Nato a Tunisi e arrivato un po’ per caso a Lecce, nella moschea della città salentina Saifeddine Maaroufi ha messo a frutto il suo desiderio di conoscere, studiare e comunicare l’Islam

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:25

L’intervista, a cura di Viviana Schiavo, fa parte della serie “Voci dell’Islam italiano”, realizzata nell’ambito del progetto “L’Islam in Italia. Un’identità in formazione”.

 

 

Qual è il suo percorso di formazione?

 

Vengo dalla Tunisia e sono nato e cresciuto in una famiglia religiosa. Ho frequentato il kuttāb, la scuola coranica, ma contemporaneamente ho iniziato la scuola primaria dalle suore e così ho avuto un confronto con il mondo cattolico sin da piccolo. Le suore non ci facevano catechismo ovviamente; si seguiva il programma nazionale tunisino per quanto riguarda la lingua araba, ma da subito ho studiato anche il francese. In seguito ho partecipato privatamente a dei corsi di teologia. A causa delle scelte del primo presidente della Tunisia, Habib Bourguiba, ci siamo infatti trovati in un Paese in cui le donne non potevano portare il velo e dove non era più possibile seguire i corsi di teologia alla grande università al-Zaytūna, la più grande moschea di Tunisi. Ma la popolazione non si è rassegnata e gli esperti della religione islamica hanno continuato a insegnare. Ho così avuto la possibilità di studiare per diversi anni in privato con dei sapienti della Zaytūna: giurisprudenza, dottrina e purificazione. Parallelamente, mi sono iscritto alla facoltà di medicina di Tunisi, laureandomi nel 2008. Ma già nel 2001 avevo iniziato un percorso di predicazione e studio in India, in Marocco e in diversi altri luoghi. Mi sono anche iscritto a una scuola di scienze di recitazione del Corano. Non avevo in mente di diventare un imam, perché, nelle società musulmane, questa è sì una figura di riferimento nel quartiere, una persona alla quale ci si può rivolgere per chiedere informazioni religiose, ma nulla di più. A me interessava conoscere perfettamente l’Islam, praticarlo in modo corretto e poter predicare, girando il mondo e insegnandolo alla gente.

 

 

C’è una corrente all’interno del mondo islamico in cui si riconosce particolarmente, sia a livello di scuola teologica o scuola giuridica o a livello di movimenti transnazionali?

 

Sì, io avuto una formazione che, come quella impartita dai grandi centri d’insegnamento, (al-Azhar, la Zaytūna, etc.) riguarda tre ambiti: la giurisprudenza, nel mio caso quella malikita, la ‘aqīda, il credo islamico, in questo caso quello ash’arita, e la tazkiya, la purificazione, cioè tasawwuf, il sufismo. Non uso il termine “sufismo” perché questo dà luogo a delle incomprensioni. Nella mente di diverse persone, il sufismo è visto come un ramo parallelo all’Islam che si pratica nel quotidiano, mentre la tazkiya deve far parte della vita di ogni musulmano. A generare queste confusioni son pratiche particolari adottate da qualche tarīqa (ordine sufi, NdR), come dedicarsi a una vita monacale in cui le azioni e le attività di un gruppo, fatte da canti e balli, possono essere viste come estranee all’Islam tradizionale. La purificazione deve essere presente, ma non deve eccedere, né oscurare il resto. Io attualmente seguo la scuola della Ba’lawiyya, i cui membri più famosi sono ‘Umar bin Hāfiz (n. 1963) e ‘Alī Al-Jifrī (n. 1971), due discendenti della famiglia del Profeta che provengono dalla città di Tarim nella regione dell’Hadramawt, nell’odierno Yemen. Sebbene siano di scuola giuridica shafi’ita, sono comunque ash’ariti e si concentrano soprattutto sulla tazkiya. La loro famiglia secoli fa è stata la prima a introdurre l’Islam nel Sud-Est asiatico, in Paesi come l’Indonesia e la Malesia, e nel Corno d’Africa, a Zanzibar e in Kenya. L’Islam di questi Paesi deve tanto a queste persone: nelle zone che ho nominato non c’è mai stata una battaglia o una guerra e i musulmani non sono mai stati visti come invasori, ma hanno predicato la fede con il buon comportamento. Tutt’oggi i Ba’alawi continuano a lavorare in questo ambito di predicazione e di educazione dell’anima.

