A quasi vent’anni dalla fine di una sanguinosa guerra civile, Sarajevo e tutta la Bosnia Erzegovina nei primi mesi del 2014 hanno conosciuto una nuova fase turbolenta
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:23
A quasi vent’anni dalla fine di una sanguinosa guerra civile, Sarajevo e tutta la Bosnia Erzegovina nei primi mesi del 2014 hanno conosciuto una nuova fase turbolenta: il popolo ha gridato basta a un sistema di governo imposto a Dayton dalla comunità internazionale, corrotto e impegnato ad auto-conservarsi più che a rispondere ai bisogni reali del Paese. Che chiede soprattutto di avere un futuro.
Il profilo di Elvis, cappello di lana calcato sui suoi vent’anni e blocco appunti in mano, taglia il fumo denso delle sigarette che satura l’aria del centro Dom Mladih, nel cuore di Sarajevo. Anche lui vuole cambiare la sua città. Ci crede con la testa e fisicamente. Sta da giorni tra le centinaia di giovani, vecchi, mamme con bambini in carrozzina che affollano l’aula magna della municipalità dove da settimane si riunisce il plenum građana i građanki Sarajeva, l’assemblea dei cittadini e delle cittadine autoconvocatisi dopo le proteste dello scorso febbraio. Li tiene insieme un obiettivo non poco ambizioso: riformare il Paese, abolire i governi cantonali, mandare i politici corrotti a casa, bloccare le assunzioni di inutili burocrati che consumano la fetta più larga del PIL nazionale. Di questo tentativo di democrazia diretta, in cui il popolo vota per alzata di mano o fischia le proposte presentate in interventi liberi di massimo due minuti, si può dire di tutto: che è ingenuo, che è destinato ad esaurirsi, che è pura anarchia. Ma non si può negare che sia segno di una presenza viva in questa città ferita dalla storia, affascinante ammiraglia incagliatasi tra i Balcani.
Elvis studia letteratura inglese all’università ed è arrivato al plenum perché anche a sua madre, licenziata dopo mesi senza stipendio, è capitato quello che ha fatto scatenare le proteste furiose di metà febbraio, durate una manciata di giorni, in Bosnia Erzegovina: le privatizzazione delle grandi fabbriche bosniache si sono tradotte in chiusure definitive degli impianti, che hanno lasciato sulla strada migliaia di lavoratori, mentre un manipolo di imprenditori senza scrupoli si è arricchito svendendone i vari pezzi.
Le proteste sono iniziate a Tuzla, ma hanno contagiato Brčko, Bihać, poi la capitale, Zenica, Mostar, Kakanj, Sanski Most, Gračanica, Zavidovići, Bugojno e Orašje… Non è stato arduo per i promotori coinvolgere chi oggi non ce la fa più. A Tuzla i disoccupati nel 2013 erano quasi 99.000 contro 81.000 circa occupati, a Sarajevo 75.000 contro 123.000. Si parla di un tasso di disoccupazione in tutta la Bosnia Erzegovina del 45%, ma non è confermato da registri ufficiali. Nella capitale, sulla strada principale intestata a Tito, eroe nazionale per alcuni, criminale per altri, nei giorni in cui il traffico è bloccato sotto un cielo plumbeo dell’est, si misura la “crisi delle istituzioni”.
Pur nel cono d’ombra del sistema mediatico internazionale (che ha parlato delle proteste giusto per la durata delle fiamme appiccate alle auto e ad alcuni palazzi del potere), qui succedono fatti: i governi cantonali di Tuzla, Sarajevo, Zenica e Bihać si sono dimessi, la stampa militante si divide tra chi dà degli hooligans ai manifestanti e chi invece ne difende il diritto di espressione; mentre i politici più astuti studiano come cavalcare l’onda e guadagnare consenso alla prossima scadenza delle elezioni politiche di autunno.
L’odio nei media
Quello dei media, in particolare, resta un terreno minato in Bosnia Erzegovina. Come in ogni giovane democrazia, la stampa non è mai indifferente, facile vittima del ricatto dei ricchi e potenti, e decisivo è il suo ruolo nel propagare odi divisivi o nel promuovere una cultura dell’incontro. Stampa, radio, tv e web, compresi i social network, sono sorvegliati speciali. Emblematica è l’indagine promossa dall’Associazione dei giornalisti BH Novinari di Bosnia Erzegovina, organo militante nella difesa dei diritti dei giornalisti, sulla presenza nei media di espressioni di incitamento all’odio. Borka Rudić, segretario generale di BH Novinari, dai capelli di rame e dai modi decisi e aperti, è orgogliosa di illustrare questo lavoro: nel secondo semestre 2012, periodo di campagna elettorale, sono state vagliate decine di migliaia di articoli e servizi di quotidiani, periodici, televisioni e siti web per contare le parole e frasi usate per istigare all’ostilità verso il diverso, lo straniero, lo Stato e le sue istituzioni. Il quadro emerso ha confermato la presenza allarmante di una narrativa violenta, pervasiva, sia a livello della cronaca che dei commenti, e parallelamente il bisogno urgente di operatori dell’informazione più preparati professionalmente: dove sono competenti, i toni si civilizzano. Una prova per Borka della dose massiccia di veleno ancora in circolo nel corpo dello Stato, che stenta a disintossicarsi.
