Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba
Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:04:17
Salvo clamorose sorprese, immaginiamo che da domenica si parlerà soltanto di calcio. Prima che ciò avvenga, è il momento giusto per fermarsi e analizzare l’avvicinamento al mondiale in Qatar, che terminerà il 18 novembre, giorno della festa nazionale del Paese. Siamo arrivati a questo appuntamento tra polemiche e casi spinosi. Oltre alle questioni prettamente calcistiche, come la scelta di fermare i campionati per giocare un mondiale in inverno per la prima volta nella storia, le polemiche hanno riguardato principalmente la sicurezza dei lavoratori impegnati nella costruzione delle infrastrutture e il (mancato) rispetto dei diritti umani nel Paese. Il presidente della FIFA Gianni Infantino ha invitato, con una lettera inviata alle nazioni partecipanti, a concentrarsi solo sul calcio, e a «evitare che lo sport sia trascinato in ogni battaglia ideologica o politica esistente». Se da un lato il richiamo di Infantino può essere comprensibile, dall’altro va riconosciuto che non è facile seguire il suo consiglio dal momento in cui quasi quotidianamente emerge un nuovo motivo di dibattito. Quello dell’ultima ora riguarda la decisione di vietare la vendita di birra agli stadi e nei loro dintorni durante le partite, ciò che crea un grosso problema alla FIFA visto che uno dei principali sponsor della rassegna iridata è il produttore di birra Budweiser (c’è in ballo un contratto da 75 milioni di euro). Prima di questa notizia, c’era stata quella che ha coinvolto una troupe televisiva danese, interrotta e minacciata dalla sicurezza qatariota durante una diretta. A poco sono valse le scuse fornite dal Comitato Supremo del Qatar: la troupe ha poi ripreso a svolgere il suo lavoro, ma ormai il danno era fatto: la natura autoritaria del sistema era ormai stata messa in evidenza. Prima ancora era stato il turno della app sviluppata appositamente per i mondiali dal Qatar: diverse autorità statali europee hanno avvisato i fan diretti verso l’Emirato di non scaricarla, perché porrebbe gravi rischi alla privacy ed esporrebbe dati sensibili al tracciamento da parte delle autorità del Paese.
I lunghi mesi che hanno preceduto il mondiale hanno portato alla luce le tensioni che si creano quando un «emirato musulmano conservatore che limita il consumo dell’alcol, vieta le droghe e sopprime la libertà di parola», così l’Associated Press ha definito il Qatar, si appresta a ricevere un grande numero di stranieri, tra cui moltissimi occidentali, i quali soggiorneranno nel Paese per un periodo di tempo limitato a una competizione che è, anche, un grandissimo evento mondano. Nella già citata lettera di Infantino, la FIFA ha ribadito che tutti sono benvenuti ad assistere alla competizione, indipendentemente da razza, religione, orientamento sessuale. D’altro canto, però, è inevitabile la contraddizione tra questa apertura e la situazione nell’Emirato, come si evince da quanto affermato da un cittadino del Qatar intervistato da AP: «la nostra religione e i nostri costumi proibiscono i comportamenti e l’abbigliamento indecenti. È normale che ci preoccupiamo quando vediamo questo tipo di persone [riferito ad artisti e modelle]». In fondo, si tratta della tensione che naturalmente si crea in un Paese che «guarda all’Occidente per ispirazione, ma subisce pressioni dall’interno per rimanere fedele al suo patrimonio islamico e alle radici beduine». Pressioni che sono descritte in maniera efficace da una persona omosessuale che, in forma anonima, ha descritto su Doha News qual è la condizione in cui è costretto a vivere nel Paese, nascondendo il proprio orientamento sessuale pena il rischio per la propria vita.