Come movimento sono inoltre vicino al Tabligh Eddawa (Tablīgh al-da’wa), un gruppo presente in varie parti del mondo.

 

 

Per quanto riguarda il movimento Tabligh Eddawa, nella vita quotidiana lei segue il metodo di Muhammad Ilyās, il fondatore del movimento?

 

Ho praticato gli insegnamenti dello shaykh Muhammad Ilyās al-Kāndhlawī per diverso tempo: parlare con almeno 25 persone al giorno, invitare alla fede e ricordare la pratica e i sei principi della vita, recitare la professione di fede, ravvivare la Sunna del Profeta, mantenere la preghiera negli orari previsti, il ricordo di Allah, l’essere generosi nei confronti dell’altro e poi uscire “fī sabīl Allah (sulla via di Dio), quindi andare verso il prossimo. E l’ho fatto in diversi Paesi: in Marocco e India per più di un mese, in Tunisia per quattro. Ma prima della rivoluzione questo tipo di attività era ostacolata dal governo. Ho fatto quindi tre sessioni da quaranta giorni invece di quattro mesi consecutivi. Sono stato anche il responsabile del gruppo Tabligh nel quartiere in cui vivevo.

 

 

Ora non lo fa più?

 

Non posso più farlo per via dei miei impegni, legati alla moschea o alla famiglia. In Tunisia avevo il supporto della famiglia allargata. Da quando sono venuto in Italia invece siamo molto isolati, non abbiamo altri parenti qui. Il supporto della comunità esiste ma è relativo, non è come avere la sorella che sta con la moglie e i bambini. Poi ci sono gli impegni lavorativi: in passato potevo prendere ferie per diversi mesi oppure interrompere, perché gestivo io la mia vita professionale, e questo mi permetteva di fare anche lunghe trasferte. In Italia continuo a partecipare a incontri di livello nazionale ogni anno, a Roma, Bologna, Napoli, a partecipare alla mashwara (Consultazione, NdR) e a fare diverse volte uscite di tre giorni nel territorio del Salento. Però ho difficoltà a farlo per un periodo più lungo, ma spero quanto prima, se ci sarà la possibilità, di ricominciare a farlo.

 

 

Come è diventato imam a Lecce?

 

Dopo la laurea in medicina mi sono sposato e avevo quindi bisogno di provvedere alla famiglia. Ho trovato lavoro in una società che si occupava di telefonia e gestiva call center con diverse sedi in Italia. Come la maggior parte delle persone della mia generazione, in Tunisia avevo imparato un po’ d’italiano perché da bambino vedevo Rai1: Sanremo, lo Zecchino d’Oro... Dopo pochi mesi come telefonista sono diventato responsabile di gruppo e poi formatore nella sede di Lecce. Sono arrivato con l’intenzione di ritornare in Tunisia, ma la rivoluzione ha cambiato i miei piani. Sotto il regime di Ben Ali, ero stato schedato come persona religiosa a causa della mia barba e del velo di mia moglie: per questo ho sempre avuto problemi a spostarmi liberamente e dovevo chiedere autorizzazioni particolari al ministero dell’Interno. Ho perciò preferito rimanere in Italia, perché temevo che nel caos post-rivoluzionario le segnalazioni di cui ero stato oggetto in passato potessero bloccarmi in Tunisia. All’inizio ero un po’ isolato, ma dopo alcuni mesi ho iniziato a conoscere le persone e venivo in moschea a pregare come tutti gli altri. Visto che parlavo italiano, mi sono proposto per tradurre le spiegazioni che sentivo in moschea sugli hadīth. Chi gestiva la comunità ha capito che avevo questa capacità e soprattutto ha scoperto che avevo studiato e che avevo alle spalle un’attività di predicazione in diversi Paesi. Così ho anche iniziato a fare il sermone del venerdì – una settimana io una settimana la persona che era imam prima di me. Quando nel 2012 questa persona ha lasciato il suo incarico, sono stato scelto dalla comunità per sostituirla. Da allora ho iniziato a essere coinvolto anche in varie attività con l’associazione “Dialogo”, tramite la quale sono stato invitato in numerose scuole e ho avuto l’opportunità di conoscere molti professori di religione. Inoltre, in moschea riceviamo le visite di diversi giovani, che vengono per vedere come si prega o per fare delle domande e così mi sono trovato a praticare questo ruolo in un modo molto più intenso, soprattutto dopo gli eventi internazionali degli ultimi anni. A mia volta ho coinvolto di più la comunità, aprendo le porte alla società italiana, per mostrare che non abbiamo nulla da nascondere.