I vent’anni trascorsi dalla fine della guerra non hanno favorito una ripartenza del Paese, rimasto come congelato dagli accordi di Dayton: l’architettura statale unica nel suo genere, con una presidenza collegiale a tre (e rotazione ogni otto mesi del presidente), tre parlamenti, oltre un centinaio di “ministri”, molteplici livelli di governo da quello Statale fino a quello cantonale e comunale, l’Alto rappresentante per la Bosnia Erzegovina, consuma risorse e non restituisce nulla ai quasi quattro milioni di abitanti. Che sono esausti, tutti: chi protesta e chi non sopporta più chi protesta. La stanchezza generalizzata, che quasi si sfiora con le mani in città, produce spinte diverse: c’è chi rimpiange la Jugoslavia: «Non era male la vita negli anni ’60-‘70, c’era il rock-and-roll, il nostro Paese era grande, si respirava», dice con nostalgia Adis, un giornalista; chi invece pretenderebbe l’intervento della comunità internazionale per riscrivere nuovi accordi; chi confida nella prossima tornata elettorale elezioni; e chi lascia il Paese per un altrove incerto.
Il prezzo degli accordi di Dayton
Sul monstrum di Dayton si accapigliano pareri discordanti, come del resto su tutto a Sarajevo. Per alcuni erano l’unica via realistica per imporre la pace dopo tre anni e mezzo di guerra fratricida; per altri hanno solo congelato il conflitto, senza scioglierne i veri nodi; per altri ancora non hanno fermato la guerra, che è continuata sotto un’altra forma. Quest’ultima è l’amara constatazione di Mons. Pero Sudar, Vescovo ausiliare di Sarajevo. Gli accordi firmati in Ohio nel 1995 hanno creato un unico Stato che funziona solo sulla carta, non nella realtà. Esistono infatti due entità diverse, la Federazione croato-musulmana che detiene il 51% del territorio e la Repubblica Srpska (49%), in costante tensione, come contrapposte: una organizzata come una piccola federazione, divisa in dieci cantoni, per tentare di assicurare l’autonomia a croati e bosgnacchi; l’altra centralizzata, a maggioranza serba quasi assoluta, e dove il presidente esercita un grande potere.
Mons. Sudar riconosce ogni giorno i segni di una depressione subdola e diffusa:
«In guerra si vive sperando che un giorno finisca, perché tutte le guerre prima o poi finiscono; ma l’attuale situazione di inefficienza e tensione costante sembra non avere mai fine. Logora ogni scampolo di speranza. Ma se togli la speranza, cosa resta alle persone?».
Gli operai di Tuzla avevano tentato di tutto: manifestazioni, occupazioni, persino lo sciopero della fame, senza ottenere nulla. Fino al lancio di cocktail di molotov contro il Palazzo cantonale in un giorno di follia.
«Anche se si comprendono le ragioni di questa protesta – sostiene il vescovo ausiliare di Sarejevo – è difficile appoggiarla per il rischio di fuga nell’anarchia. È la comunità internazionale che deve riconoscere di aver sbagliato e farsi carico di trovare una soluzione ai problemi creati. Il Paese da solo non ce la può fare, paralizzato com’è dalle condizioni imposte a Dayton, che di fatto hanno legittimato i confini tracciati dagli abusi violenti della guerra».
L’Europa e gli Stati Uniti per Sudar devono qualcosa alla Bosnia Erzegovina:
«Bisogna salvare il nostro Paese multietnico, sarebbe una perdita enorme, morale e culturale. Stiamo pagando noi il prezzo dell’indipendenza del Kosovo: per rimediare allo strappo compiuto nei confronti della Serbia, si è ricreato con la Repubblica Srpska un altro Kosovo. Bisogna sciogliere questo nodo internazionale al più presto».
Il prezzo pagato dai cattolici è stato alto: nel ’91 la diocesi di Sarajevo contava 528.000 cattolici, oggi sono circa 190.000. Nella parte della diocesi di Banja Luka, che oggi fa parte della Repubblica Srpska, erano 60.000, oggi appena 5.000. E la situazione non accenna a migliorare. Solo nella diocesi di Mostar, città spaccata in due dal fiume, croati a Occidente, bosgnacchi a Oriente, i cattolici sono come prima della guerra, circa 200.000.