Un altro aspetto su cui i Mondiali hanno gettato la luce è quello «dell’esercito di lavoratori [stranieri] che hanno ridisegnato il Qatar nello scorso decennio, di un sistema che sfrutta il loro lavoro e la loro disperazione e che è costato la vita a migliaia di essi», ha scritto il New York Times. La maggior parte dei lavoratori che hanno costruito le infrastrutture qatarine che vedremo in questo mese in televisione arriva dal Nepal, un Paese nel quale gli espatriati sono l’85% della popolazione. Secondo il quotidiano americano è impossibile tenere il conto di quanti lavoratori operai abbiano perso la vita durante i lavori, perché «centinaia tra coloro che rientrano [in Nepal] nelle bare sono catalogati come “morti naturali” e non viene eseguita alcuna autopsia». L’altra faccia della medaglia è l’importanza che tali migranti ricoprono per il Nepal stesso, che quindi ha tutto l’interesse affinché la pratica continui: un quarto del PIL annuale del Paese proviene dalle rimesse degli espatriati. Sempre il New York Times, tuttavia, ospita la riflessione dello storico Abdullah Al-Arian, il quale ha argomentato come il mondiale 2022 possa essere una grande occasione per tutti i Paesi e i fan del Medio Oriente.
Nonostante i problemi e i rischi che le luci della ribalta comportano, la manifestazione è una grande opportunità per lo sviluppo del Qatar. Come ha ricordato Kristian Coates Ulrichsen su Gulf State Analytics «lo sport, insieme alla diplomazia, alla mediazione, ad al-Jazeera e a iniziative educative, è un pilastro chiave dei tentativi del Qatar di presentarsi e di raccontarsi al mondo». È a questo scopo che sono funzionali scelte come l’acquisizione del Paris Saint Germain, la sponsorizzazione del Barcellona, e l’organizzazione di altri eventi sportivi internazionali. Come dicevamo, però, i rischi, non mancano. Doha punta a rafforzare «la reputazione del Paese e diventare un hub diplomatico» ma questo è un esito, ha scritto Cinzia Bianco sul sito dello European Council on Foreign Relations, tutt’altro che scontato. I mondiali sono costati al Qatar oltre 200 miliardi di dollari, circa 20 volte quanto speso dalla Russia nel 2018, ma agli occhi della casa regnante essi sono «l’apice di una strategia di anni per accumulare soft power e prestigio internazionale, due monete estremamente preziose per una piccola nazione in una regione così volatile e instabile» come il Golfo Persico. Per ora, però, l’obiettivo è mancato: i mondiali di calcio hanno soltanto messo in luce le contraddizioni del Qatar. Vedremo come finirà.
In Iran brucia l’eredità di Khomeini
Le proteste in Iran hanno preso nuovo slancio. La notizia di venerdì 18 è che i manifestanti hanno dato alle fiamme la casa natale dell’Ayatollah Ruollah Khomeini, fondatore della Repubblica Islamica. Sono passate «10 settimane dall’uccisione di Mahsa Amini, e non c’è segno che le proteste si fermino. Al contrario stanno diventando più organizzate e guadagnando slancio», ha detto a Newsweek Roham Alvandi, professore alla London School of Economics and Political Science. Secondo Alvandi, oggi la Repubblica Islamica si regge soltanto sulla forza della coercizione ma, come dimostrato dal rogo alla casa-museo di Khomeini, non è più in grado di proteggere i suoi simboli. Ciononostante, ogni settimana che passa la repressione si fa sempre più dura: come mostrato da diversi video la polizia iraniana ha fatto irruzione nella metropolitana di Teheran, dove ha aperto il fuoco contro la folla e bastonato le donne che non indossavano correttamente il velo. Ciò è avvenuto nonostante la polizia religiosa, che ha comunque riaffermato di non voler fare alcun passo indietro riguardo all’obbligatorietà dell’hijab, abbia comunicato ai corpi paramilitari basiji di non occuparsi dell’applicazione della legge relativa all’abbigliamento femminile.
