Un anno dopo lo scoppio della guerra a Gaza il conflitto si è allargato su scala regionale. Per molti mesi la Repubblica Islamica ha mantenuto un profilo basso, ma oggi il rischio di uno scontro diretto con Israele è concreto
Ultimo aggiornamento: 07/10/2024 15:06:38
Il 7 ottobre 2023 ha profondamente alterato gli equilibri del Medio Oriente, e le conseguenze dei tragici eventi di quella data sono ancora difficili da prevedere per l’intera regione. Quello che sembrava essere l’ennesimo episodio dello scontro israelo-palestinese si è rivelato un momento di rottura, segnando il passaggio da un Medio Oriente che, pur con le sue storture e disequilibri avevamo imparato a conoscere, a una regione dal futuro ignoto, verosimilmente più instabile.
Quella mattina, Hamas ha lanciato un attacco senza precedenti contro Israele, provocando la morte di oltre 1.200 persone e sequestrando più di 250 ostaggi. A seguito di questo attacco, il governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu ha reagito con una forza sproporzionata, avviando un’invasione di terra nella Striscia di Gaza che ha causato la fuga di migliaia di palestinesi verso il confine meridionale. I massicci bombardamenti delle forze di difesa israeliane (IDF) hanno colpito anche le infrastrutture civili, tra cui scuole e ospedali, e ostacolato l’arrivo degli aiuti umanitari ai civili palestinesi. Ad oggi, il bilancio delle vittime a Gaza continua ad aggravarsi assieme alla ingente crisi umanitaria. La stima è di oltre 40 mila vittime, di cui circa il 30% bambini.
Il fronte di guerra a Gaza, tuttavia, non sembra essere l’unico obiettivo dello Stato di Israele, dove continuano le proteste della società civile contro il governo in carica, accusato di prolungare il conflitto trascurando così la sorte dei 150 ostaggi rimasti nelle mani di Hamas. Nelle settimane successive al 7 ottobre è emerso in modo abbastanza evidente come Israele avesse un piano strategico-militare di maggiore portata. Non solo Netanyahu non ha mostrato interesse ad accogliere la richiesta internazionale di cessate il fuoco, ma ha dimostrato di voler espandere il conflitto nell’intera regione, mirando alle milizie libanesi di Hezbollah e, in via definitiva, alla Repubblica Islamica dell’Iran, con la quale ha un “conto in sospeso” dal 1979.
Mentre proseguiva l’intervento militare a Gaza, Israele ha condotto incursioni militari nel Sud del Libano e in Siria, lanciando attacchi mirati contro generali dei pasdaran iraniani e bombardando, a inizio aprile 2024, il consolato iraniano a Damasco. Al vertice di queste uccisioni mirate c’è stata quella del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, colpito proprio nella capitale iraniana, un’azione che ha fatto dubitare della capacità operativa dei servizi di intelligence iraniani. Alla luce della recente invasione di terra in Libano e delle ultime dichiarazioni del premier israeliano sembra sempre più realistica un’escalation a livello regionale. Nei raid israeliani su Beirut del 27 settembre è morto Hassan Nasrallah, trentennale guida del Partito di Dio libanese, e all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Netanyahu ha dichiarato che «nessun territorio in Medio Oriente è lontano», alludendo quindi alla possibilità di un attacco alla Repubblica Islamica. La crisi di Gaza sembra pertanto il pretesto o il contesto ideale per Israele per estendere il conflitto e giungere a un confronto con l’Iran. In questa fase, Israele possiede una forza militare e d’intelligence superiore, mentre l’Iran ha mostrato indirettamente le sue debolezze nei mesi scorsi, poiché non ha reagito subito alle provocazioni subìte.
Per scongiurare uno scontro diretto, la Repubblica Islamica ha mostrato per quasi tutto l’anno un atteggiamento moderato, cauto e pragmatico. Poche settimane dopo il 7 ottobre, la Guida Suprema Ali Khamenei ha dichiarato che Teheran non sarebbe intervenuta direttamente a fianco di Hamas. Questa dichiarazione evidenzia come l’Asse della Resistenza, guidato dall’Iran, sia strumentale per le forze che lo compongono, ma non implichi necessariamente azioni congiunte. Oltre alle dichiarazioni della Guida Suprema, la Repubblica Islamica ha agito in modo “razionale” dal punto di vista delle relazioni internazionali. Nonostante le uccisioni di pasdaran, Teheran non ha risposto con rappresaglie massicce, preferendo evitare azioni che avrebbero potuto innescare un’escalation. Questa cautela è legata alla sua inferiorità militare convenzionale, che rende rischioso un confronto diretto con Israele. Nel corso di quest’anno di conflitto a Gaza, l’Iran ha mantenuto un atteggiamento prudente, condannando le operazioni israeliane contro i civili palestinesi ma senza avere reazioni forti. Questo atteggiamento non nasconde però le diverse anime che popolano la Repubblica Islamica. Il complesso panorama politico riflette infatti correnti e punti di vista anche molto diversi tra loro. Una parte delle Guardie della Rivoluzione (o pasdaran) vorrebbe risposte più decise e un coinvolgimento maggiore, ma in definitiva ha prevalso l’approccio pragmatico per preservare la stabilità e la sopravvivenza del sistema. Lo stesso Khamenei ha dimostrato di privilegiare l’interesse nazionale rispetto alla tradizionale ostilità ideologica verso lo Stato di Israele.