Contro qualsiasi ulteriore intervento estero negli affari interni sono alcuni intellettuali di tutto il mondo, capitanati dal regista Ken Loach, che hanno firmato un appello nella scorsa primavera in cui si auspica che l’Occidente metta fine alle ingerenze in questo Paese e al «protettorato antidemocratico (imposto da Dayton) che ha consegnato all’Alto rappresentante dei poteri occidentali un’autorità neocoloniale su un sistema politico che ha istituzionalizzato le divisioni etniche».
Tra orgoglio identitario e indifferenza
Nonostante le norme scritte con il bilancino a tutela dei tre principali gruppi etnici, esistono delle discriminazioni di fatto. A Sarajevo, oggi a stragrande maggioranza musulmana, è esperienza ordinaria per molti cattolici la difficoltà di trovare un lavoro. Basta il nome di battesimo per essere inquadrati etnicamente e quindi scartati. Mentre per costruire una moschea i permessi arrivano rapidamente, per una chiesa ci vogliono anche più di dieci anni. Per abbattere questi bastioni non c’è altra via che quella dell’educazione delle nuove generazioni. Le leggi non bastano.
Ne è convinto don Ivica Mrso, direttore della scuola cattolica interetnica San Josip, l’unica scuola della città frequentata da ragazzi di ogni comunità. Ma l’impresa è ardua. Delle proteste di fine inverno gli osservatori di tutto il mondo hanno voluto sottolineare l’aspetto trasversale: a chiedere a una voce pane, lavoro e riforme erano tutti, musulmani, croati e serbi. La precedenza del problema sociale su ogni altro tipo di divisione ha sparigliato le carte. Solo che, come fa osservare Mons. Mato Zovkic, per anni responsabile del dialogo interreligioso della diocesi di Sarajevo, se
«la distanza tra comunità si è ridotta, se pure si fa l’esperienza di vivere accanto a chi è di una fede diversa, spesso non ci si muove per conoscerlo veramente. Domina ancora troppo l’indifferenza».
C’è libertà religiosa, anche quella di non frequentare la chiesa o la moschea, ma le conversioni non sono accettate. Tutti qui sono abituati fin da piccoli a definirsi a partire dalla propria appartenenza etnico-religiosa: c’è chi si presenta come “croato di Bosnia” e intende cattolico; chi “serbo di Bosnia” e ha in mente ortodosso, chi “bosniaco” per bosgnacco-musulmano. Chi invece non si ritrova in nessuna di queste formule opta per agnostico o ateo, riferendosi a una categoria religiosa per collocarsi etnicamente nel Paese. Ma sembrano ormai etichette appiccicate su un vuoto, come se nel tempo il contenuto si fosse smarrito, consumato. E non incontri facilmente qualcuno che si definisca “bosniaco-erzegovese”, cittadino della Bosnia Erzegovina (come dire italiano o francese), finché non incroci alcuni dei manifestanti di Tuzla. Come Duśica Cook, che si presenta così, “bosniaca-erzegovese” ma con l’aggiunta “di serie B”, perché questi soggetti non sono previsti dagli accordi di Dayton.
Forse una parola nuova su questo verrà dai risultati del censimento che è stato realizzato alla fine del 2013, a 22 anni dal precedente, e i cui risultati ufficiali saranno resi pubblici nel 2016. Come ogni censimento, anche questo in versione balcanica è un’arma dalla lama affilata che entra nella carne del popolo. Lo si è visto già al momento della formulazione dei quesiti che hanno ridestato nazionalismi che sembravano sopiti: quello sull’etnia prevedeva una scelta tra quattro opzioni (bosgnacco/a, croato/a, serbo/a, altro), quello sulla fede religiosa ne prevedeva sei (islamica, cattolica, ortodossa, atea, agnostica o non dichiarata), perfetti entrambi per sancire le divisioni presenti.
Il profilo dell’Islam in Bosnia
I dati ufficiosi che già circolano documentano la netta predominanza dei musulmani nella Federazione. Ma quale il volto dell’Islam in Bosnia oggi? Mentre voci diverse, riportate anche dai media, parlano della presenza in patria di 3000 mujâhidîn pronti a combattere per lo Stato islamico, l’attuale Gran Mufti Husein Kavazovic è impegnato soprattutto nella promozione dell’educazione religiosa dei suoi (a partire dalla madrasa e dall’università), lontano dall’eccessivo coinvolgimento con la politica di cui era accusato il suo predecessore, Mustafa Cerić.