Anche se, come ha ricordato il Wall Street Journal, i negozianti del Grande bazaar di Teheran hanno chiuso i loro negozi e in alcuni settori (come in quello siderurgico) si sono verificati degli scioperi, i manifestanti non sono finora riusciti a bloccare l’economia iraniana. Per questo, e per l’assenza di scioperi generali, Sanam Vakil (Chatham House) ritiene che sia ancora presto per pensare alla caduta del regime sorto dalla Rivoluzione del 1979. «Non abbiamo osservato gravi divisioni all’interno dell’establishment politico, e non abbiamo nemmeno visto una mobilitazione politica di massa nella maniera in cui l’abbiamo notata nel 2009», ha detto Vakil. Questi fattori, congiuntamente agli scioperi, «sono importanti per creare un «impeto rivoluzionario, e non soltanto uno slancio contestatario all’interno del Paese». Shahir Shahidsaless su Middle East Eye ha sottolineato che «per avere successo il movimento necessita di un leader popolare che mobiliti, unifichi, dia una direzione e in definitiva riempia il vuoto di potere» che si creerebbe qualora il regime collassasse. Ma lo Stato in Iran – ha proseguito Vakil – continua a mantenere il monopolio della forza e della ricchezza, e userà entrambi questi strumenti per attuare la repressione e sostenere la permanenza al potere. In questo, anche le autorità giudiziarie giocano la loro parte: in settimana era circolata una notizia, rivelatasi poi una vera e propria fake news (diffusa peraltro anche dal premier canadese Trudeau), secondo cui 15.000 manifestanti sarebbero stati condannati a morte. Secondo al-Jazeera 15.000 è invece il numero delle persone arrestate. Come però ha scritto sul suo sito l’emittente qatariota, le autorità giudiziarie iraniane hanno effettivamente diramato le prime condanne a morte nei confronti di persone coinvolte nelle proteste. Secondo il Washington Post sono cinque le persone finora condannate alla pena capitale per aver «mosso guerra contro Dio».
La persistente presa sul potere delle autorità non ha impedito però che qualcosa di nuovo emergesse in questi due mesi in Iran. Nel Paese il governo ha avuto buon gioco nell’evitare che le spinte indipendentiste curde e del Balochistan si saldassero e solidarizzassero tra loro. Secondo Paymon Azmoudeh (New Lines Magazine) questo è precisamente ciò che sta invece accadendo ora: la protesta travalica i tipici gruppi di appartenenza. Così, baluci, curdi e diverse minoranze non persiane si uniscono contro le autorità della Repubblica Islamica, con il sostegno «senza precedenti» da parte dei «centri etnicamente persiani». Si tratta di un modo attraverso cui il pluralismo prende piede nel Paese, ha scritto Azmoudeh.
Attentato in Turchia
Domenica scorsa un attentato ha scosso Istanbul: una bomba è detonata all’ora di punta nella İstiklal Caddesi, non lontano da piazza Taksim, uccidendo sei persone. La zona pedonale, ricca di negozi, bar e ristoranti, era già stata teatro di un attentato che aveva ucciso cinque persone nel marzo 2016. È per questo motivo che Soner Cagaptay (Washington Institute for Near East Policy) ha affermato che quanto avvenuto, a prescindere da chi sia il responsabile, «è il primo attacco in sei anni [e fa riaffiorare] le terribili memorie del periodo 2015-2016, quando centinaia di persone morirono in tutta la Turchia».
Subito dopo l’attacco le autorità hanno imposto un blocco delle comunicazioni. Le prime informazioni sono giunte dal ministro della Giustizia turco Bekir Bozdağ, il quale ha evidenziato che l’esplosione è avvenuta dopo l’allontanamento di una donna dall’area, dove era rimasta seduta su una panchina per circa 45 minuti. Lunedì il ministro degli Interni di Ankara, Süleyman Soylu, ha affermato che l’attentato è stato pianificato nel nord della Siria dal gruppo terrorista curdo del PKK e dal gruppo YPG, parzialmente connesso al primo e sostenuto dagli Stati Uniti nella lotta contro Isis. Nonostante le affermazioni di Soylu, proprio Isis non è in realtà escluso dalla lista dei potenziali responsabili dell’attacco, come confermato da alcuni funzionari turchi interpellati da Reuters.