 

 

Com’è nata la moschea di Lecce che Lei guida?

 

È nata circa cinque anni fa dopo una campagna di raccolta fondi in seguito a un evento inaspettato. La comunità islamica è presente a Lecce da molto prima della fondazione di questa moschea, che abbiamo chiamato masjid al-ghufrān, moschea del perdono. Era una comunità abbastanza attiva ma che non aveva fatto lo sforzo di creare il suo proprio luogo di culto. Utilizzava un locale dato in affitto dal comune in una zona che si chiamava 167, nell’area dei quartieri popolari. Un giorno, la precedente giunta comunale, per problemi economici ha deciso di vendere i locali in cui era stata allestita questa piccola moschea. Allora abbiamo capito che dovevamo muoverci, trovando una soluzione diversa, più grande e più vicina al centro. Molti fedeli in questa comunità non sono infatti automuniti, e il venerdì vedevamo tante persone, tanti giovani, arrivare a piedi dalla stazione alla sala di preghiera. Alcuni dovevano camminare un’ora. Abbiamo iniziato una campagna locale di raccolta fondi, per le prime spese, abbiamo individuato alcuni locali e abbiamo contattato diverse istituzioni e organizzazioni, tra cui l’UCOII [Unione delle comunità e organizzazioni islamiche d’Italia]. Grazie alla mediazione di quest’ultima abbiamo ricevuto una donazione da un’altra associazione. Con questi fondi, uniti a quelli della raccolta iniziale, siamo riusciti ad acquistare il locale da adibire moschea, che si trova in un quartiere chiamato Rione San Pio. È una zona abitata da una percentuale rilevante di musulmani, tra il 10 e il 20 per cento. Sono soprattutto senegalesi e marocchini e alcuni albanesi. Ma non siamo lontani dai quartieri dove abitano molti indiani, srilankesi, bengalesi. Negli ultimi 4/5 anni sono venuti anche diversi giovani pakistani. Inoltre la stazione è abbastanza vicina, 10-15 minuti a piedi, così il venerdì è diventato un momento di congregazione molto importante, al punto che la nuova sala non riesce a contenere tutti e dobbiamo usare anche il primo piano come sala di preghiera.

 

 

Dunque le persone che frequentano la moschea sono di nazionalità mista, non c’è una nazionalità prevalente.

 

Esatto, e neanche la gestione è legata a una sola nazionalità.

 

 

E al di là delle attività di preghiera, legate al culto, che altre attività svolgete?

 

L’associazione propone corsi di lingua araba sia per bambini che per adulti ed è impegnata con altre associazioni non islamiche nell’ambito del dialogo interreligioso, come l’associazione leccese “Dialogo”, che organizza incontri su tutte le tematiche possibili e immaginabili: sociali, culturali, ambientali… Io vi partecipo ufficialmente come imam e portavoce della nostra associazione, per presentare l’Islam alle persone. Soprattutto svolgiamo attività legate al bene comune, al vivere insieme: ad esempio abbiamo collaborato con la società che si occupa della raccolta differenziata per informare correttamente le persone su questo tema.

 

 

Organizzate anche attività di formazione più propriamente religiosa, invitando predicatori che arrivano da fuori?

 

A Lecce non abbiamo mai organizzato conferenze tenute da predicatori che vengono dall’estero, perché attualmente non ne vedo la richiesta da parte della comunità. Per gli adulti in moschea ogni giorno leggiamo e spieghiamo i detti del Profeta. Inoltre, per chi ha il desiderio di approfondire e studiare, organizziamo due sere a settimana un corso di giurisprudenza islamica, in particolare sugli aspetti relativi alla preghiera, alle abluzioni e alla purificazione. Il corso è in arabo e in italiano. I libri infatti sono scritti in arabo, ma vengono spiegati in italiano, che è la lingua con cui le persone comunicano tra loro. Per i bambini non c’è un corso di teologia. Durante il corso di arabo, ai bambini musulmani (che sono la stragrande maggioranza) si insegnano le ultime sure del Corano, che sono le più brevi, e si spiega come si fanno le abluzioni e la preghiera, in un modo molto più rilassato.