Anche il dato delle decine di moschee edificate dopo la fine della guerra viene letto in due modi contrapposti: da una parte c’è chi in questi nuovi edifici, sorti in tempi rapidissimi grazie a finanziamenti esteri, riscontra la prova dell’ingerenza di Arabia Saudita, Qatar e Malesia, per citare i Paesi più generosi; dall’altra chi fa notare che si tratta soprattutto di moschee ricostruite al posto di quelle distrutte dalla guerra, che quelle nuove sarebbero poche e necessarie a rispondere all’esigenza di luoghi di culto di una popolazione in aumento nella periferia della capitale.
Tra questi c’è Ahmet Alibašić, professore presso la Facoltà di Studi Islamici di Sarajevo, fondata dagli austriaci nel 1887, che oggi prepara imam e insegnanti di religione grazie a un corpo docenti di scuole diverse, lontani da estremismi o derive violente. Nella sua università si riconoscono, aldilà degli stereotipi, alcuni dei tratti specifici dell’Islam in Bosnia: dalle radici ottomane, l’Islam locale fu segnato profondamente nell’ultima parte del XIX secolo dal movimento riformista e dalla “rivoluzione” derivata dal passaggio dal dominio ottomano al dominio austroungarico, quindi dall’incontro della società bosniaca con l’Occidente. Questo cambiamento radicale spinse gli ulama e gli intellettuali a un grande lavoro di reinterpretazione a partire dalle provocazioni poste da questioni legate alla vita ordinaria. L’inserimento nell’impianto amministrativo della monarchia cattolica, con cui di fatto veniva meno l’identificazione tra istituzioni islamiche e statali, favorì inoltre l’istituzionalizzazione dell’Islam nella forma della Comunità islamica: essa ancora oggi è un punto di riferimento unitario per la vita dei fedeli musulmani e per certi versi costituisce un modello originale di coesistenza tra istituzioni islamiche ed europee basata sull’idea di Stato laico, inteso come neutrale, ma rispettoso delle religioni.
Anche i lunghi anni di comunismo hanno segnato l’Islam: i tribunali sciaraitici ottomani, che l’Impero austroungarico aveva mantenuto in funzione, furono aboliti e questo favorì la diffusione di un nuovo modo di percepire la legge islamica, vissuta come un insieme di norme religiose ed etiche volte al bene di chi si riconosce musulmano e non più come un’imposizione dello Stato. La guerra degli anni ’90, infine, ha lasciato cicatrici profonde su questo volto come su quello di tutte le comunità religiose del Paese. Ma è una pagina che nessuno vuol riaprire, anche se è sempre presente, come un rumore di fondo nel quotidiano.
Religioni tra guerra e pace
Il secolo del sangue, il XX secolo, per il Card. Vinko Puljić, Arcivescovo di Sarajevo, deve essere definitivamente sigillato. Il nuovo secolo non può che essere di pace, anche se prevede un cammino lungo e paziente. Lo mendica ogni frammento del Paese. In questa faticosa salita tiene il passo con un ruolo non secondario il Consiglio interreligioso, fondato nel 1997, dove siedono i rappresentanti della comunità serba, cattolica, musulmana ed ebrea.
Nato con l’obiettivo di dimostrare che quella degli anni ’90 non è stata una guerra “religiosa” ma politica, per quanto in modo un po’ paludato, promuove iniziative culturali indirizzate alla reciproca conoscenza e accoglienza. L’urgenza sul tavolo del Consiglio è attualmente la difesa dei luoghi di culto, oggetto di atti vandalici sempre più allarmanti. La collaborazione tra capi religiosi qualche risultato negli anni l’ha ottenuto: già durante la guerra, grazie a un’azione concertata, chiesero l’inserimento dell’insegnamento della religione nelle scuole statali, prima escluso, e ottennero che a insegnare religione fossero persone preparate dalle rispettive comunità e non i docenti che prima insegnavano marxismo.
Tuttavia peralcuni degli intellettuali più acuti, che chiedono di non essere nominati, questo processo di ripartenza chiede un ripensamento radicale della guerra, privo di sentimentalismi e purgato di ogni forma di moralismo. Gli oltre 100.000 morti degli anni ’92-’95, e le divisioni tuttora laceranti che zavorrano il Paese chiedono di lasciare spazio a una riflessione leale che guardi alla guerra anche come a una forza effettiva che, investendo la Bosnia Erzegovina, ne ha mutato i connotati assegnandole una nuova identità collettiva. C’è perfino chi ha cambiato il proprio nome di battesimo, dopo la guerra, per l’urgenza di ripensarsi in modo radicalmente nuovo. E non è un’invenzione. Parla l’anagrafe. Alla guerra non si sfugge, neppure vent’anni dopo la firma della pace. Per rigenerarsi e guadagnarsi il suo futuro, la Bosnia Erzegovina deve prima liberare il suo passato.