi sono Ahmed al-Sharaa e i suoi fedelissimi? Degli ex-jihadisti sì pragmatici, ma che non si sono veramente lasciati alle spalle il proprio passato? Oppure un gruppo dirigente che, dismessi gli abiti militari, è effettivamente pronto per guidare uno Stato multietnico e multireligioso?
È la stessa dichiarazione costituzionale ad alimentare l’incertezza. Essa prevede la separazione dei poteri, la parità tra i cittadini a prescindere dalla loro appartenenza etnica e confessionale e un ampio catalogo di libertà, da quella di credo a quella di espressione e associazione, oltre a riconoscere il pluralismo culturale, etnico e religioso del Paese. Ma allo stesso tempo attribuisce enormi poteri al presidente, nega la possibilità di gestire la coesistenza delle varie anime della Siria attraverso soluzioni federali o autonomiste e stabilisce un inequivocabile primato dell’Islam sulle altre religioni.
Alla presentazione del documento, uno dei suoi estensori ha sottolineato che la dichiarazione si colloca in continuità con la «consuetudine costituzionale» (‘urf dustūrī) del Paese, ispirandosi in particolare alla Legge fondamentale del 1950. Proprio alcune differenze con quest’ultima, tuttavia, confermano le perplessità sulla natura dell’attuale amministrazione. La Carta del 1950, ad esempio, definiva la Siria «una repubblica araba parlamentare democratica» (art. 1) e attribuiva la sovranità al popolo (art. 2). La dichiarazione costituzionale instaura un sistema iperpresidenziale, non contiene riferimenti alla democrazia e menziona la sovranità popolare – nel preambolo – solo in relazione al territorio nazionale. Queste omissioni possono essere spiegate in due modi diversi. Si tratta di una comprensibile precauzione, voluta per evitare proclami troppo impegnativi in una fase in cui la priorità è ricostruire il Paese e le sue istituzioni, o è invece il riflesso della pregiudiziale anti-democratica dell’islamismo più intransigente, secondo cui la sovranità popolare viola il principio dell’assoluta ed esclusiva sovranità divina?
I punti che sono rimasti invariati pongono inoltre problemi interpretativi non secondari. L’articolo 3, ad esempio, riproduce quasi alla lettera lo stesso articolo della Carta del 1950 («La religione del Presidente della Repubblica è l’Islam. La giurisprudenza islamica è la fonte primaria della legislazione. La libertà di credo è garantita. Lo Stato rispetta tutte le religioni celesti e garantisce la libertà di praticare i loro riti, a condizione che ciò non comprometta l’ordine pubblico»). Che cosa significa che la giurisprudenza islamica, un patrimonio elaborato nel corso di 14 secoli, è la principale fonte della legislazione? Quali delle sue norme possono essere tradotte in legge? Chi deve vigilare su questo principio? E ancora: quali religioni sono riconosciute come “celesti”, cioè rivelate da Dio? Secondo una visione ampiamente condivisa, in questa categoria rientrano naturalmente l’Islam, ma anche l’Ebraismo e il Cristianesimo. Ma che ne è degli alawiti, il gruppo a cui appartiene l’ex presidente Bashar al-Assad, e che per questo è collettivamente sospettato di collusione con il vecchio regime? Nel corso della storia, essi hanno subito diverse forme di discriminazione e anche di persecuzione proprio a causa della loro eterodossia.
Nel quattordicesimo secolo, in epoca mamelucca, gli alawiti furono il bersaglio di tre fatwe di Ibn Taymiyya, uno dei maître à penser dei movimenti salafiti, che li considerava pericolosi eretici, peggiori di ebrei e cristiani perché interni all’Islam, e perciò esortava a non sposare le loro donne e autorizzava la confisca delle loro proprietà. Altre due fatwe emesse in epoca ottomana, entrambe molto ostili nei confronti di questa comunità e più in generale delle sette sciite “estreme”, servirono a giustificare ripetute spedizioni militari ai suoi danni. Le cose cambiarono parzialmente nel XX secolo. Nel 1936, anno dello scoppio della grande rivolta araba contro gli insediamenti sionisti e contro la presenza britannica in Palestina, il mufti di Gerusalemme al-Hajj Amin Huseyni, oggi noto soprattutto per il suo filonazismo, identificò gli alawiti come musulmani con una fatwa che aveva lo scopo di favorire la coesione delle popolazioni del Levante arabo di fronte alla dominazione coloniale europea. Negli anni ’70, quando il padre di Bashar al-Assad, Hafez, aveva ormai preso il potere e aveva bisogno di essere legittimato come capo “musulmano” dello Stato, furono due religiosi sciiti a certificare l’appartenenza degli alawiti allo Sciismo. In quali di questi pronunciamenti si riconoscono oggi i detentori del potere in Siria? In quelli del passato mamelucco e ottomano o, supponendo che l’opinione degli sciiti non sia molto rilevante per chi viene dall’islamismo salafita, nella mano tesa di Amin Huseyni? Resta il fatto che le fatwe di Ibn Taymiyya continuano a godere di una significativa circolazione e lo scoppio delle violenze anti-alawite riporta tristemente alla memoria le stragi confessionali medievali.
Oltre a questi problemi, la Siria deve oggi fare i conti con le minacce che giungono dall’esterno. Israele ha immediatamente approfittato del cambio di regime a Damasco per estendere la sua occupazione delle alture del Golan e sta facendo leva sulle divisioni interne del Paese per provocarne una frammentazione che, agli occhi del governo dello Stato ebraico, contribuirebbe a renderlo inoffensivo. Il 16 marzo, inoltre, bombardamenti e scambi di arma da fuoco al confine tra Siria e Libano hanno fatto sospettare un tentativo di interferire con la transizione siriana da parte di Hezbollah.
Proprio per la presenza di questi pericoli, la nuova dichiarazione costituzionale insiste sull’unità del Paese e sulla sua integrità territoriale. Ma sarà difficile realizzare quanto stabilito sulla carta in assenza di un’effettiva riconciliazione tra i vari gruppi che lo compongono.