 

 

La moschea aderisce formalmente a una delle organizzazioni esistenti in Italia?

 

Sì, aderisce formalmente all’UCOII, che ci ha sostenuti quando si è trattato di acquistare i locali per creare la moschea. Per un po’ di tempo ho anche partecipato agli incontri dell’organizzazione e questo mi ha permesso di conoscere comunità islamiche molto diverse dalla nostra, che è molto modesta, molto piccola, fatta di gente molto semplice che non ha nulla. Alle assemblee dell’UCOII invece incontravo medici, professori, ingegneri, figli di italiani musulmani o immigrati qui. Tuttavia ciò che noi facciamo nella nostra moschea e il modo in cui la gestiamo dipende solo da noi, nessuno ce lo può imporre. Mantengo perciò buoni rapporti sia con l’UCOII che con la Confederazione Islamica, ma tengo all’indipendenza mia e della moschea. Per esempio, per l’inizio del Ramadan l’UCOII adotta il metodo del calcolo astronomico e quindi annuncia in anticipo le date di inizio e fine del digiuno, mentre io ho sempre seguito l’osservazione lunare. Non lo faccio per opposizione o per ostilità, ma per fedeltà alla teologia che ho studiato e a quello che dicono i sapienti che seguo.

 

A me fa soffrire che le diverse correnti dell’Islam non si accettino reciprocamente o che non collaborino per ragioni politiche. Tra l’altro, una delle cause per cui ancora non si è arrivati a un’Intesa tra lo Stato italiano e le organizzazioni musulmane è proprio l’esistenza di veti che impediscono ai diversi gruppi di unirsi. 

 

Per questo io tengo a preservare la mia neutralità e ad aiutare le persone a vivere una religione sana, libera da ogni influenza politica o ideologica. Non voglio che se in un determinato Paese cade il governo, subito la comunità entri in subbuglio o che nascano conflitti di natura politica. Se bombardano Gaza alcune persone sono prese dalla voglia di manifestare. Nella nostra comunità se ne parla in modo sereno, dicendo che si tratta di una cosa inaccettabile o che dobbiamo pregare. Ognuno deve agire secondo le sue capacità, ma l’Onnipotente è Dio: se vuoi andare oltre ogni limite e ogni forza rivolgiti a Lui e chiedigli giustizia o qualsiasi altra cosa. Ma tu da solo cosa potresti fare? Andare a spaccare le vetrine, a manifestare odio? È questo che crea il consenso della gente? Bisogna usare l’intelligenza nel comunicare le difficoltà e le sofferenze, che sia scrivendo o parlando. È un principio della fede islamica che chi vede un male deve rimediarvi con la propria mano, se non ci riesce deve farlo con la propria lingua, e se neanche questo è possibile deve farlo col proprio cuore. Non si corregge un male con un male uguale o maggiore.

 

 

Le grandi organizzazioni islamiche italiane fanno riferimento ad alcuni organismi europei. Per esempio l’UCOII segue in particolare il Consiglio Europeo per la Fatwa e la Ricerca, mentre la Confederazione islamica italiana guarda al Consiglio Europeo degli Ulema Marocchini. Quali sono i suoi punti di riferimento?

 

Per me sono la Zaytūna di Tunisi e soprattutto al-Azhar. La Zaytūna è la scuola dove ho studiato, ma non ha ripreso le sue normali attività nemmeno dopo la rivoluzione, e il mio riferimento principale è dunque al-Azhar. So che questo crea tensioni, perché ufficialmente al-Azhar è un organo dello Stato egiziano, e dopo il colpo di Stato che ha deposto il presidente Morsi, eletto democraticamente, c’è un odio non nascosto verso lo Stato egiziano e le sue istituzioni. A me dà fastidio che per divergenze politiche si rifiutino le dichiarazioni di un religioso, che non dovrebbe essere contaminato da queste cose. Perciò quando ad esempio il Grande Imam di al-Azhar, il dottor Ahmad al-Tayyeb, viene a Roma a visitare il Papa, lo si apostrofa come “l’Imam di al-Sisi”, cose che creano ancora più divisioni nella stessa società islamica occidentale.