Soylu ha poi rispedito al mittente le condoglianze americane, paragonate «all’assassino che per primo arriva sulla scena del crimine». Tuttavia, nessuno ha rivendicato l’attentato e anzi il PKK ha negato ogni coinvolgimento, richiamando l’attenzione sul fatto che non è prassi del gruppo curdo attaccare aree civili. Tuttavia, nella giornata di lunedì la polizia ha arrestato la persona sospettata, una donna siriana di nome Ahlam Albashir (qui il video del blitz della polizia), che ha confessato di essere una militante del PKK e di essere entrata illegalmente in Turchia dalla provincia siriana di Afrin. Secondo Fabriche Balance, quanto avvenuto è il pretesto perfetto per Erdoğan per lanciare un’offensiva nella zona di Kobane (favorita dal fatto che la Russia, impegnata in Ucraina, ha visto decrescere la sua capacità di impedire azioni militari in Siria). Kobane, oltre a essere un simbolo delle vittorie curde contro l’Isis, è anche «il ponte di cui Erdoğan ha bisogno per collegare le due parti di Siria del nord che già occupa». Questo gli permetterebbe di ricollocare migliaia di siriani in queste aree al posto dei curdi, «come già avvenuto ad Afrin e Ras al-Ain». Secondo Reuters Ankara starebbe effettivamente preparando un’incursione nel nord della Siria.
L’attentato avrà effetti parzialmente differenti a seconda che si riveli un fatto isolato o che invece sia il preludio di una scia di sangue. A livello interno turco, Ali Kucukgocmen ed Ece Toksabay hanno evidenziato come «in ogni caso, [l’attentato] permetta a Erdoğan di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica da un’inflazione all’85% a una questione [quella della sicurezza, NdR] che ha pagato ai suoi dividendi politici in passato». Un’opinione simile è stata espressa anche da Cagaptay, il quale ha scritto che dovremo aspettarci «un indurimento dell’elettorato di destra» e che «chiunque si presenti come un candidato per la sicurezza e contro il terrorismo possa consolidare la propria base». Emre Peker (Eurasia Group) ritiene probabile che il governo turco adotti una posizione più dura nei confronti dell’opposizione (Devlet Bahceli, leader del partito nazionalista MHP al governo insieme a Erdoğan, ha già attaccato la «spie che camminano tra noi») e che rafforzi le proprie campagne anti-terrorismo.
Il Qatar in diretta Mondiale
Rassegna dalla stampa araba a cura di Mauro Primavera
Mancano ormai poche ore all’inizio del mondiale di calcio FIFA in Qatar. L’evento, va detto, è senza precedenti sotto molti aspetti: è la prima volta che il torneo viene organizzato da un Paese arabo, musulmano e mediorientale, così come è la prima volta che si disputa nell’emisfero settentrionale durante la stagione autunnale. Come prevedibile, il Paese ospitante è impegnato in questi giorni in una vasta campagna autopromozionale volta a celebrare al massimo la manifestazione sportiva e, al contempo, a silenziare le numerose critiche mosse della stampa internazionale: dalle presunte tangenti per l’assegnazione dell’evento nel 2010 al mancato rispetto dei diritti umani, soprattutto in riferimento alle difficili condizioni lavorative degli operai che hanno costruito gli stadi, fino ad arrivare alle recenti dichiarazioni omofobe pronunciate dall’ambasciatore qatariota dei mondiali Khalid Salman.