La vulnerabilità iraniana rispetto a Israele è data da un insieme di fattori, sia di natura politica che economica, non soltanto all’inferiorità convenzionale militare. Durante questo anno, l’Iran ha dovuto affrontare l’inattesa transizione alla presidenza della Repubblica. Lo scorso maggio, la morte improvvisa del presidente in carica dal 2021 Ebrahim Raisi, vittima di un incidente aereo in patria, ha portato a elezioni anticipate che hanno visto la vittoria del candidato centrista Masoud Pezeshkian. Nel suo primo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite lo scorso settembre, Pezeshkian ha dichiarato che l’Iran non ha intenzione di lasciarsi coinvolgere in guerra con Israele ed è pronto a entrare «in una nuova era delle relazioni internazionali», privilegiando il dialogo e il confronto costruttivo, in cambio del rispetto e della riduzione delle sanzioni. È chiaro che un conflitto con Israele sarebbe deleterio per la Repubblica Islamica, sotto il profilo militare, politico e anche economico.
L’economia nazionale, infatti, versa in grave difficoltà. Il carovita, i salari bassi, l’inflazione persistente, la svalutazione della moneta e la scarsa crescita presentano un quadro preoccupante. Circa il 30% degli iraniani vive sotto la soglia di povertà; il costo elevato dei beni di prima necessità ha diminuito il consumo di molti alimenti, tra cui la carne, il riso e il latte. A gennaio l’Iran ha deciso di aumentare i prezzi del petrolio, ciò che ha provocato uno stallo delle transazioni economiche con la Cina, il suo primo partner commerciale. Le difficoltà economiche sono anche alla base della volontà iraniana di riaprire il negoziato sul programma nucleare. Durante la sua visita a New York il mese scorso, il ministro degli Esteri Abbas Araghchi ha dichiarato che tra i suoi obiettivi vi è quello di avviare una nuova tornata di discussioni su ciò che resta del Joint Comprehensive Plan Of Action (JCPOA), l’accordo sul programma nucleare iraniano del 2015.
Dal punto di vista della politica interna, il legame Stato-società è sicuramente molto fragile. A settembre è stato approvato dal Consiglio dei Guardiani il disegno di legge “hijab e castità”, che impone misure severe per il rispetto del codice di abbigliamento islamico imposto dall’alto sulla società. Questo decreto è giunto due anni dopo la morte di Mahsa Amini, che aveva dato avvio al movimento di protesta “donna, vita e libertà”. Le manifestazioni antigovernative si erano protratte per mesi nelle strade e nelle scuole del Paese, nonostante la forte repressione da parte delle forze di sicurezza. Se da un lato il sistema cerca di mantenere un solido controllo sulla popolazione, dall’altro il malcontento e la sfiducia verso l’establishment sono ancora molto diffusi e continuano a serpeggiare soprattutto tra i giovani. Ne è una prova il tasso di affluenza al voto per le presidenziali di giugno che, al primo turno, è stato del 39%, il dato più basso dalla nascita della Repubblica. Nella sua breve campagna elettorale, Pezeshkian aveva dichiarato di voler accogliere le richieste di maggiori libertà individuali e rispetto dei diritti delle donne, ma la struttura del sistema iraniano concede poco spazio di manovra al potere esecutivo, soprattutto su temi che riguardano quelli che sono considerati i valori fondanti della Repubblica.
Fino all’uccisione di Hassan Nasrallah, il 1° ottobre scorso, l’Iran aveva mantenuto un profilo basso. Dopo la morte del leader di Hezbollah, Teheran ha però deciso di intervenire lanciando oltre 200 missili balistici contro obiettivi militari e di intelligence israeliani. Teheran tuttavia ha annunciato in anticipo a Israele che avrebbe colpito, dando modo a quest’ultimo di prepararsi per neutralizzare i razzi. La Repubblica Islamica ha dichiarato che questo raid, molto più massiccio rispetto a quello di aprile, rappresentava una vendetta per le uccisioni di Nasrallah e Haniyeh. Dal punto di vista operativo esso non è però riuscito a compromettere i sistemi di difesa israeliani. La mossa iraniana apre scenari incerti, considerando che Tel Aviv ha già annunciato che ci sarà una risposta su vasta scala. L’attacco israeliano è previsto infatti nelle prossime ore. Come mai, quindi, Teheran ha deciso di colpire, sapendo che Israele non avrebbe tardato a reagire?
Il gesto iraniano può essere interpretato in due modi: da un lato, l’Iran deve dimostrare la propria capacità di reazione contro Israele, lasciando aperta la questione delle sue effettive potenzialità missilistiche e cercando di ristabilire la deterrenza. Dall’altro, con la morte di Nasrallah, Teheran perde un alleato cruciale e di lunga data. L’Iran ha perciò messo da parte la sua storica “pazienza strategica” e ha risposto a Israele anche per dar prova della propria capacità militare e mandare un segnale alle altre componenti dell’Asse della Resistenza.
Il Medio Oriente sta attraversando una fase estremamente complessa e delicata. Israele non appare più sicuro rispetto a un anno fa. La Repubblica Islamica, che per lungo tempo ha evitato uno scontro diretto con il suo nemico storico, sembra ora coinvolta a pieno titolo. Il Libano è sotto attacco israeliano, mentre migliaia di civili, sia palestinesi che libanesi, sono costretti a fuggire lasciando dietro di sé cumuli di macerie e vittime innocenti.
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