 

 

E ci sono shaykh o ulema che per lei sono importanti, e dei quali tiene conto quando per esempio deve emettere una fatwa?

 

Premetto che non emetto fatwe perché non ho lo status di mufti. A seconda della situazione specifica, posso trasmettere la fatwa che un mufti ha emesso su un caso analogo a quello che mi viene sottoposto. Per quanto riguarda gli shaykh o gli ulema che per me sono particolarmente autorevoli, i primi che ho studiato sono i grandi rappresentanti della scuola malikita, a partire dall’Imam Malik. Poi al-Ghazālī, in particolare per quanto riguarda la purificazione dell’animo. Il suo Ihyā’ ‘ulūm al-dīn, “La rivivificazione delle scienze religiose”, ha contribuito a plasmare la mia forma mentis. In epoca moderna direi al-Habīb al-Jifrī e il suo maestro ‘Umar bin Hafīz, di cui ho già parlato prima. Chi ha familiarità con questi nomi penserà che sono tutti vicini al tasawwuf, al sufismo. Ma questi maestri sono stati e sono anche dei sapienti, dei teologi, delle guide, la cui riflessione è caratterizzata da una grande completezza, perché riguarda tutti gli aspetti della vita di un musulmano, individuali, comunitari, sociali. A questi aggiungo il nome di Sa’īd al-Kamalī, un grande sapiente marocchino, abbastanza giovane, specializzato nella scienza degli hadīth, che è stato anche invitato in Italia diverse volte a fare delle lezioni. Poi continuo a studiare e a seguire, avendo anche le registrazioni dei loro corsi, l’imam Sha’rāwī (1911-1998), il grande sapiente egiziano e l’ex mufti di Mecca, Muhammad ‘Alawi al-Maliki (1944-2004), un grande predicatore, che apparteneva alla scuola malikita e ash’arita ed era un discendente del profeta. Un’altra persona molto importante per me è lo shaykh ‘Abdallah bin Bayyah, per il lavoro che svolge a servizio della pace nel mondo e per l’importanza che attribuisce alle finalità (al-maqāsid) della religione islamica. Nell’Islam infatti l’obiettivo di una certa regola è altrettanto importante della regola stessa, e questo apre diverse possibilità. C’è un riformismo che va a creare una spaccatura con l’Islam tradizionale. Bin Bayyah no, lui trova un giusto equilibrio tra questi due elementi.

 

Non ho citato nomi di pensatori moderni che probabilmente le sarebbero stati menzionati da altre persone più vicine all’Islam politico, perché per me sono problematici. Credo infatti che il loro pensiero contenga i principi del takfīr (accusa di miscredenza, NdR), che permette di dichiarare “guerra” a un governo, di ribellarvisi. Già il principio stesso di ribellarsi contro i propri governanti nell’Islam è illecito. Non nel senso che non si debba criticare un governo, ma che è sbagliato scatenare una sedizione contro uno Stato in cui la società vive in pace, perché questo genera una guerra civile in cui viene meno la sicurezza delle persone. Quello che accade in Libia, in Siria, in diversi Paesi, è la conseguenza di questo “illecito”.

 

 

Politicamente come dovrebbe agire un musulmano?

 

È giusto che una persona desideri la libertà – io stesso mi trovo in Italia proprio per questa ragione – ma bisogna considerare i modi per raggiungerla: non si possono prendere le armi contro il proprio governo, pensare di fare come Davide contro Golia, senza essere Davide. Oggi c’è Golia ma non Davide, e così si crea il terrorismo. Per me non è un principio dell’Islam la creazione di uno Stato Islamico, o di uno Stato guidato da un califfo. Non è un principio di fede. Per altri movimenti, come Hizb al-Tahrīr, si tratta invece di un principio di fede. Come io dico «prega», «compi il digiuno» e «fa’ il pellegrinaggio», così loro dicono che bisogna creare uno Stato islamico. Ma né l’Islam né la teologia islamica lo prevedono. Qualsiasi governo in cui ci sia giustizia e siano rispettati i diritti degli individui, minoranze o maggioranze che siano, può essere accettato. Non c’è un governo halāl e altri governi harām. Per quanto mi riguarda, questi tipi di lettura, che sia per un califfato o per un governo islamico o fondamentalista, deviano dalla fede islamica.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

 

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