Al-‘Arabi al-Jadid, testata panaraba di proprietà di una società qatariota, cerca di demolire le accuse. Queste sarebbero mosse non dalle società occidentali, che guardano l’evento «con interesse ed entusiasmo», quanto dall’«Occidente politico» da cui, però, «abbiamo sentito appena una sola voce levarsi contro il Qatar, che peraltro si è subito acquietata». Il riferimento riguarda le dichiarazioni della ministra degli interni tedesca, la socialdemocratica Nancy Faeser, che aveva criticato il Paese per il mancato rispetto dei diritti umani, provocando un incidente diplomatico tra Berlino e Doha. La questione si è presto chiusa grazie alla visita della stessa Faeser nella capitale dell’emirato: la ministra ha infatti rilasciato «dichiarazioni positive sulle capacità organizzative e dei grandi sforzi del Qatar in accordo con il diritto e i trattati internazionali». Le critiche sarebbero quindi frutto di campagne mediatiche volte a «destabilizzare gli Stati, seminare discordia tra i figli dello stesso popolo». Tuttavia, conclude il giornale, questa ostilità «non avrà effetti: […] questa Coppa del mondo entrerà nella storia ammutolendo le voci dell’informazione “mercantile” occidentale» e promuovendo, invece, «un messaggio di pace e amore al mondo, la migliore prova di legittimazione di questo spazio di civiltà arabo-islamica».
Anche al-Quds al-‘Arabi, altro giornale panarabo legato al Qatar, segue la stessa linea in un articolo dal titolo “l’ipocrisia dell’Occidente: quando i principi vengono cambiati come i calzini!”: «quando nel 2018 la Russia ha ospitato il torneo, la comunità internazionale, e soprattutto quella occidentale, non si è mossa per parlare della questione democratica di quel Paese […] con Qatar 2022 le cose sembrano completamente diverse […] è interessante come il contenuto delle accuse sia noto da anni; gli Stati che hanno accusato il Paese della violazione dei diritti umani avrebbero potuto ritirare le loro squadre già all’inizio della fase delle qualificazioni».
Passiamo alla stampa nazionale qatariota. Le prime pagine di al-Watan, uno dei più diffusi quotidiani del Paese, presentano copertine dai colori sgargianti e con titoli a effetto, come «il Qatar brilla», frase che campeggia a caratteri cubitali sulla prima pagina del 12 novembre. Appena sotto la scritta compare un trafiletto in cui si esalta la legislazione che «tutela gli operai» al punto da rendere il Paese «all’avanguardia nella difesa» del lavoro e dell’ambiente, ricevendo «apprezzamenti a livello internazionale nel campo dei diritti umani». Due giorni dopo il giornale titola a tutto campo: «gli operai del Qatar: “viviamo una vita dignitosa”»; segue inserto speciale con le dichiarazioni degli addetti alla costruzione degli stadi: «chi parla di noi mente!». Secondo l’articolo, infatti, «fin dal primo giorno in cui il Qatar ha ottenuto l’organizzazione del mondiale 2022, non si è mai arrestata la campagna di disinformazione che, sfruttando questo argomento, ha messo in giro false accuse».
La verità per al-Watan sarebbe ben diversa: lo sviluppo economico e l’evoluzione legislativa ha spinto «le autorità ad abolire sia il precedente sistema della kafāla – una sorta di patronato che garantiva allo Stato un’enorme quantità di manodopera estera a basso costo, priva di tutele e di diritti fondamentali – che i permessi per uscire dal Paese, permettendo agli impiegati di cambiare lavoro senza dover richiedere al loro datore il nulla osta». Queste misure, riepilogate in infografiche dalle tonalità pastello, avrebbero migliorato sensibilmente le condizioni dei manovali, i quali si dicono pienamente soddisfatti ed entusiasti dei loro contratti e delle loro mansioni. Non manca, poi, l’elenco dei politici che hanno sostenuto (e difeso) pubblicamente l’evento: tra i personaggi più importanti spiccano Recep Tayyip Erdoğan, Vladimir Putin, Xi Jinping, il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune, re ‘Abd Allah di Giordania e persino l’ex presidente francese Nicholas Sarkozy.
