La disaffezione della popolazione iraniana nei confronti del regime, la crisi economica e il totale fallimento della strategia regionale spingono gli ayatollah verso il negoziato. Ma il destino della Repubblica Islamica non si decide a Teheran
Ultimo aggiornamento: 22/01/2025 12:00:06
Non è esagerato definire quello da poco concluso come l’annus horribilis della Repubblica Islamica dell’Iran. I prossimi anni, con l’inizio della seconda presidenza di Donald Trump, non promettono grandi miglioramenti. Fatto salvo che, considerata la «continua contraddizione come collaudato metodo di governo» del tycoon, ogni opzione, inclusa quella di una sorprendente ripresa della diplomazia, è sul tavolo. La figura scelta da Trump come responsabile della politica mediorientale del Pentagono, Michael P. DiMino, ha del resto già segnalato la sua contrarietà nei confronti di azioni militari che possano portare a un cambio di regime in Iran. Se guardiamo però agli ultimi mesi, quella che Teheran ha subito è una vera sconfitta strategica. Eppure, agli inizi di questi anni ’20 le premesse erano di tutt’altro segno: certo, il decennio era iniziato con la scioccante uccisione di Qassem Soleimani, ma nel 2021 i conservatori iraniani erano all’apice della loro potenza. Dopo due mandati del conservatore moderato Hassan Rouhani, che assieme al ministro degli Esteri Javad Zarif aveva aperto all’Occidente siglando gli accordi sul nucleare nel 2015 (JCPOA), il conservatore Ebrahim Raisi ottenne la carica di Presidente della Repubblica. Da quel momento, le forze più conservatrici hanno occupato tutti i posti chiave del nezam iraniano: dalla Guida Suprema Ali Khamenei, passando per lo stesso Raisi, il Parlamento, il Consiglio dei Guardiani, l’Assemblea degli Esperti e via dicendo. Il sistema politico aveva espulso anche tutte le figure che si riconoscevano nella Repubblica Islamica ma ne chiedevano una riforma dall’interno. Significativamente, l’elezione di Raisi fu “apparecchiata” proprio dal Consiglio dei Guardiani, che aveva preventivamente squalificato tutti i candidati che avrebbero avuto qualche minima chance di vittoria, portando il candidato preferito da Khamenei a ottenere una schiacciante vittoria con il 62% di preferenze, contro circa l’11% del secondo classificato (qui i dati). Poco importa(va) che votò solo il 48,8% degli aventi diritto e che, su quasi 29 milioni di schede compilate, oltre 4 milioni furono nulle. Con l’elezione di Raisi i due poli del sistema “duale” iraniano, composti dagli organi a legittimazione popolare (che spesso erano destinati a essere occupati dall’“opposizione” interna al sistema) e da quelli a legittimazione religiosa, sembravano allinearsi per sancire il dominio assoluto di conservatori e ultraconservatori.
A livello regionale, poi, l’influenza della Repubblica Islamica aveva raggiunto il suo zenith. Con un discreto grado di approssimazione, possiamo dire che attraverso le sue milizie Teheran era riuscita a ottenere il controllo di tre capitali arabe: Baghdad, Damasco e Beirut, a cui è forse opportuno aggiungere Sana‘a. Un successo che in buona parte era frutto di una strategia di lungo periodo (architettata proprio da Soleimani) e in parte derivava dalla capacità di capitalizzare gli errori dei propri avversari (su tutti l’eliminazione di Saddam Hussein da parte americana, che aprì la strada alla penetrazione iraniana dell’Iraq).
A livello interno le cose hanno iniziato a cambiare con le proteste scatenate dalla morte di Mahsa Amini nel settembre 2022, deceduta dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa. L’uccisione di Amini ha inaugurato un lungo periodo di proteste, duramente represse, durante il quale le rivendicazioni dei manifestanti non partivano da considerazioni puntuali di tipo socio-economico ma, contestando le norme sull’abbigliamento imposte dal regime, mettevano direttamente in discussione i principi cardine della Rivoluzione del 1979. Quelle manifestazioni furono una valvola attraverso cui trovò sfogo tutta quella parte di popolazione, numeri alla mano maggioritaria, che non si riconosce più nel sistema, ne festeggerebbe la caduta del regime, ma non è (ancora?) in grado di provocarla. Significativamente, fu proprio in seguito all’elezione di Raisi che venne posta maggior enfasi sull’attuazione delle norme sull’abbigliamento, ciò che, in ultima analisi, portò alla morte di Amini e allo scoppio delle proteste. La scomparsa di Raisi nel maggio 2024 offrì a Khamenei l’opportunità di correggere il tiro per salvaguardare la stabilità interna, permettendo a un candidato riformista come Masoud Pezeshkian di competere alle elezioni presidenziali.
Il fronte interno non è stata l’unica ragione per cui la Guida Suprema è stata costretta a rivedere alcune delle sue scelte. Dal 7 ottobre 2023, l’influenza faticosamente costruita nella regione è infatti andata in frantumi. I semi della fine del progetto iraniano in Medio Oriente vanno probabilmente cercati nell’uccisione di Soleimani nel 2020, ma per il colpo finale a Teheran non possono che incolpare Yahya Sinwar, il quale sperava di scatenare una guerra regionale che avrebbe visto la Repubblica Islamica impegnata direttamente al fianco di Hamas e Hezbollah. Non a caso subito dopo il brutale attacco di Hamas molti hanno pensato che il vero mandante fosse proprio l’Iran, pronto a provocare una guerra pur di interrompere il processo di avvicinamento tra Israele e Arabia Saudita. A più di un anno di distanza possiamo concludere che le opzioni sono due: o Yahya Sinwar ha agito seguendo la sua agenda, e non quella iraniana, oppure Teheran ha clamorosamente sbagliato i calcoli.
