Dopo più di cinque mesi di vuoto istituzionale, l’Iraq è riuscito a dare vita a un nuovo governo. Ma la figura di Mustafa Al-Kadhimi ancora non convince la popolazione, che continua a protestare
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:40
«Il popolo è ancora forte», scrivono i manifestanti sui cartelli in piazza Tahrir a Baghdad. A sole quarantotto ore dalla nomina ufficiale del primo ministro iracheno Mustafa Al-Kadhimi, i cittadini iracheni sono tornati a occupare le strade e le piazze della capitale e delle principali città dell’Iraq centro-meridionale. In poche ore, nelle strade di Najaf, Babylon, Basra, Wasit, Diwaniyah, Karbala e Maysan si riversano migliaia di manifestanti, intonando «Il popolo vuole la caduta del regime», «Ci sacrifichiamo per l’Iraq con il sangue e l’anima» e «Respinto, respinto, Mustafa al-Kadhimi è respinto». La nomina del nuovo primo ministro, dopo oltre cinque mesi di vuoto istituzionale, 800 morti e oltre 26 mila feriti, non convince gli iracheni. Tutt’altro. Per i manifestanti, la sua figura rappresenta ancora una volta l’espressione di un sistema di potere, di relazioni e di clientele, frutto della muhāsasa tā’ifiyya – in arabo, la divisione del potere su base etnico-confessionale – che molti iracheni vorrebbero cancellare. Introdotto in Iraq dopo l’invasione statunitense del 2003, con il favore delle autorità americane, nel tentativo di fornire una rappresentanza proporzionale del governo tra i vari gruppi etnico-confessionali – sciiti, sunniti e curdi –, questo sistema è ritenuto da molti iracheni come la causa delle divisioni settarie e di una cultura della corruzione e del mecenatismo politico. Non sono sufficienti neanche le decisioni prese dal primo ministro appena insediatosi a calmare le proteste. Al-Kadhimi ha infatti promosso Abd Al-Wahab Al-Saadi capo dell’Iraq’s Counter Terrorism Service (CTS) – i Servizi Iracheni Antiterrorismo – ruolo dal quale era stato rimosso lo scorso ottobre e scintilla iniziale delle proteste. Il primo ministro ha inoltre dichiarato che il governo libererà tutti coloro che sono stati incarcerati per aver preso parte alle manifestazioni. Per gli iracheni, tuttavia, queste decisioni non sembrano sufficienti a dimostrare un reale cambiamento del sistema politico. Secondo alcuni attivisti raggiunti al telefono, «Se al-Kadhimi volesse davvero un cambio radicale, dovrebbe aprire un processo contro tutti coloro che hanno sparato e ucciso migliaia di giovani iracheni che protestavano pacificamente per un futuro migliore, incluso l’ex primo ministro Abdel Abdul Madhi. Non ci accontentiamo di queste briciole», dicono.
Un ex giornalista e capo dei servizi segreti, con amici da tutte le parti
Ma chi è Mustafa al-Kadhimi? E quali sono le ragioni delle proteste che attraversano l’Iraq da oltre sei mesi? Ex capo dei servizi segreti e giornalista, il neo-primo ministro è definito da numerosi esperti come una figura pragmatica, ben accolta sia dagli Stati Uniti, sia dall’Iran. Kadhimi, ai vertici del Servizio nazionale di intelligence iracheno (INIS), è stato nominato il 9 aprile dal presidente Barham Saleh in una cerimonia alla quale hanno partecipato le più importanti figure politiche irachene, a dimostrazione di un ampio ed esteso consenso proveniente dalla maggior parte dei blocchi politici. Nato a Baghdad nel 1967, ha studiato legge in Iraq, ma nel 1985 è scappato in Europa, prima in Germania poi in Gran Bretagna, per sfuggire alla repressione del regime di Saddam Hussein. Dopo l’invasione statunitense del 2003 che ha portato alla caduta di Saddam, Kadhimi torna in Iraq e contribuisce al lancio dell’Iraqi Media Network, oltre a lavorare all’archiviazione dei crimini commessi dall’ex regime presso l’Iraqi Memory Foundation. Continua poi il suo lavoro di giornalista per il sito di analisi delle notizie sul medio oriente Al Monitor, dove collabora come editorialista delle pagine di Iraq Pulse tra il 2013 e il 2016. Il salto di carriera avviene nel 2016, quando l’ex primo ministro Haider al-Abadi lo sceglie come capo dell’intelligence (INIS), al culmine della guerra contro l’Isis. È stato lì, dicono fonti vicine a Kadhimi sentite dall’agenzia internazionale AFP, che ha rafforzato i suoi legami e contatti, unici nel loro genere, con gli attori dei Paesi più importanti, inclusi Stati Uniti e Iran. Secondo Francesco Salesio Schiavi, assistente di ricerca all’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), a differenza dei due precedenti primi ministri designati – Mohammed Allawi e Adnan al-Zurfi –, «Mustafa al-Kadhimi sembra godere del supporto della maggior parte dei blocchi politici iracheni. La sua posizione ideale consiste da un lato nell’essere a conoscenza degli equilibri interni all’establishment politico iracheno e, allo stesso tempo, di non essere vincolato a quei partiti politici che le piazze accusano di inettitudine e corruzione. Allo stesso tempo, la sua nomina è stata ben accolta dagli Stati Uniti e sembra anche dall’Iran, forse non come migliore ipotesi, ma sicuramente preferibile a quelle precedenti».