Il torneo è quindi visto come il grande riscatto di un Paese che, fino a pochi decenni fa, aveva scarso peso sia in ambito geopolitico che sportivo. Un pensiero, questo, riassunto nelle parole di Mustafa Uthman Isma‘il al-Amin in un commento per al-Sharq: «con l’organizzazione della Coppa del mondo Doha non sarà soltanto la capitale dello sport, ma anche la capitale della pace, della cultura, delle arti e della diplomazia nel suo senso più ampio e generale; il successo del Qatar nel gestire la diversità culturale e nell’affrontare in modo consapevole queste dimensioni non offusca il successo delle sue infrastrutture e della sua attenta organizzazione». Oltre al rafforzamento del soft power, appare evidente l’ambizione sportiva di coltivare futuri talenti provenienti dai vivai locali e di rendere popolari i valori dell’Islam nel resto del mondo attraverso il calcio. Per la verità, scrive Mohammed ‘Abd al-Ja‘fari sempre sul al-Sharq, una «stella musulmana» del pallone esiste già e si chiama Mohammed Salah, l’attaccante del Liverpool capace, grazie ai suoi gol, di sfatare i pregiudizi che ancora alimentano l’islamofobia in Europa.
Più discreta, almeno per il momento, la copertura dell’evento di al-Jazeera che, forse in ragione della sua fama di emittente di informazione politica internazionale, ha preferito relegare le notizie sportive in una defilata, sebbene ricca, sezione dedicata. Fa eccezione il messaggio di auguri e congratulazioni espresso dal sovrano di Dubai Mohammed bin Rashid Al Maktoum, che compare subito dopo le notizie di cronaca della pagina principale del sito.
Una fatwa alquanto fatua
Sta facendo discutere la fatwa n. 51 emanata l’11 novembre dal Majlis al-Ifta’ siriano, dipendente dal Consiglio Islamico Siriano, che rispondeva alla domanda se fosse ancora lecito, dal punto di vista del diritto islamico, autorizzare l’esodo di profughi verso l’Europa attraverso il Mediterraneo, considerato il recente aumento degli incidenti in mare. La risposta dei giurisperiti ha stabilito che «non è permesso abbandonare anime innocenti esponendole al pericolo dei naufragi» o dell’affondamento degli scafi, visto che le rotte marine sono «viaggi insicuri» che umiliano la dignità delle persone; chi autorizza o chi organizza il trasporto dei migranti sarebbe quindi un «peccatore» che si macchierebbe del reato di «concorso di colpa».
Al-Quds al-‘Arabi cita la fatwa come monito per riportare l’attenzione dell’opinione pubblica sul grave problema della sicurezza del “Mar Mortiterraneo” (traduciamo così il titolo originale dell’articolo bahr al-mawt al-mutawassit, letteralmente il mare mediterraneo della morte, invece del nome con cui il Mare Nostrum è conosciuto in arabo, al-bahr al-abyad al-mutawassit, “Mar Bianco Mediterraneo”).
La fatwa ha però suscitato molte polemiche sui social media, come riportano i siti Orient News e al-‘Arabi.com. Al-‘Arabi 21 evidenzia, intervistando alcuni analisti siriani, come i problemi principali siano due: la tempistica, dal momento che il Majlis si è espresso sull’onda degli ultimi avvenimenti; la posizione idealista e irrealista dei giurisperiti, che non hanno considerato la «mancanza di alternative» per i profughi levantini, visto che il conflitto non è ancora concluso e gran parte del Paese è devastato e sotto il controllo di molteplici milizie e attori non statuali. «Non c’è dubbio – afferma il ricercatore siriano Sajid al-Hamawi – che la fatwa possa essere bollata come irrealistica», anche se il testo affronta la questione «in senso generale» e spetta agli ulema «fornire specificazioni in base ai tempi e alle circostanze».
Al-Jazeera dedica alla questione una lunga analisi, scritta da Mu‘ataz al-Khatib, professore di filosofia etica alla facoltà di studi islamici dell’università Hamad bin Khalifa di Doha. Gli «aspetti problematici» sarebbero addirittura sei: confusione tra “giudizio” e fatwa; errore nella formulazione della domanda, che condiziona l’esito della risposta; mancanza di chiarimento su modalità e scopi delle migrazioni; assenza di chiarezza dell’espressione «viaggi insicuri»; fallacia metodologica, visto che il testo affronta la questione partendo dal particolare per arrivare all’assunto generale.