Fino a quel momento, infatti, la strategia iraniana poggiava su alcuni capisaldi. Il primo era quello della forward defense (difesa avanzata), che consisteva nel fare affidamento sui propri alleati regionali, statuali e non, per portare la minaccia più vicina ai propri nemici e scoraggiarli così dall’attaccare l’Iran. È in quest’ottica che il cosiddetto Asse della Resistenza era funzionale a una strategia di difesa-offesa: Houthi, Hezbollah, milizie sciite irachene e soprattutto la Siria di Bashar Assad erano parte della deterrenza della Repubblica Islamica, costantemente timorosa che un attacco dall’estero potesse non solo mettere in pericolo il proprio programma nucleare, ma portare una minaccia esistenziale al regime stesso. A differenza dell’esercito convenzionale (artesh), i Guardiani della Rivoluzione e in particolare le forze al-Quds comandate da Soleimani sono (erano?) deputate a questo compito. Così, l’Iran ha proiettato la sua influenza riuscendo a creare la cosiddetta “mezzaluna sciita”: un corridoio terrestre che, passando per Iraq, Siria e Libano, raggiungeva il Mediterraneo e consentiva a Teheran di far arrivare uomini e mezzi fino a Hezbollah, principale bastione della deterrenza iraniana a ridosso di Israele. Come ha recentemente scritto l’esperto di Iran Bernard Hourcade «i sogni di apertura verso il Mediterraneo avevano portato [gli iraniani] a dimenticare che il moderno Stato iraniano, edificato dai Safavidi nel XVI secolo, non era imperialista ma prima di tutto nazionalista, dedito alla protezione dei propri confini contro le forze ostili degli imperi ottomano, russo o britannico. La lotta contro un nemico globalizzato come gli Stati Uniti poteva giustificare la strategia della “difesa avanzata”, ma la forza al-Quds ha trasformato queste roccaforti lontane in sfide strategiche». La guerra scatenata da Israele in reazione alle mosse di Sinwar ha vanificato l’assunto iraniano di “niente guerra, niente pace”, che prevedeva una minaccia costante ma evitava gli attacchi diretti contro Israele, delegati invece ai proxies regionali. Le provocazioni israeliane, unite alla distruzione delle capacità operative di Hezbollah, all’impossibilità degli Houthi di portare una reale sfida a Israele e alla debolezza siriana (culminata col cambio di regime a cui Teheran ha assistito impotente) hanno portato l’Iran ad attaccare direttamente Israele nel tentativo di difendere il proprio territorio. Un tentativo nuovamente fallito, considerando gli elevati danni provocati dai bombardamenti israeliani, i cui più moderni aerei da combattimento hanno potuto neutralizzare le migliori batterie di difesa iraniane (di fabbricazione russa – Washington ringrazia). Finiti i sogni di proiezione della potenza regionale, all’Iran non resta che ripiegarsi all’interno per tentare di sopravvivere. Iran first direbbero a Washington.
Del resto, già durante il mandato di Raisi buona parte dell’establishment iraniano aveva compreso che la via dello scontro aperto con Israele, per di più sostenuto dalla potenza americana, andava evitato. La Guida Suprema ha maturato la stessa consapevolezza, evidenziata prima dalla luce verde alla candidatura di Pezeshkian, poi dall’assenso all’idea di quest’ultimo di volere un nuovo accordo sul nucleare con gli Stati Uniti. Al centro delle necessità iraniane c’è la rimozione delle sanzioni, che sono anche l’elemento che salda la dimensione interna e quella estera della crisi in cui è sprofondato il Paese: la crisi economica aggiunge tensione allo scenario socio-politico (tanto preoccupante che il Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale ha rinviato l’applicazione delle norme sul velo, nel timore di scatenare nuove proteste che non saprebbe gestire) e il modo più immediato per migliorare la situazione passa dalla rimozione delle sanzioni, che permetterebbe al Paese di fare affari con il resto del mondo. Per l’Iran, l’ingaggio diplomatico con l’Occidente ha una sola alternativa, che consiste nel ristabilire la deterrenza nei confronti di Israele e degli Stati Uniti. Venuta meno la mezzaluna sciita, l’unico modo per farlo è portare a compimento definitivo il programma nucleare e sviluppare la temuta bomba. È tuttavia probabile che una tale decisione, probabilmente individuata per tempo dalle intelligence occidentali, provocherebbe una reazione militare prima ancora che Teheran possa raggiungere i suoi obiettivi. Insomma, all’Iran non resta che sperare nel negoziato. Non dev’essere piacevole sapere che la decisione sarà presa a Washington e Gerusalemme, indipendentemente da ciò che desidera – in buona o cattiva fede – la Repubblica Islamica. Nell’attesa, ecco un motivo in più per stringere i suoi rapporti con la Russia, ma senza sapere quanto sia veramente possibile fidarsi di Mosca.
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