L’Iran e il suo alleato Fatah, il blocco politico iracheno guidato da Hadi al-Amiri, avevano precedentemente posto il veto alla nomina di al-Kadhimi. Il mese scorso, Katā’ib Hezbollah, un gruppo armato vicino all’Iran e legato alle Unità di mobilitazione popolare (PMU), ha rilasciato una dichiarazione in cui accusava al-Kadhimi di avere le mani sporche di sangue per la morte del leader Abu Mahdi al-Muhandis e del generale iraniano Qassem Soleimani e di collaborare con gli Stati Uniti. Tuttavia, con il crollo del prezzo del petrolio e la pandemia di covid-19, il blocco di Fatah e al-Kadhimi hanno raggiunto dei compromessi. Nella scelta dei dicasteri del suo governo, al-Kadhimi ha dovuto accettare le pressioni e le richieste dei vari blocchi politici, in particolare quelli sciiti. Su un totale di ventidue dicasteri da assegnare, quindici sono stati approvati dal parlamento, cinque rifiutati e due, incluso quello del petrolio e degli affari esteri, rimandati per la mancanza di un candidato condiviso. Niente di nuovo, dunque, sia sui candidati, sia sulle modalità in cui sono stati scelti.
Oltre ai problemi di governabilità, Al-Kadhimi si trova a guidare un Paese con numerose criticità, a partire da Covid-19 (110 morti e 2800 contagi fino a oggi) e del conseguente crollo dei prezzi del petrolio, che stanno spingendo vicino al collasso l’economia del secondo Paese OPEC per produzione di greggio. L’Iraq potrebbe pertanto trovarsi sull’orlo di una calamità finanziaria e dover poi imporre misure di austerità, che avrebbero un impatto sulla fornitura di servizi, cibo, medicinali, e rinnovare le proteste anti-governative in corso da oltre sei mesi.
Alle origini delle proteste
Non è la prima volta che la popolazione irachena scende in piazza, esasperata per la corruzione generalizzata, l’assenza di servizi pubblici e il persistere di condizioni di vita insoddisfacenti. Nell’estate 2018 la città Basra, capitale del petrolio, aveva già vissuto una serie di rivolte violente a causa dell’assenza di acqua potabile e dell’intossicazione di circa 118 mila persone. Quest’anno, però, la protesta ha raggiunto proporzioni mai viste nonostante l’assenza di leader e di un’organizzazione strutturata. La scintilla in grado di scatenare le prime manifestazioni, iniziate lo scorso 1° ottobre, è stata la decisione dell’allora primo ministro Adel Abdul Mahdi di rimuovere dal comando delle forze antiterrorismo Adul-Wahab al-Saadi, considerato da molti iracheni l’eroe della campagna di liberazione contro lo Stato islamico. La ragione di questa scelta non è stata spiegata pubblicamente, ma molti iracheni sospettano che sia legata alla sua volontà di smantellare il sistema di corruzione ai vertici dello Stato iracheno. La decisione, accolta con rabbia sui social media, si è immediatamente trasformata in una protesta contro il governo, incapace di fornire servizi di base, creare posti di lavoro e sradicare la corruzione. Per comprendere le proteste in corso in Iraq è importante, però, considerare anche alcuni dati: quasi il 60% della popolazione in Iraq ha meno di 25 anni. Il tasso di disoccupazione giovanile è invece oltre il 36%. Gran parte degli iracheni ha dalle 5 alle 10 ore di elettricità al giorno e in molti casi nessuna fonte di acqua potabile. In uno dei Paesi più ricchi di petrolio al mondo, un iracheno su cinque vive al di sotto della soglia di povertà. Questi ragazzi e ragazze, nati poco prima del 2003 o a cavallo di quegli anni, hanno conosciuto solo la guerra e la violenza settaria e non hanno prospettive per il futuro. Per questa ragione protestano contro la corruzione dei partiti e contro una classe politica che, dal 2003, mantiene il potere grazie a un sistema settario, influenzato da milizie e attori esterni. I manifestanti chiedono, infatti, la fine delle interferenze straniere nel Paese e la riforma di un sistema politico settario che, a sedici anni di distanza dall’invasione statunitense, ha tradito le aspettative degli iracheni e ha infiammato le divisioni su base confessionale.
Tra i punti dell’agenda politica del primo ministro Al-Kadhimi c’è quello di riportare l’uso delle armi sotto il controllo del governo, tenere elezioni anticipate e impedire che l’Iraq continui a essere terreno di scontro per altri Paesi, ovvero Iran e Stati Uniti. In questi sei mesi infatti, le tensioni tra i due paesi non si sono mai placate. Dopo l’uccisione, lo scorso 3 gennaio, di Qassem Soleimani, comandante delle brigate al Qods del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica e di Abu Mahdi al-Muhandis, alto ufficiale a capo delle milizie irachene Katā’ib Hezbollah, le rappresaglie sono continuate e difficilmente si placheranno. A queste tensioni, si aggiunge la crescente insurrezione dello Stato Islamico, che ha intensificato gli attacchi contro truppe governative nelle scorse settimane. Le criticità, dunque, sono numerose. Intanto, le piazze irachene continuano a essere occupate con tende, sacchi a pelo e gazebi e la mobilitazione creativa e pacifica degli iracheni non si placa, nonostante la violenta repressione delle forze di sicurezza e delle milizie. «Il nostro virus sono il governo e i politici corrotti. Noi siamo qui per riprenderci l’Iraq», dicono da piazza Tahrir.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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